mercoledì 15 luglio 2009

Addio all'editor ucciso dal mercato


"La parola suona tecnica e misteriosa, ma tutti coloro che frequentano la scrittura, l’editoria, i libri, la conoscono bene. Si tratta dell’editing: e cioè quella procedura per cui, consegnato un manoscritto, qualcuno comincia a fare le pulci all’autore: segnala le lungaggini, i punti morti, quelli dove si è invece tirato via. E poi le trasandatezze stilistiche, le ripetizioni, gli eventuali errori di grammatica o sintassi, insomma ciò che non va nel nostro capolavoro. L’editor è in teoria colui o colei che ci aiuterà a portare il libro all’altezza delle nostre aspettative.
Figura benemerita? Non tutti sono d’accordo. C’è chi la rifiuta e chi ci scherza, come il Nobel sudafricano J. M. Coetzee, che nel Diario di un anno difficile fa ammettere al suo alter ego di aver bisogno di «un leggero editing» per i suoi manoscritti. I nemici del’editing non mancano. La critica Carla Benedetti, per esempio, si è scagliata di recente contro questa pratica che «pastorizzerebbe» la letteratura in funzione commerciale, mettendola al servizio del mercato. Poi si leggono i libri, e sorge il dubbio che il problema sia un altro. Non sarà per caso un falso bersaglio, questo editing in via di estinzione?
La scorsa settimana, sul Riformista, un articolo firmato con lo pseudonimo di Domenico Peste faceva le pulci ai finalisti dello Strega, scoprendo qui e là qualche distrazione, come «una macchina parcheggiata vicino al paese più vicino» in L’istinto del lupo di Massimo Lugli e un cadavere «ritrovato privo di vita» nel Bambino che sognava la fine del mondo, di Antonio Scurati. In quest’ultima caso la diagnosi è dubbia. E’ possibile che Scurati faccia il verso ai giornali, regno del refuso e di ogni tipo di errore, dati i tempi rapidissimi di scrittura e stampa. Un altro autore Ugo Barbàra, In terra consacrata, scrive che a un uomo d’affari l’eccessiva spregiudicatezza «era costata una catasta di protesti» (allitterazioni e cacofonia a gogò). Senza dimenticare, scrive ancora il Riformista, il lirismo di Filippo Bologna (Come ho perso la guerra): «Ad ogni figlio la vita come un incendio si mangia la boscaglia, si spingeva un po' più in là, sempre più lontana la guerra, e gli anni difficili delle agitazioni contadine, ormai la vita sempre più lontana dalla vita» in cui è difficile non perdere il filo del discorso. E i vecchi marpioni editoriali sorridono con una certa superiorità, ricordando che questi errori non sono mai decisivi per il successo o l’insuccesso di un libro. Anni fa, quando uscì Seta, il best-seller di Alessandro Baricco, ci si accorse solo con notevole ritardo che l’autore lasciava «sfarfallare» i bachi, cosa che non deve assolutamente avvenire perché il bozzolo si squarcia e non se ne può più ricavare il pregiatissimo filo. L’elenco delle sviste e, al proposito, sterminato, da Asor Rosa che scrive Curzio Maltese invece di Curzio Malaparte nella sua celebre Storia europea della letteratura italiana, a George Steiner che in Una certa idea di Europa si vede tradurre il titolo di una celebre poesia di Rilke, Arcaico torso di Apollo, in «antico busto»: per non parlare di Eugenio Scalfari che nella prima edizione di Alla sera andavamo in via Veneto aveva commesso alcuni errori di francese, sbertucciati all’epoca da Mario Cervi. La recente ristampa li ha riproposti tali e quali. Ora, se anche i Venerabili Maestri, come direbbero Arbasino e Berselli, non vengono seguiti con tutte le infinite cure che meritano, che accadrà agli altri? La risposta è persino ovvia. Il bravo Leonardo Colombati, in Rio, scrive, parlando di Londra, Savile road invece di Savile row, e fa arrivare la Circle Line fino a Oxford Street, cose che stupirebbe ogni londinese.
Anche Il codice da Vinci di Dan Brown rigurgita, fin dalla prima edizione, di errori e sviste d’ogni tipo, e non è detto che la cosa sia meno grave per il solo fatto che si tratta di best seller scritto comunque malissimo. C’è stato un tempo in cui Vittorini e Calvino tenevano inchiodati gli autori anche per anni, magari su una frase. O, episodio celeberrimo, c’è stato un editor che ha inventato Raymond Carver, costringendolo a scrivere frasi brevi ed elementari, quasi violentandolo, e facendone il padre del minimalismo. Si chiamava Gordon Lish, e sul nome ancora ci si scontra: Carla Benedetti, per esempio, lo considera il vero pericolo, il modello da evitare, il padre di tutti gli editor che uccidono la letteratura. Data la situazione, ha ancora senso discuterne? Ebbene sì, risponde Ferruccio Parazzoli, romanziere e funzionario editoriale, storico editor della Mondadori. «A patto di metterci d’accordo sulla parola. C’è un editing "principale", che si rivolge alla struttura del testo, e un altro che potremmo definire lavoro di redazione. Quest’ultimo riguarda le piccole imperfezioni, le scelte lessicali, le sviste, e si continua a svolgerlo con molta acribia, all’interno o all’esterno della casa editrice. Può accadere che qualche volta il lavoro non sia svolto alla perfezione, ma questo non inficia il principio. L’editing principale, che è invece importantissimo, si fa quando ne vale la pena». Parazzoli è convinto che l’editing dovrebbe essere sempre letterario: «Anch’io sono contrario a quello "uniformante"». Ogni buon libro ha diritto a un suo editing particolare, dedicato. Ben detto, ma è ancora possibile? Laura Lepri, editor indipendente, insegna questa delicata arte al Master di editoria della Fondazione Mondadori e conduce giornate di studio per conto dell’Aie, l’associazione degli editori. Non è convinta che la situazione sia così grave. Lei riceve richieste sia dagli editori sia dagli autori. «Si tratta di un investimento - spiega -. Certo, Calvino si prendeva un tempo enorme per "i libri degli altri"; ora tutto è più complicato. Però questo rimane un lavoro di servizio e di seconda linea, in cui si discute con l’autore sulla base del suo progetto e della realizzazione. Non ci sono autorità esterne, ma un libro che viene verificato insieme all’autore». Allora ha torto chi lo vede come un procedimento di omologazione appiattito sul mercato? «Queste polemiche sono provinciali; anche perché da noi il problema è semmai che non se ne fa abbastanza. Tant’è vero che spesso i libri escono "sciabattati"». Resta da chiedersi se dobbiamo scandalizzarci. Ma da esperto di lungo corso, è Parazzoli che invita a sdrammatizzare: «In ciabatte allo Strega? Se anche così fosse, non sarebbe una novità. Basta guardare con attenzione al passato: c’è da divertirsi, e non poco»." (da Mario Baudino, Addio all'editor ucciso dal mercato, "La Stampa", 14/07/'09)

Nessun commento: