Biblioteca civica "MINO MILANI" bibliogarlasco@yahoo.it tel. 0382/801009 "Le paradis, à n'en pas douter, n'est qu'une immense bibliothèque" (Gaston Bachelard) SELEZIONE DI ARTICOLI SULL'UNIVERSO-LIBRO
venerdì 31 luglio 2009
L'ubicazione del bene di Giorgio Falco
"La colonna sonora è il ronzio petulante delle motofalciatrici giapponesi, laborioso, a tratti rabbioso, interrotto da singhiozzi quando le lame maciullano una lumaca. Bambini ce ne sono, ma poche grida di giochi collettivi: stanno ciascuno in cameretta davanti alla Playstation. Se è domenica, davanti al box papà lava la macchina. Scene di vita periurbana nella pianura lombarda, parvenze di benessere conquistato all'ombra delle villette dei 'centri residenziali' venduti come piccoli paradisi della 'fuga dalla città'. Schermi che nascondono retroscena di depressione, solitudine, desolazione, perfino follia. Così almeno secondo Giorgio Falco, l'unico scrittore italiano che si sia accorto di quella malattia che si può chiamare suburbitudine, di quello scenario sociale che oltreoceano ha creato i racconti di Carver, i film di Altman, le fotografie di Shore o di Owens. Il suo libro di racconti, L'ubicazione del bene (titolo geniale, rubato al gergo catastale), pubblicato qualche mese fa da Einaudi, una collezione di storie disperate, a volte minimali e a volte estreme, ambientato nell'immaginaria Cortesforza, lottizzazione residenziale da qualche parte tra Abbiategrasso e Vermezzo, ha ricevuto grandi elogi dalla critica ma non si può leggere solo come un esercizio di stile letterario: sotto mentite spoglie è un saggio di sociologia urbana, il primo a descrivere una crisi che non fa rumore, il sordo 'male del nord', il tramonto del sogno del ceto medio affluente nell'era post-mercatista, lo 'stravaccamento' morale di quei maturi ragazzi che in anni ormai lontani chiamammo yuppie, preppie e con altri nomignoli infantilmente passeggeri. Falco, 42 anni, li osserva fin da bambino. Ne avvistò lo sbarco entusiasta e quasi prepotente, dalle station wagon prima che da suv, quando pedalava sulle stradine attorno ad Abbiategrasso. Vide piantare nel nulla della campagna urbanizzata i cartelli che annunciavano le future 'corti', i 'borghi' di un lusso finto-rustico. Ha continuato a osservarli per anni. Si è fatto un'idea: 'E' la più grande ma ignorata emigrazione di classe degli ultimi decenni, la prima a coinvolgere un ceto benestante, e come tutte le migrazioni di massa ha finito per corrodere l'anima delle sue vittime'. I deportati del benessere? Ma nessuno li ha obbligati. 'Certo che no. Hanno scelto. Hanno sfogliato i cataloghi delle immobiliari, hanno letto le descrizioni di paradisi residenziali "immersi nel verde" ma "a soli venti minuti dal Duomo", dove "far crescere i vostri figli in un contesto adeguato" oasi di pace dai nomi dolci, Eden, Green, o evocativi, Corte, Borgo. Hanno comprato, pagando caro, la villetta "terra-cielo" vista sul plastico, piantata in nessun luogo preciso, in un agglomerato edilizio che non sarà mai un paese. Dove il "verde" non è la campagna del Kent ma rettangoli di coltivazioe industriale, fabbriche di soia e mais, territorio senza identità né estetica. Dove il "contesto adeguato" finisce ai bordi del cortile, dove "vivere nella natura" vuol dire fare dieci chilometri per andare a comprare l'insalata in busta di plastica all'ipermercato, dove i "venti minuti dal Duomo" sono un'ora di coda in auto che ti sfinisce ...'. Così sembra un inferno. Allora i casermoni della periferia milanese cos'erano? 'Anche quelli erano il luogo di un'emarginazione sociale: dei ceti operai, degli imigrati meridionali. Ma era un'emarginazione palese, dichiarata, percepita come un sopruso, ed ebbe anche una sua epica di protesta e di riscatto collettivo, ebbe luoghi in cui quest'epica potè maturare, fossero il dopolavoro o il bar sport. Ebbe scrittori e registi che la raccontarono. Nulla di tutto questo nei posti come la mia immaginaria Cortesforza'. Cosa, invece? 'Una lateralità subìta, una delusione sorda, inconscia, un senso di tradimento avvertito solo dai più consapevoli, che sono quelli che soffrono di più'. Nell'Ottocento si parlò di 'architettura perniciosa'. Non starà dicendo che le villette a schiera fanno male allo spirito ... 'La villetta in sé non ha colpe. E' una merce, ma è stata venduta e comprata come un nuovo modo di vivere, anzi: come un nuovo modo di essere. Affascinante per la generazione dell'ascesa di classe, dell'arrampicata sociale. I figli dei ceti impiegatizi e operai, diventati ceto medio, hanno visto la fuga dalla città come un modo di rompere pericolosi legami con un passato che poteva ancora riprenderli: via dalla promiscuità del condominio, via dalla vita grama che hanno fatto papà e mamma. Ricordo un amico di famiglia che si trasferì in un posto chiamato Milano San Felice, verso Segrate, alla fine degli anni Settanta. Lo andammo a trovare, a me dodicenne sembrò un luogo da fumetti, c'era Linate vicino, gli aerei nel cielo ... Mi parve il paesaggio di una nuova era'. Che cosa non ha funzionato? Dove si è rotta la promessa? 'Non era una fuga dalla città per andare incontro a una vita più "a misura d'uomo" ... Era una fuga nel nulla. Anzi, no, nel caos. Attorno a questi grappoli edilizi non c'è un ambiente naturale, c'è un magma suburbano in movimento. Un campo coltivato può diventare, in un mese, un parcheggio o un centro commerciale, è territorio né più rurale né ancora urbano, sospeso in attesa di sfruttamento, una giungla tecnologica dove anche gli animali domestici sembrano sul punto di ribellarsi. Lo spazio non ha una direzione, non ha una direzione, non ha un ordine, ha solo un centro gravitazionale lontano che è sempre la grande città, il cui campo magnetico sconvolge ogni cosa. Non è decentramento residenziale, è quello che gli americani chiamano urban sprawl, con una parola che significa, più che dispersione, stravaccamento. Quando una società è stanca, si stravacca dove capita, sparge le sue membra in disordine. Questa è la suburbanità italiana'. Negli Stati Uniti è successo molto prima: a loro è andata meglio? 'L'America aveva spazi immensi. Le distese di quartieri di casette monofamiliari sorgevano davvero in un vuoto in cui era possibile costruire da zero la propria avventura familiare, come ai tempi della Frontiera. In Italia questo spazio vergine non c'è. C'è solo un territorio compresso, interstiziale, già stretto, che può solo essere stravolto da queste nuove intrusioni edilizie. Non oso pensare a cosa sta per succedere, che so, attorno agli antichi paesi della Toscana'. Lei vive in una villetta a schiera? 'In una vecchia casa del centro di Vigevano, con vicini normali, che incontro per le scale e saluto, ma che sono ancora lì forse per caso. Avrebbero potuto finire anche loro a Cortesforza'. Preda della speculazione edilizia. 'Non credo sia stato solo questo. Non sono uno che vede complotti dappertutto, ma quando una migrazione investe un'intera classe sociale, allora non credo che siano in gioco solo meccanismi economici di profitto. Disperdere il ceto medio sul territorio, allentarne i legami sociali può essere parte di un progetto politico. Non voglio semplificare, ma la zona dove ho collocato idealmente Cortesforza ha votato a destra. In questi agglomerati che non reiscono a diventare comunità, la politica cambia volto, si frantuma. E' paradossale, ma è qui, dove non esiste identità locale, che attecchisocno le liste civiche con nomi tipo "Insieme per". Non è segno di amore per il luogo, ma di terrore del vuoto'. Per mantenersi in contatto con il mondo ci sono nuovi strumenti ... 'Ma la contraddizione tra connessione virtuale e isolamento dei corpi può essere esplosiva. Hai l'e-mail, ma se spunti male la siepe fai a botte col vicino'. Non si può ceracre di "ubicare il bene" altrove, visto il fallimento di questo modello? 'Le immobiliari continuano a vendere "paradisi nel verde" con un linguaggio ormai pigro, di cui gli stessi acquirenti riconoscono la falsità. C'è come un'inerzia difficile da fermare. Ormai la gabbia dorata mostra le scrostature, tutti vedono che è solo smalto, ma non ci sono alternative. Nel mio libro, un personaggio, per ribellione decide di cucinare le cose del suo orto. Ma trova un verme dentro il cavolfiore'.". (da Michele Smargiassi, Profondo Nord. Suburbitudine, il male oscuro che colpisce i deportati del benessere, "Il Venerdì di Repubblica", 31/07/'09)
giovedì 30 luglio 2009
In quel 1981 fiorì la Rosa di Umberto Eco
"Il primo, e più dirompente, effetto del Nome della rosa fu quello di sdoganare il «giallo», traghettandolo trionfalmente nei piani nobili della cultura.
E che di «giallo» si trattasse lo rendeva palese, sia pure con un certo pudore editoriale, il risvolto di copertina della prima edizione: «Difficile da definire ... questo romanzo ... gothic novel, cronaca medievale, romanzo poliziesco ...». Una simile ammissione di colpa impediva che si ripetesse con Eco il giochino che aveva funzionato con Gadda e Sciascia: autori di capolavori polizieschi in nome e per conto dei quali si era deciso che «capolavoro» e «poliziesco» erano aggettivi incompatibili, con conseguente cancellazione del secondo. No. Eco aveva scritto, e lo rivendicava, un romanzo «giallo» di ambientazione storica. Aveva dato al suo protagonista il nome holmesiano di Guglielmo di Baskerville e gli aveva affiancato una spalla, Adso/Watson da Melk. E a pagina 31, esauriti i topoi del manoscritto ritrovato e del memoriale redatto in vecchiaia dal comprimario, metteva in scena Guglielmo con una presentazione del metodo abduttivo (induzione più deduzione, ma sorretta da un quid pluris di improvvisazione e fantasia) ricalcata dallo Zadig di Voltaire.
Grande esempio di onestà letteraria, il rapporto di complicità che Eco instaura immediatamente con il lettore. Ti sto portando nel territorio del mistero, del mistero tradizionale. È la mia prima volta - perché questo è il mio romanzo d’esordio - ma è anche la tua prima volta perché finalmente potrai vantarti in società di aver letto un «giallo» ... Personalmente, non ho mai letto le Postille che compaiono nelle edizioni successive del Nome della rosa: ho sempre preferito abbandonarmi alle suggestioni della memoria, cercare di percorrere sino in fondo quel sentiero di complicità suggerito dall’autore. Sentiero, ovviamente, irto di biforcazioni, come impone la presenza di una Biblioteca governata da un bibliotecario che risponde al nome di Jorge da Burgos ...
Ricordo, per esempio, che in quell’Italia del 1981 (pochi mesi dopo la strage di Bologna; da poco passato il boicottaggio fasullo delle Olimpiadi di Mosca, dove ci presentammo senza maglietta e senza inno nazionale, furbescamente pronti a ramazzar medaglie senza offendere troppo l’alleato americano; i brigatisti rossi che correvano verso la dissoluzione; le radio libere che si trasformavano rapidamente in radio private; i fermenti che agitavano la finanza milanese; i socialisti che prendevano le distanze dal Pci; il «movimento» che si risvegliava dalla sbornia ideologica per consacrarsi a quella alcolica; l’impegno che cedeva al «riflusso» ...) il rapporto fra l’ironico e disincantato Guglielmo e le gerarchie ecclesiastiche, da un lato, e, dall’altro, la tragica figura del dolciniano fra Venanzio mi fecero immediatamente pensare a una metafora del tumultuoso scontro fra i movimentisti del ’77 e il Pci. Al sogno, naufragato nel sangue, della Gerusalemme celeste vagheggiato dagli estremisti eretici contrapposto al pacato, elefantiaco, e (si credeva al tempo) conservativo incedere del pachidermico Partito comunista: Eco non insegnava al Dams di Bologna? E Bologna non era la città del movimento più scatenato e ribaldo, dei cori contro Zangherì-Zangherà, dei giovani artisti che esibivano con sciagurato orgoglio la siringa da sballo?
Però. Però una lettura così orizzontale, oltre a non rendere giustizia alla complessità e al fascino della Rosa, faceva passare in secondo piano la vera intuizione profetica di Eco. E cioè che la partita finale si giocava tra l’oscurantismo e la reazione (Jorge) e lo spirito laico (Guglielmo). Che, nella sua tenace e niente affatto rassegnata fiducia nel progresso, nel disagio manifestato per tutto ciò che sa di reazione, esclusione, conservatorismo, dimostra di essere molto più figlio dello Zenone dell’Opera al nero di Marguerite Yourcenar che - come pure si è detto - di fratello Cadfael di Ellis Peters.
Sta lì il cuore del libro, la scelta del lettore: stai dalla parte del futuro, o rimpiangi i roghi, e magari (Eco non lo dice, ma è facile arrivarci abduttivamente) il passo dell’oca? Ma chi ci andava a pensare, nel 1981? Chi poteva immaginare che il futuro ci avrebbe riservato stragi in nome di Dio, guerre sante, integralismo religioso? Eco, appunto. Il resto è Storia. Un successo planetario (chapeau!), un film lodatissimo, persino un divertente «contro-nome-della-rosa» in cui Loriano Machiavelli, il grande vecchio del poliziesco nazionale, riscrive Eco proclamando Adso colpevole sul campo ...
P.S. Varanasi, inverno 2008. Una piccola libreria sul Ghat 80 della città santa dell’induismo. Chiedo al libraio, per curiosità, se abbia qualche autore italiano. Sorride, e mi porge una copia del Nome della rosa. È in inglese, ma, aggiunge, da qualche parte deve esserci una traduzione in hindi. Gli chiedo se lo abbia letto. «Certo», annuisce, «è un grande libro religioso»." (da Giancarlo De Cataldo, In quel 1981 fiorì la Rosa di Umberto Eco, "La Stampa", 30/07/'09)
mercoledì 29 luglio 2009
Viaggio nell'ignoto
"[...] Da ragazzo, tra le mie letture preferite c'era una serie di racconti biografici, romanzati, dedicati all'infanzia, di vari americani celebri, per lo più maschi: Washington, Jefferson, Henry Ford, Thomas Edison. Un aspetto ricorrente di queste storie è il racconto di lunghe camminate che questi personaggi avrebero compiuto nei primi anni della loro vita in compagnia di un intimo amico, di un simpatico ragazzo indiano o di uno schiavo devoto, in zone inesplorate e selvagge: in altri termini, nei mondi inesplorati dell'infanzia, fuori dalla portata e dal controllo degli adulti. Benché pe rme il mondo inesplorato, da immenso che era, fosse ormai ridotto a una piccola area verde, e benché tante cose siano cambiate per il mondo infantile, dai tempi in cui un giovanissimo George Washington viveva le sue avventure in riva al Potomak, rimaneva un legame, un filo conduttore tra quell'esperienza e le mie gesta suburbane, sulla riva opposta di quello stesso fiume. Un continuum dell'infanzia, dalla Virginia del XVIII secolo al Maryland del XX, e a ritroso fino a luoghi immaginari dei libri: Narnia, Neverland, Prydain. Si trattava sempre dell'Ignoto, del mondo selvaggio e inesplorato. E quando penso al mondo fantastico e selvaggio dell'infanzia, quello che più mi colpisce oggi è il grado di libertà che i miei genitori mi concedevano. Da allora, nella nostra idea dell'infanzia, è subentrato un cambiamento estremamente significativo e gravissimo. Il Mondo inesplorato dell'infanzia è scomparso. Finiti i tempi dell'avventura. Il Paese in cui regnavano i bambini, dove ogni bambino poteva esiliarsi, per una parte almeno della giornata, dal confinante regno degli adulti, è stato da loro in gran parte avocato, cooptato, fino ad assorbirlo del tutto. Ogni viaggiatore impara presto che esiste un solo modo per conoscre una città, per imprimersi nella mente anche solo in via provvisoria, la sua topografia, per orientarsi nelle sue vie: quella di visitarla da soli, preferibilmente a piedi, fino a perdersi completamente. Nella mia vita sono stato a Chicago una mezza dozzina di volte, sempre per viaggi di lavoro; e tuttora non sono in grado di distinguere North Shore da North Side. Il fatto è che sono stato sempre prelevato in macchina; i monumenti e gli aspetti più notevoli della città mi sono stati illustrati da guide più competenti di me, esperte sia delle meraviglie della città, che dei suoi possibili rischi. Ecco perché per me luoghi come State Street, Halsted Street, The Loop, sono solo un confuso guazzabuglio di fondali o scenari da film, che ho visto scorrere rapidamente dal finestrino di un auto. Non diversamente, noi adulti escogitiamo per i nostri figli un sistema di programmi di accompagnamento porta a porta, pianificando per filo e per segno i mloro incontri, conducendoli in macchina a incontrare i compagni da una casa all'altra; e così facendo togliamo loro ogni possibilità di scoprire gli spazi inesplorati tra un luogo e l'altro. I più fortunati hanno il permesso di giocare nel cortile di casa, ben protetto da recinti o barriere, o addirittura - nei casi estremi - monitorati da un attivo circuito interno. A Berkeley, dove sono andato a vivere con la mia famiglia, ho conosciuto una bimba di nove anni che abitava nella casa accanto alla nostra; dall'altro lato, due portoni più in là, viveva da sempr eun ragazzino della stessa età; ma per quanto coetanei quei due bambini non si erano mai incontrati. Gli spazi liberi, un banco di sabbia, l'alveo di un torrente, un vialetto, un bosco, sono stati soppiantati d aun sistema di prenotazioni presso centri quali Chuck E. Cheese, The Jungle o Discovery Zone: ameni centri di internamento escogitati e pianificati dagli adulti senza lasciare il minimo spazio vuoto, tranne le porte con la scritta: 'Riservato al personale'. Quando vanno a correre sui pattini a rotelle o in bicicletta, i bambini escono di casa corazzati come per una battaglia, e ovviamente scortati dai genitori. Tutto questo ha le sue buone ragioni. Il fatto che i nostri figli crescano blindati, monitorati, protetti da barriere, confinati in zone di sicurezza certificate è in parte il risultato di una mentalità da 'Consumer Reports', dell'ansia per la loro sicurezza, della coscienza dei pericoli incombenti, sempre più diffusa in America. [...] I pericoli che minacciano i nostri figli, un tema ricorrente non solo nella nostra vita, ma anche nell'arte e nella letteratura di questi ultimi vent'anni, sono amplificati dla nostro senso di colpa per tutti i veleni che la nostra geenrazione sta lasciando loro in eredità: la moderna società industriale con tutti i suoi mali, in un mondo di conflitti, minacciato dall'inquinamento radioattivo, dal disastro climatico, dalla mercificazione, dalla sovrappopolazione. Un po' come è avvenuto con gli Indiani quando il senso di colpa nazionale nei loro confronti ci ha indotto a trasformarli in una sorta di oggetto di culto, oggi vediamo i nostri figli come feticci, troppo preziosi per essere esposti a un qualunque rischio, con un atteggiamneto ossesivo e morboso. E una volta creato un feticcio, ecco che il capitalismo interviene e trova il modo di usarlo per incentivare le vendite. Ma ciò che più mi preoccupa è l'impatto che tutto questo rischia di avere sullo sviluppo dell'immaginazione infantile. La libertà di cui ho goduto da ragazzo, oggi sembra inaudita, quasi impensabile. Recentemente, la più piccola delle mie figlie ha imparato, dopo le immancabili e tra grandi risate, ad andare in bicicletta. Ma ai primi attimi di gioia per quella nuova conquista è subentrato poco alla volta un senso di perplessità e did elusione, quando entrambi abbiamo dovuto renderci conto che non c'erano spazi per pedalare. Fin dove avrei potuto lasciarla andare? Potevo azzardarmi a lasciare che i miei figli andassero a giocare fuori all'aperto? All'angolo della destra, a meno di duecento metri da casa nostra, c'è un piccolo negozio di alimentari. Posso dare a mia figlia il permesso di arrivare fin lì da sola con la sua bici, e di vivere un piacere unico come quello di comprarsi un gelato in una calda giornata d'estate, e fermarsi a mangiarlo per strada, sola con i suoi pensieri? La piccola aveva imparato da poco ad andare in bicicletta quando una sera uscimmo insieme dopo cena: lei in sella e io dietro, a distanza di sicurezza. Mentre percorrevamo le belle strade del nostro quartiere in quella limpida sera d'estate, nell'ora che da bambino vivevo come il punto culminante, il momento magico della giornata, mi ha colpito l'assenza di altri bambini: non ne abbiamo incontrato neppure uno. Se anche mi risolvessi a dare a mia figlia il permesso di uscire sola a giocare all'aperto, ormai so che rischierebbe di non trovare nessun compagno di giochi. L'arte è una forma di esplorazione: un po' come salpare da soli verso l'Ignoto, verso i luoghi nons egnati sulle carte geografiche. Se non permettiamo, se non insegniamo ai bambini a cercare l'avventura, a vivere da esploratori, che ne sarà di quei mondi, di quelle storie? E che fine farà la stessa letteratura?" (da Michael Chabon, Viaggio nell'ignoto, "L'Espresso", 24/07/'09; apparso per la prima volta in The New York Review of Books)
Kis, la letteratura contro la barbarie
"Arrivato in libreria subito dopo Un incontro di Milan Kundera, Homo poeticus di Danilo Kiš (Adelphi, traduzione di Dunja Badnjevic) non ha, sin qui, sollevato lo stesso interesse e alimentato le stesse polemiche. Eppure, la controversa questione del rapporto tra letteratura e politica è trattata in modo ancora più esplicito. Eppure, Milan Kundera è il primo a venerare Kiš, come dimostrano le pagine di Un incontro che gli ha dedicato. Niente da fare: potenza dei nomi e della fama. Scrittore di culto (per un numero circoscritto di lettori) in vita, Kiš rimane tale in morte. Ciò non toglie che questa raccolta di saggi e di interviste dia parecchio da pensare. A partire da quel titolo, Homo poeticus, scelto a emblema di un´esistenza che non intende acconsentire all´unica e costrittiva dimensione dell´uomo inteso come animale politico - dato che il cuore di ciascuno, oltre che per la politica, batte e soffre per l´amore, per la finitudine, per una innata tensione metafisica. Quel titolo è un´affermazione di principio tanto più importante, vista l´appartenenza di Kiš alla composita e indefinibile comunità degli «jugoslovacchi», che il resto dell´Europa ha voluto confinare nell´asfittica dimensione di sanguinose lotte nazionaliste. Se si è imposto quel cliché, afferma Kiš, è anche per l´invadenza di quell´etichetta homo politicus, che ha finito per amputare l´intero continente del principale lascito dell´Europa centrale. Lascito che non era affatto politico, ma per l´appunto culturale. «Perché leggendo il polacco Andrzej Kusniewicz o l´ungherese Peter Esterházy, per citare solo due esempi, riconosco in loro, dal punto di vista dell´espressione, l´appartenenza a una certa poetica "centroeuropea" che me li fa sentire vicini? E qual è il suono, la vibrazione che colloca un´opera nel campo magnetico di quella poetica? È, prima di tutto, una presenza immanente della cultura, sotto forma di allusioni, di reminiscenze o citazioni dell´eredità europea nel suo insieme, la coscienza dell´opera, che tuttavia non danneggia la sua spontaneità, con un equilibrio bilanciato tra il pathos ironico e le digressioni liriche. Non è molto ed è tutto».
La vita di Kiš, nato a Subotica nel 1935 e morto a Parigi nel 1989, racconta la stessa storia. Di fronte all´immensa frode ideologica in cui il Nostro cresce, l´unica luce che riesce a portarlo fuori da quella dolorosa nebbia, è la letteratura: vera e propria «diga contro la barbarie». Ecco perché bisogna essere cauti nella critica di "impoliticità" rivolta a scrittori nati nei sistemi totalitari e che da quei sistemi si sono liberati. Quegli scrittori, Kiš ne è un folgorante esempio, hanno conosciuto in prima persona la gabbia unidimensionale della politica. Anche attraverso la figura obbligata dell´intellettuale engagé, completamente votato a contrastarne gli aspetti più atroci. Se quegli scrittori ribadiscono l´autonomia della creatività artistica è per questo motivo. Non è che la politica non li riguardi, come bene dimostra lo spasmodico interesse dell´autore di Giardino cenere nei confronti di chi ha patito soprusi, dolori, morte; nei lager e nei gulag. Insieme, però, emerge l´orgogliosa rivendicazione di uno spazio ulteriore, a favore di una espressività che non soggiace a vincoli, programmi, obblighi. E dunque può allungare il suo sguardo sull´esistenza tutta, compresi «i vertiginosi abissi del possibile». Ne consegue che, anche quando si occupa di un tema squisitamente politico, come nel caso di Una tomba per Boris Davidovic, Kiš ribadisce a voce alta che lui non ha scritto «un libro politico», ma un´opera letteraria, che come tale va giudicata. «L´azione che la letteratura esercita», aggiunge, «è invisibile, incalcolabile, ha conseguenze di lunga portata e al contempo nulle». L´homo poeticus sa di correre questo rischio." (Franco Marcoaldi, Kis, la letteratura contro la barbarie, "La Repubblica", 29/07/'09)
martedì 28 luglio 2009
TVUKDB. M'ama o non m'ama di Valentina F.
"Tanto per dare un po’ i numeri, Valentina F. a 17 anni vanta più di 300.000 copie vendute. I suoi libri furoreggiano fra gli adolescenti: mentre lei, fra quegli adolescenti, si nasconde. Dietro a uno pseudonimo e dietro alla saggia decisione sua e dei genitori di tenerla lontana, finché rimarrà minorenne, non solo dai media, ma anche da se stessa, o meglio, da quel poco di se stessa che, una volta diventata personaggio pubblico a tutti gli effetti, le rimarrebbe a disposizione. Così, nella convinzione che non solo il cosa, ma anche il come delle interviste debba somigliare il più possibile a chi ne è protagonista, per parlare con lei ho imparato a usare Facebook per un giorno. E’ lì che abbiamo chiacchierato, tramite due profili improvvisati e creati per l’occasione dalla casa editrice Fanucci, che in questi giorni pubblica l’ultimo libro della saga targata Valentina F., M’ama o non m’ama. Insomma, Valentina: prima ancora di riuscire a raccontarlo, l’amore, alla tua età, più che mai si vive. Come? «In modo totale; arriva all’improvviso e non puoi fare niente per contenerlo. È come se una mattina ti alzi pensando che sia una giornata come tante altre, ti prepari per andare a scuola, apri la porta di casa pronta a farti riscaldare dai raggi del sole e invece vieni investita da un tornado che ti lascia felice, ma anche sgomenta e spaventata».
E per quanto riguarda il saper parlare, di questo «uragano»? Quando avevo la tua età ricordo la prima (ahimè trascurata eppure folgorante) illuminazione sul fatto che i «maschi» e le «femmine» avessero bisogno di una specie di dizionario con cui tradursi reciprocamente, per intendersi ... è ancora così? «Noi ragazze amiamo parlare di emozioni, non c’è niente da fare; ci piace analizzare e cercare di capire ogni gesto o parola, e sicuramente siamo abbastanza disinibite nel confrontarci. Per quanto riguarda i maschi è tutt’altra cosa. Con loro non è facile affrontare certi discorsi; primo perché c’è un imbarazzo di fondo anche da parte nostra in quanto hai sempre paura di venire giudicata in modo sbagliato e secondo perché loro spesso sono impacciati, di poche parole e tendono a mettere tutto sul ridere».
Esistono ancora, come sono sempre esistiti, in un contesto scolastico, i «vincenti» e i «perdenti»? «Purtroppo le classificazioni esistono sempre e anche se non vuoi etichettare nessuno alla fine ti trovi coinvolta in queste definizioni. Generalmente il primo è quello che riesce sempre in tutto e ha molto successo con l’altro sesso. E’ una persona che attrae le persone come le api con il miele e tutti vogliono essergli amico perché viene invitato a ogni festa e la sua presenza è garanzia di successo. Il secondo invece è timido, introverso con poche amicizie, non lo invitano alle feste perché è diverso, magari anche solo perché vestito in modo differente dagli altri e così viene spesso messo in mezzo o addirittura ignorato dai suoi compagni».
Io ho vissuto l’adolescenza senza il contributo di telefonini, internet e, per l’appunto, Facebook. Questi strumenti quanto caratterizzano le vostre relazioni?
«Tantissimo; non riesco a pensare di non poterli avere a disposizione. Penso di essere, come quasi tutti i miei amici, dipendente! Senza il cell mi sento persa, fuori dal mondo, brrr… mi vengono i brividi solo all’idea. Come poter rimanere anche solo un’ora senza mandare un sms alla mia amica? Aspettare di arrivare a casa per sentire la voce del mio ragazzo? Pura follia! Internet è lo stesso, in larga scala; ti permette di parlare con tanta gente contemporaneamente; di fare amicizia stando a chilometri di distanza. Per non parlare del fatto di poter avere risposte e scoprire mille cose in un nanosecondo». A proposito di nanosecondi e di una velocità che rischia di caratterizzare tutto, si parla della tua generazione come una generazione di futuri precari, anche dal punto di vista affettivo: è un pregiudizio? «E’ un discorso complicato. Posso solo dire che in teoria si è sempre alla ricerca di storie serie e belle ma poi invece s’incappa solo in storie facili e poco impegnative. Forse c’è una profonda paura a creare qualcosa di profondo e duraturo».
Quindi almeno idealmente il principe azzurro e l’abito bianco sono ancora dei must?
«Assolutamente sì. L’amore che sto vivendo, per esempio, oggi mi fa dire con certezza che è bello credere nel principe azzurro perché quando meno te l’aspetti arriva con il suo cavallo bianco e ti porta via con sé. Ma questo non vuol dire che il matrimonio sia da mettere al primo posto; magari prima c’è l’università e poi un bel lavoro che ti piaccia!». Fra vent’anni Valentina F. sarà ... «In giro per il mondo a soddisfare la sua eterna curiosità!». :-) «:-)))»". (da Chiara Gamberale, Valentina F., un giorno verrà il principe azzurro e mi porterà via, "La Stampa", 28/07/'09)
Alice secondo Burton
"In 125 mila hanno preso d'assalto il Comic-Con di San Diego, il festival del cinema e del fumetto in crescita esponenziale negli ultimi anni, tanto che nel 2012 si trasferirà a Las Vegas. E in 6500 hanno affollato la sala dove sono state presentate le prime immagini di alcuni dei film più attesi della prossima stagione: Alice nel paese delle meraviglie di Tim Burton, A Christmas Carol di Bob Zemeckis e Tron: legacy. Tutti girati con la tecnica digitale per la proiezione in 3-D. A sorpresa sul palco è comparso anche Johnny Depp, il Cappellaio Matto del film di Burton accanto alla compagna del regista, Helena Bonham Carter.
'Ho finalmente deciso di fare un film realistico come quelli di Martin Scorsese' scherza ridendo Tim Burton, 'Con Alice volevo realizzare un film duro ... Intendo dire più vicino alla realtà che alla fantasia'. Il suo Alice in Wonderland (uscirà con questo titolo anche in Italia), la cui uscita in sala è prevista il 4 marzo 2010, è la prima "incarnazione" in 3D del celebre e filmatissimo romanzo di Lewis Carroll. 'Conosco ovviamente le svariate versioni cinematografiche o televisive di Alice. Mi ricordo persino un porno-musical che vidi negli anni 70. Ma in tutti mi sembra di vedere sempre la stessa ragazza, passiva, che passa da un episodio all'altro ignara, circondata da strani personaggi' dice il regista. 'Mentre secondo me in Alice non c'è solo Alice. Voglio dire che il mio film è tratto da diversi libri Carroll, compreso Attraverso lo specchio e altri scritti. Ho fatto un pot-pourri ispirato a immagini simboliche suggerite dalla sua opera, immagini che hanno generato momenti narrativi classici e immortali per i bambini'. Quali sono state le innovazioni tecnologiche più interessanti per lei in questo film? 'E' la prima volta che lavoro con tanto green screen e c'erano dei momenti in cui sia io che la troupe dovevamo ricordarci a vicenda chi eravamo e cosa stavamo facendo. Ancora oggi sono un po' confuso e nervoso all'idea di presentare un film che non è ancora finito, in cui stiamo provando tante cose diverse. Il film usa svariate tecniche, mischiando animazione e azione dal vivo. Per motivi personali non volevo usare il motion capture, quando hai attori bravi come questi l'obiettivo è usarli, non riempirli di pallini verdi e metterli in un computer. Ma sono tutte tecniche valide, intendiamoci, non è che una sia migliore dell'altra'. Continua ad essere convinto dunque dell'uso del 3D? 'Sì, ma solo se non è un trucchetto per far andare la gente al cinema, ma arricchisce l'esperienza cinematografica. Per esempio Alice che si rimpicciolisce diventa un'esperienza visuale più ricca in 3D. Ma quello che conta è sempre la storia, e infatti bisogna poter vedere un film anche in 2D per decidere se è un film che si vorrebbe vedere comunque'. Tim Burton e Alice sembrano un binomio perfetto: un amore che risale alla sua infanzia? 'Sì e non solo grazie ai libri di Carroll: intorno a lui si è creato un immaginario fatto anche di musica e canzoni rimasto nella testa di tante generazioni ed è importante per l'inconscio. Io però ho cercato di farlo in modo diverso. Non ho mai visto un film su Alice che mi fosse piaciuto fino in fondo. Sebbene le storie e i libri di Carroll siano icone della storia della letteratura, non ho mai trovato un film che trasformasse davvero quelle storie in cinema. Questo sarà il mio tentativo. Ho cercato di dare alla storia una cornice emotiva che prima non c'era. Ci sono sempre strani personaggi, ma ognuno, nel suo immaginario, porta con sé un tipo specifico di stranezza mentale che appartiene a tutti noi'. Si può spiegare meglio? 'E' il concetto universale di questo tipo di storie, come Il mago di Oz: sono sempre un viaggio interiore, i personaggi rappresentano qualcosa dentro la psiche umana, quello che ogni bambino prova nel cercare di risolvere i suoi problemi. Poi c'è chi va in terapia e chi fa film. Sento una grande affinità con questo materiale: senza nemmeno saperlo ho comprato a Londra lo studio che era stato di Bessie Pease Gutmann, l'illustratrice che aveva disegnato la versione del 1905 di Alice nel paese delle meraviglie'. Come ha scelta il cast? 'Mia Wasikowska, che interpreta Alice, l'ho scelta perché volevo una persona che avesse un peso, una gravità, in cui senti che c'è una vita interna'. E Helena Bonham Carter? 'Helena ha una grossa testa, sembrava perfetta per il personaggio della Regina Rossa'. E Johnny Depp come Cappellaio Matto? 'Gli piace travestirsi. I personaggi di Alice sono spesso stati ritratti nella loro follia senza troppo sottotesto. Penso invece che Johnny abbia provato a portare qualcosa, una qualità umana sotterranea dentro la pazzia, ha cercato di capirla più a fondo. Abbiamo cercato di dare a ogni personaggio la sua particolare follia e lui è bravissimo a esplorare queste vie. Credo perché lui stesso è pazzo'." (da Silvia Bizio, Alice secondo Burton, "La Repubblica", 28/07/'09)
domenica 26 luglio 2009
Amazon cancella Orwell da Kindle
"Quante volte il vostro libraio di fiducia si è introdotto furtivamente in casa vostra per riprendersi quello che vi aveva appena venduto (restituendo però correttamente i soldi da voi spesi, lasciandoli sul vostro comodino)? Vi è successo eccome, se siete clienti di Amazon.com — la libreria via Internet più grande del mondo — e possessori del lettore elettronico Kindle, una specie di grosso iPod che non contiene musica ma libri, scaricabili via Internet senza fili e leggibili tramite il grande visore delle dimensioni di un libro tascabile.
La notizia, che in prossimità del 1˚aprile non sarebbe mai apparsa sui giornali perché è tanto paradossale da sembrare un proverbiale, memorabile, incredibile «pesce» è questa: molti clienti di Amazon che avevano comprato le edizioni elettroniche di 1984 e La fattoria degli animali di George Orwell si sono accorti nei giorni scorsi che quei libri erano spariti improvvisamente dal loro Kindle. E che la cifra spesa per acquistarli era stata rimborsata sulla loro carta di credito. Un guasto? No: Amazon, con una mossa francamente inquietante e per la quale si è immediatamente scusato, si è collegato ai Kindle dei clienti e ha cancellato senza avvisarli quei due testi, regolarmente acquistati. Amazon aveva rilevato un problema di copyright, i responsabili delle due edizioni elettroniche non erano cioè titolari dei diritti sui lavori di Orwell, una sorta di pubblicazione abusiva. Le modalità certo lasciano perplessi: è chiaro che i clienti avrebbero dovuto essere almeno avvertiti del problema. E’ così finita inevitabilmente sotto accusa la scelta fatta da Amazon di agire direttamente calpestando privacy, buona educazione e — garantiscono numerosi giuristi americani che via Internet si sono immediatamente scatenati sulla questione — in violazione del contratto sottoscritto dai clienti Kindle.
Il fatto che la cancellazione dei file — su un Kindle di libri ce ne stanno a centinaia — abbia colpito proprio George Orwell, e in particolare i suoi due libri più famosi, j’accuse di quel grande contro i pericoli del totalitarismo, rende l’incidente ancora più imbarazzante. Certo, da una parte bisogna ammettere che nella giungla dei diritti d’autore è sempre più difficile orientarsi. Ma un gigante come Amazon, che ha utili di oltre mezzo miliardo di euro all’anno e varie filiali nel mondo tra Giappone, Germania, Francia, Regno Unito (non esiste Amazon Italia, però, anche a causa degli evidenti problemi del nostro servizio postale che danneggiano il commercio online) dovrebbe sapere quali libri può vendere e quali invece sono off-limits per questioni di diritti. Perché la tecnologia che permette di comprare 1984 comodamente senza passare dalla libreria è la stessa che dà al Grande Libraio il potere di riprendersi la sua merce senza avvisare. E, verrebbe inevitabilmente da dire, tutto ciò è parecchio orwelliano." (da M. Per., Amazon cancella Orwell da Kindle, "Corriere della Sera", 22/07/'09)
Povere biblioteche d'I-taglia
"Provate a entrare in una biblioteca pubblica italiana, ad esempio la Sormani di Milano; si ha la sensazione che il bibliotecario consideri il lettore un nemico, un antipatico flaneur, un fannullone. Si rimane sconcertati dai tempi di attesa per avere un libro in consultazione e spesso le sale sono troppo rumorose per dedicarsi alla lettura. E sorprende ancora di più non trovare opere di autori viventi, ma già classici, come Alberto Arbasino. Nelle biblioteche italiane l'orario è assurdo: quasi impossibile per chi lavora durante il giorno trovarle aperte di sera (come succede in tutta Europa, dove sono accessibili fino a mezzanotte e anche di domenica). Aggiungiamo che il prestito è scoraggiato. Per lo studioso, l'unica chance di avere un libro in consultazione in tempi ragionevoli è affidata alla conoscenza personale del bibliotecario. Spesso biblioteche civiche di provincia, che contengono fondi appartenuti a studiosi insigni o conservano biblioteche di famiglie aristocratiche, sono 'dirette' da segretari comunali (non esperti bibliotecari dal curriculum comme il faut), che trasformano la biblioteca in stanze di ricevimento per amici. Negli ultimi 25 anni molte biblioteche pubbliche si sono 'modernizzate' cercando di attirare nuovi utenti, adottando degli spazi più simili a quelli di librerie o di negozi. In qualche comune si pensa anche di realizzare una piscina per l'estate, assumendo dei bagnini per la distribuzione di libri. Il miraggio è quello di alcune biblioteche americane o europee, come la Openbare Bibliotheek di Amsterdam, dove il settore tecnologico è al top, dove l'accesso a internet è libero e i lettori possono bere e mangiare, passeggiando tra comodi scaffali aperti nelle sale. In Italia l'esistenza di biblioteche di conservazione rende difficile l'idea di una biblioteca più à la page. Alcune hanno però saputo trasformarsi diventando un luogo gradito allo studioso: a Pistoia si trova una delle biblioteche più moderne e frequentate della Toscana; in Emilia Romagna primeggiano la Panizzi di Reggio Emilia, la Delfini di Modena e soprattutto la Ariostea di Ferrara, luogo di forti emozioni per la storia che vi hanno illustrato personaggi come Ariosto e Paracelso. Accanto alle sale severe, in un andito buio si scopre l'altare profano dedicato al culto di Vincenzo Monti (è conservato il suo cuore in un'ampolla), ci sono giardini interni dove gli studenti possono mangiare e bere conversando con gli studiosi che cercano un momento di tregua dalle sudate carte. Lo studioso avvezzo a peregrinazioni e ricerche conosce altri spazi di eccellenza. A Milano si trovano vere isole di cultura, come la Braidense o la Trivulziana. Quest'anno ricorre il quarto centenario dell'apertura al pubblico (1609) della Biblioteca Ambrosiana. Il responsabile, monsignor Buzzi, annuncia che per festeggiare la ricorrenza, dal 10 settembre e per sei anni consecutivi sarà esposto il Codice Atlantico di Leonardo. Nel 1816 lord Byron andò in estasi per la collezione di manoscritti della Biblioteca Ambrosiana creata dal cardinale Federico Borromeo. Non solo: rubò anche una ciocca di capelli di Lucrezia Borgia. Oggi, assicura Buzzi, un furto del genere sarebbe impossibile. Quel che resta della ciocca di Lucrezia Borgia, è ora visibile nelle sale della Pinacoteca. Il direttore della Biblioteca Nazionale di Napoli, Mauro Giancaspro, commenta sconsolato i magri o addirittura assenti fondi destinati al funzionamento delle biblioteche pubbliche italiane: 'I tagli presenti nel bilancio dello Stato sono un errore: la biblioteca ha un ruolo sociale di rilievo, inoltre non è solo un luogo per raccogliere informazioni, è anche un luogo di emozioni'. A Napoli infatti la Biblioteca Nazionale conserva i capolavori dei Farnese, degli Aragonesi, dei Borbone (al direttore Giancaspro è capitata la sorte di avere come ufficio la stanza dove è nato Vittorio Emanuele III ...). Lo studioso che si avventuri negli spazi della Nazionale (l'entrata è gratuita) può godere di un'ebrezza anamnestica, in cui tempi e luoghi lontani irrompono nell'attimo e nella contemplazione di antiche pietre. Giancaspro è orgoglioso della 'sua' biblioteca: 'le porte della Nazionale sono aperte a tutti, soprattutto ai napoletani, che quando varcano per la prima volta la soglia esprimono il loro stupore: "e chi andava all'idea?" ("chi poteva immaginarlo")'. Il personale attuale della Biblioteca è di 280 unità. Si deve occupare di 20.000 mq, con 2 milioni di libri. L'eccellenza della Nazionale, osserva Giancaspro, è frutto anche di 'situazioni acrobatiche': con grandi sacrifici e turni di lavori l'apertura della Biblioteca è garantita anche ad agosto dalle 8.30 alle 19.30. A Torino l'Accademia delle Scienze riceve dal Ministero un contributo che è diminuito negli anni da 92.000 (2002) a 69.320 euro (2008). Nella capitale sabauda, la Biblioteca Nazionale Universitaria vive una sistuazione drammatica: i magri fondi del Ministero per i Beni e le Attività culturali non permettono più di aggiornare la cospicua e originale raccolta sul diritto, l'arte e il cinema. Le materie scintifiche sono le più penalizzate. Nel 2005 i fondi ministeriali per l'acquisto di libri erano stati di 390.000 euro, scesi nel 2008 a 216.000 euro. Nel 2009 il fondo annunciato è di 159.000 euro. Negli anni Novanta nella Biblioteca lavoravano 140 persone, adesso sono rimasti in 80. L'ultimo concorso per bibliotecario risale al 1999 e ha fatto arrivare un solo nuovo addetto. Questo è il quadro. I tagli del Ministero per i Beni e le Attività culturali pesano su molte delle biblioteche più importanti del Paese. E penalizzano il ricercatore, costretto a costruirsi un prorpio fondo a casa (il filosofo, ad esempio, può trovare prime edizioni di Hobbes ma non studi recenti sul pensatore inglese). Per questo motivo l'abitazione di uno studioso italiano diventa un magazzino ingombro di libri che invadono spesso la cucina e il bagno. Come ha ossevato in varie occasioni Tullio De Mauro, un professore americano o francese ha pochi libri in casa, per la semplice ragione che, a differenza dei colleghi italiani, può contare su ottime biblioteche nella città in cui vive." (da Roberto Coaloa, Povere biblioteche d'I-taglia, "Il Sole 24 Ore Domenica", 26/07/'09)
sabato 25 luglio 2009
Vacanze in casa Chagall
"Ringrazio il destino, per avermi condotto sulle rive del Mediterraneo». La riconoscenza di Moishe Shagal, alias Marc Chagall, non era affatto gratuita: il destino ha dovuto rincorrerlo sino ai quattro angoli del mondo, prima di portarlo a Saint-Paul de Vence, nel Sud della Francia. Qui è sepolto oggi, in un piccolo cimitero affacciato sulla riviera e immerso in quel verde unico al mondo i cui profumi, anche volendo, non li dimentichi più e c'è da giurarci che, ovunque sia adesso, lui li senta ancora. Chagall torna in Francia come «si riscopre una donna amata», per non lasciarla mai più. E' il 1946, arriva dall'America dove è approdato nel 1941 fuggendo dalla guerra e dalle persecuzioni naziste. Nel 1944 ha perso la sua amata Bella per un malanno apparentemente banale. Arriva a Parigi. Ma non solo. Già nel 1949, trascorre quattro mesi alla Tériade di St-Jean Cap Ferrat, dove dipinge con slancio, soprattutto acquerelli. Soprattutto un blu liquido, eppure caldo. E' il Mediterraneo che lo sta conquistando. L'anno successivo ha una casa tutta sua, un magnifico giardino, frutteti e sole: Chagall approda a Vence insieme a Virginia, la domestica badante divenuta nel frattempo amante. Il sogno della famigliola felice (Virginia ha una figlia sua e uno nato dal pittore. Ha anche più o meno l'età della primogenita di Chagall, Ida) s'infrange ben presto. Virginia lo lascia, ma il giorno stesso - nell'aprile del 1952 - arriva Vava. Chagall è così: non può fare a meno di avere una donna per casa. Vava Brodsky (lontana parente del poeta) lo accompagnerà fino alla fine, riportando in casa la mameloshen, la lingua «mamma», lo yiddish ma anche il russo e i suoi profumi di cucina.
E' con Vava, che a poco a poco s'impossessa di lui, lo avvolge di premure, protezione, dominazione e fors'anche di amore, che Chagall arriva a St-Paul de Vence, nel 1966. Qui resterà fino alla morte, il 28 marzo del 1985: è il luogo del mondo dove il pittore è rimasto più a lungo. Forse, la sua unica vera casa. St-Paul sta diventando una specie di ombelico, anzi di ventre materno, per i grandi artisti dell'epoca. Non lontano di qui abita Picasso, con cui Chagall ebbe sempre un rapporto conflittuale, di spietata competizione (non solo artistica: Picasso aveva riso della grossa sapendo che l'altro era stato scaricato dalla giovane compagna. Se non che, a meno di un anno di distanza gli era capitata la stessa cosa...).
«La Colline», com'è chiamata la casa di St-Paul, è più comoda perché lo studio del pittore sta al piano terra, ha soltanto due piani e Vava ci installa pure l'ascensore. C'e un magnifico giardino cintato e soprattutto c'è la prossimità con i coniugi Maeght, suoi agenti, custodi d'amicizia e di sostegno affettivo. E' qui a St-Paul de Vence che Chagall tornerà alla Bibbia, come se questo magnifico paese arroccato sulle colline, con il mare davanti e i profumi della Costa Azzurra dentro l'aria che respiri, lo potesse riportare a origini dimenticate, a rimpianti acquattati in fondo alla memoria, a ricordi remoti. Chagall ha più di ottant'anni, ma comincia a girare il mondo per dipingere vetrate strabilianti, volte immense, case di preghiera (ebraiche e cristiane, e quando lavorava dentro la fede non vuole farsi pagare): Israele, il Nord della Francia, l'America. Le vetrate, le chiama «la barriera trasparente fra il mio cuore e quello del mondo».
Ma torna sempre a St-Paul de Vence, che è diventato il luogo cui il pittore appartiene, non soltanto un posto dove il destino l'ha spedito per qualche tempo. St-Paul de Vence è come Vitebsk, l'una a un capo e l'altra a quello opposto della sua lunga vita. Vitebsk, dov'è nato nel 1887, resterà per sempre il luogo di nostalgie inguaribili, e la sua ispirazione mai se ne liberò anche se tanti anni dopo, ultranovantenne, Chagall tornerà in Russia per una breve visita ma non se la sentirà di rivedere la propria città. Ha buona ragione di temere che i propri ricordi facciano a pugni con il presente. La sua Vitebsk resta per sempre quella delle casette di legno, delle capre che pascolano per le vie sterrate. E che dipinge sempre e ovunque, in qualche angolo della tela, sullo sfondo, nei sogni che stanno dentro i suoi colori. Non lontano da St-Paul de Vence, a Cimiez che è una collina alle spalle di Nizza, sorgerà a poco a poco il museo dedicato a lui e al suo messaggio biblico, inaugurato il 7 luglio del 1973. Chagall è stato il primo artista di Francia ad avere un museo tutto suo, da vivo: «Prego quando dipingo», diceva in quegli ultimi tempi, quando qualcuno, dopo averlo conosciuto, lo definì un curioso miscuglio di Charlie Chaplin e Mefistofele. La Bibbia di Chagall è colori, narrazione, stupore, gioia e sgomento. E' strazio e ironia, è tante di quelle cose che bisogna guardarla: nelle litografie, negli schizzi, nelle strabilianti opere monumentali che ti si fermano davanti agli occhi e nel cuore e non vanno più via. L'arte è anche e soprattutto del cuore, oltre che della testa, diceva sempre.
St-Paul De Vence è il luogo dove Chagall si è fermato per sempre. Non gli si può dare torto. Tutto, qui, traspira serenità. I colori del paesaggio sembra che li abbia messi lui: il celeste del mare e quello lassù. Il verde intenso ma non aggressivo, i pastelli delle case e delle strade, le fioriture strabilianti. A «La Colline» Chagall trova una pace nuova, insieme a una lunga vecchiaia. Va spesso a mangiare a «La Colombe», una specie di trattoria che a poco a poco diventa un formidabile cenacolo e una galleria d'arte non meno eccezionale, perché anche i pittori mangiano, a «La Colombe» si mangia bene e a St-Paul ci sono quasi più pittori che piante di lavanda. Chagall cammina molto. Poi una sera, uscendo dall'ascensore al primo piano, dopo la giornata trascorsa come sempre in studio, sente un dolore al cuore. L'ultima sua passeggiata è verso il piccolo cimitero, dove ancora riposa, fedele alla sua St-Paul de Vence." (da Elena Loewenthal, In Costa Azzurra i colori del Paradiso, "TuttoLibri", "La Stampa", 24/07/'09)
giovedì 23 luglio 2009
Lady Chatterley, un processo per assolvere la letteratura
"E' un libro spartiacque, un segno originale e radicale la cui liberalizzazione equivalse a una svolta non solo culturale, ma sociale e di costume: il 21 luglio del 1959, giusto cinquant'anni fa, L'amante di Lady Chatterley (Lady Chatterley's Lover) conquista libertà di circolazione negli Stati Uniti. Episodio rilevante molto aldilà del campo letterario: l'affrancamento del romanzo più famoso e discusso dello scrittore inglese David Herbert Lawrence imprime l'avvio a un'era nuova nell'America inquieta e puritana anni Cinquanta, aprendo il varco ai permissivi anni Sessanta. Storia peccaminosa, come tutti sanno, di un'irresistibile passione sessuale tra una Lady vogliosa d'amore e il guardiacaccia Mellors uomo prestante e infuocato d'erotismo, capace di soddisfare con perizia gli istinti della nobildonna mortificati da un marito algido e impotente, Lady Chatterley's Lover, uscito per la prima volta a Firenze nel '28 presso lo stampatore Pino Orioli (tanto scabroso è il manoscritto che la dattilografa assunta per ricopiarlo si ferma sconvolta al quinto capitolo), ha già turbato molti lettori quando, il 15 maggio del '59, Barney Rosset, responsabile della casa editrice Grove Press, fa causa al Ministero delle Poste americano per aver confiscato copie della versione non censurata del libro. Le premesse sono tutt'altro che favorevoli a Rosset, essendo in vigore in America, fin dal 1973, una legge che proibisce le pubblicazioni oscene considerate tali in base a quanto nell'accezione sociale più comune, può definirsi 'libidinoso, lascivo e indecente'. E solo due anni prima, nel '57, la Corte Suprema degli Stati Uniti ha stabilito che il Primo emendamento della Costituzione, garante della libertà di parola, non può essere applicato al linguaggio osceno, che è quindi fuori legge. Le cose dunque non sono facili. L'avvocato Charles Rembar, assunto da Rosset, sa che Lawrence si è lanciato nella descrizione degli amplessi tra i due amanti, oltre a tutto socialmente diversi e lontani, con un verismo senza precedenti. Nel capanno dei loro incontri, in sintonia con la natura attorno e nella più esultante immersione nella rispettiva animalità, l'aristocratica Connie e il suo rude innamorato non solo danno sfogo alle proprie fantasie più sporcaccione, ma ne parlano in modo allegramente esplicito, lieti di accendersi a vicenda anche con le parole del sesso, nominando zone del corpo e atti sessuali variegati: un rifiuto del 'discorso' verbale leggibile come feroce critica da parte di Lawrence, allo sterile intellettualismo del suo tempo. E tra i tabù violati dal romanzo spicca l'assunzione attiva del piacere femminile in un'epoca in cui la donna, a maggior ragione se appartenente a una classe alta, è bandita pe principio dalla più pericolosa tra le categorie di godimenti carnali. Malgrado tutto Rembar trova un escamotage, segnalando come l'obiettivo del Primo emendamento sia 'assicurare senza limiti il libero scambio delle idee', anche le più controverse e non ortodosse, se portatrici di valori di 'riscatto sociale'. E arriva a indicare concretamente in tribunale le pagine dell'Amante di Lady Chatterley associabili a quella nozione nell'intreccio scottante dei rapporti di classe. A dargli man forte interviene a un certo punto in giudice Bryan del Southern District di New York, che prescindendo con arbitrarietà dalla visione di Lady Chatterley come eroina-simbolo del risveglio culturale e sociale dell'Europa anni Venti, traduce il libro in una specie di manifesto etico pronto a colpire il sesso senza amore e l'ipocrisia della morale. Il 21 luglio del '59 è lo stesso Bryan ad attribuire alla Grove Press la palma della vittoria e a ordinare al Ministero delle Poste di far spedie in giro dall'editore le copie del romanzo senza alcuna restrizione. Il che equivale alla fine del potere del Ministero stesso di vietare la distribuzione di un'opera letteraria giudicata 'oscena'. L'anno dopo, nel '60, quando Lawrence è ormai morto da un trentennio, anche l'Inghilterra chiude i conti con la tragsressiva Lady, fino a quel momento accessibile solo in versione depurata. Nel '59 una nuova legge inglese ha corretto in parte le limitazioni censorie precedenti, stabilendo che qualsiasi libro, prima di essere proibito va giudicato nella sua totalità, e che la Corte deve avvalersi dell'opinione di lettori esperti. La Penguin Books prova a vagliare subito l'atto legislativo sfornando in edizione economica non purgato. Scatta la denuncia e nella sede dell'Hold Bailey di Londra parte un processo spettacolare, scandito da sei udienze attraversate da un fiume di parole sconce, gridate e ripetute con morbosità osessiva, citandole direttamente dal libro, dal pubblico accusatore che tenta di portare la giuria verso una condanna. Stila la lista delle copule descritte ('non meno di tredici secondo i miei calcoli) paragona le congiunzioni 'lubriche' di Lady Chatterley a quanto accade a Charing Cross Road, nell'area londinese del vizio, si indigna contro le perversioni di Connie, 'guardata non solo dall'esterno, ma per così dire dall'interno'. Però i testimoni a favore del libro sono troppi: una settantina, sebbene in aula venga ascoltata solo la metà. Scrittori, poeti, critici, e persino sacerdoti. Richard Hoggart, l'autore di The Uses of Literacy, dichiara che l'opera di Lawrence non solo è 'virtuosa', ma va acclamata per il suo 'rispetto per il peso delle palle di un uomo'. I tempi sono cambiati, il moralismo vittoriano è al tramonto, stanno per irrompere i Beatles e le minigonne: l'impudica Lady Connie e il suo selvaggio guardacaccia meritano di essere assolti. Tra il 1925 e il 1928 in Toscana, D. H. Lawrence, aveva firmato tre stesure del romanzo, diverse per forma e sostanza. Se la prima (presentata in italiano nel '91 da Guanda) è la più casta, delicata e romantica, la terza come scrisse Guido Almansi, incarna 'l'esaltazione dell'uomo fallico'. Di un approccio all'erotismo brusco, diretto, solare e non cerebrale si nutre la seconda versione, che uscirà in Italia in settembre pubblicata da Donzelli e con la prefazione di Nadia Fusini." (da Leonetta Bentivoglio, Lady Chatterley un processo per assolvere la letteratura, "La Repubblica", 22/07/'09)
martedì 21 luglio 2009
Zia Mame di Patrick Dennis
"Eccentrica, capricciosa, scialacquatrice, generosa, istriona, esibizionista, nemica dei luoghi comuni e della volgarità, l’irresistibile Mame Dennis attraversa le mode degli Anni Trenta e i rigori dei primi Anni Quaranta nella descrizione di un nipotino orfano che ella avvia all’anticonformismo, prima controllandolo a distanza, quando il bambino è in un collegio imposto dal suo tutore ufficiale, poi prendendolo direttamente sotto la sua ala. Le avventure di questo personaggio inventato da E. E. Tanner, scrittore irregolare che per l’occasione si diede come pseudonimo il nome del narratore, ebbero un tale successo quando uscirono in volume nel 1955 da rimanere nella lista dei bestseller per due anni e da essere subito adattate per il palcoscenico e per lo schermo, diventando il cavallo di battaglia di Rosalind Russell. La sequenza comincia col piccolo Patrick che perde il padre e così entra in contatto con la formidabile zia, e finisce molti anni dopo, con Patrick che come l’autore è stato in guerra e ha riportato ferite a Montecassino, si è sposato ed è diventato padre di un bambino sul quale l’insaziabile Mame orienta ora le sue mire. Nel frattempo abbiamo avuto una serie di episodi collegati dalla voce di Patrick, che per mettere ordine nella sue reminiscenze finge di seguire il profilo di un’altra zia proposta a esempio di virtù dal Reader’s Digest (molti ne ricorderanno la versione italiana, Selezione, un cui pezzo forte era il ritratto di un personaggio «indimenticabile»). Quanto agli episodi, la formula che si trova alla loro base è quella trionfalmente adottata da P. G. Wodehouse, vale a dire: a) creazione di un’Arcadia, ossia di un ambiente molto caratteristico, facilmente riconoscibile, e sottilmente irreale - lì l’Inghilterra edoardiana dei tè sul prato, degli house-parties nelle magioni di campagna e della season a Mayfair, qui di volta in volta la New York delle avanguardie artistiche tra le guerre, il Vecchio Sud con cacce alla volpe, mussole bianche e ventagli, il New England e la prosopopea dei ricchi yankees sostanzialmente razzisti; b) arrivo di una minaccia, e soluzione grazie all’intervento più o meno subdolo di un deus ex machina - lì Jeeves, qui, spesso, la zia. La zia Mame salva più volte il nipote, per esempio, da ragazze
inadatte con cui costui si è invischiato, come una puttanella (lì ci vuole un mezzo scandalo durante un ballo universitario), o come una debuttante ricca ma di famiglia presuntuosa, intollerante e cafona. Altre volte - non sempre a Mame riesce tutto, la sua forza consiste anche nel cadere e risollevarsi - è il nipote a salvare la zia, magari facendo in modo che il giovane letteratucolo di cui costei si è pericolosamente infatuata riveli la sua natura di libertino scappando con la segretaria di Mame, e poi inguaiandola. Altre volte ancora la catastrofe annunciata arriva inesorabile, e la sola salvezza consiste nella capacità dei superstiti di ridere di se stessi (sempre come me in Wodehouse, nessuno si fa mai male davvero): i sei tremendi bambini inglesi che Mame si è accollata come contributo di solidarietà durante la guerra continuano implacabili a devastare la casa, oltretuttonon sua, dove li ha collocati, in un inarrestabile crescendo di malefatte. Evocare come ho fatto Wodehouse è forse ingeneroso, l’autore inglese è troppo superiore all’epigono americano sia per nitore stilistico, sia per concisione. Trascinato dalla sua stessa verve, Dennis, chiamiamolo così, la tira per le lunghe, caricando le situazioni come per rinviare al massimo l’arrivo di una conclusione che dato il genere è sempre scontata. Intendiamoci, la sua ridondanza piace a tanti, vedi il sempre rinnovato successo di libro e derivazioni; e coinvolge il curatore Matteo Codignola fino all’emulazione, sia in una traduzione spregiudicata e brillante (ma a pag. 94 c’è una parola, «cracia», che non trovo nemmeno sul Grande Dizionario dell’Uso di De Mauro), sia in una postfazione con profilo dell’autore scritto alla maniera di Patrick Dennis che rischia di risultare, dopo tanti fuochi d’artificio e quando avremmo forse gradito qualche riflessione pacata, stucchevole." (da Masolino D'Amico, Cara Zia, salvami tu, "TuttoLibri", "La Stampa", 18/07/'09)
lunedì 20 luglio 2009
Faust a Copenaghen
"Questa è la storia di una generazione d'oro che ha cambiato la storia della scienza. Un gruppo geniale che ha scoperto il cuore dell'atomo ma anche i tormenti di Faust. Siamo a Copenaghen aprile 1932. Scena prima. In un'aula al pian terreno del Niels Bohr, il rinomato Centro di fisica teorica della capitale danese, una quarantina di scienziati partecipa all'annuale conferenza organizzata dal padrone di casa, Niels Bohr, per discutere i progressi che la loro disciplina ha compiuto negli ultimi dodici mesi. Al centro delle attenzioni, quell'anno, c'è l'imprevista scoperta del neutrone, appena annunciata a Londra da James Chadwick, ma anche i problemi ancora aperti della più straordinaria rivoluzione scientifica del Novecento: la meccanica quantistica. In prima fila dovrebbero sedere in sette, ma Wolfgang Pauli, uno dei protagonisti di quella rivoluzione ha deciso di prendersi una vacanza, e per una volta manca all'appuntamento. I sei sono: lo stesso Bohr, padre della nuova teoria atomica, e amatissimo mentore di intere generazioni di fisici; i giovani Werner Heisenberg e Paul Dirac, che ad appena trent'anni hanno già dato contributi decisivi alla disciplina, al punto che un anno più tardi saranno insigniti del Nobel; Max Delbruck, fisico che presto dedicherà le sue attenzioni alla biologia, vincendoil Nobel per la Medicina nel 1969; Lise Meitner, caparbia fisica sperimentale berlinese che sei anni più tardi spiegherà il fenomeno della fissione nucleare; e Paul Ehrenfest, ammirato soprattutto per le sue ineguagliabili capacità didattiche. Scena seconda. Al termine di una settimana di serrati dibattiti gli stessi protagonisti si accomodano in un'aula più spaziosa dove va in scena su copione di Delbruck, Faust a Copenaghen, una parodia della monumentale opera di Goethe, di cui ricorre prorpio quell'anno il centenario della morte. In quel testo, al vecchio Bohr è assegnato il ruolo di Dio, il caustico Pauli è Mefistofele, e il timido modesto Ehrenfest veste i panni di Faust. Nelle parole di Delbruck ci sono battute sagaci per tutti, sulla falsariga di un'ironia che solo i fisici teorici potrebbero apprezzare, e anche le figure più eminenti della meccanica quantistica vengono messe alla berlina senza sconti. Nessuno dei presenti sa che quello sarà l'ultimo dei seminari di Copenaghen in cui si godranno la felicità dell'età d'oro della fisica teorica. Pochi mesi più tardi Adolf Hitler salirà al potere in Germania (quattro dei sette seduti in prima fila hanno origini ebraiche) e presto la fisica tedesca - regina di quell'epoca - sarà messa al servizio dell'apparato bellico. E nessuno sa che il patto col diavolo che ha permesso a una banda di ragazzi poco più che ventenni di violare i segreti dell'atomo porterà alcuni di loro, di lì a poco, a lavorare a programmi per la più devastante arma mai costruita dall'uomo. Un simbolo delle difficoltà della scienza a restare neutrale rispetto alla politica. E' in quella settimana a Copenaghen che Gino Segrè - professore di fisica teorica all'Università della Pennsylvania e nipote di Emilio, fisico e Nobel che lavorò con Fermi - individua lo spartiacque tra due epoche della fisica e della storia. Ed è quella settimana che usa come pretesto per raccontare - nel suo libro intitolato proprio Faust a Copenaghen (Il Saggiatore) - non solo vent'anni che hanno cambiato per sempre la nostra comprensione della natura, ma anche la vita, la personalità e le passioni di coloro che ne furono i protagonisti. Già narrati da Abraham Pais nelle sue opere su Bohr (Il danese tranquillo) e su Einstein (Sottile è il signore), e da David Cassidy con Un'estrema solitudine (tutti e tre di Bollati Boringhieri), la biografia di Werner Heisenberg, i "trent'anni che sconvolsero la fisica" - per ricordare il bestseller di George Gamow, un altro dei geni che parteciparono all'impresa - sono una tappa obbligata della storia della scienza del Ventesimo secolo. Tanto che negli ultimi mesi sono usciti almeno altri due saggi che contribuiscono a ricostruirne le vicende. E che, come Faust a Copenaghen, hanno il pregio di riuscire a ripetere una storia già ben nota agli appassionati osservandola da una prospettiva nuova. In L'equazione dell'anima (Rizzoli), Arthur I. Miller si mette sulle tracce del bohémien Wolfgang Pauli tra congressi, scoperte eccezionali, e notti sfrenate, donne e alcol. Fino a inseguirlo nei momenti più intimi, quelli che difficilmente condivideva con i colleghi: le sue sedute nello studio di Carl Gustav Jung (vi fa cenno anche Segrè) per curare quella che riconobbe come "la mia nevrosi", prologo di una lunga frequentazione che avrebbe arricchito tanto l'erede di Freud quanto il fisico forse più dotato di quell'incredibile generazione. David Lindley, invece, in Incertezza (Einaudi), si concnetra sul monumentale punto di svolta segnato dall'intuizione di Heisenberg con il principio di indeterminazione. Dimostrando che nel mondo microscopico ci sono grandezze fisiche incompatibili - per cui se misuriamo con assoluta precisione la posizione di un elettrone non sapremo nulla della sua velocità, e viceversa - il giovanissimo fisico di Monaco (non aveva ancora compiuto ventisei anni) pose un limite intrinseco alla nostra possbilità di osservare la natura. Raccolse l'approvazione del suo maestro, Bohr, e scatenò la collera della massima autorità dell'epoca, Albert Einstein, che non si sarebbe mai arreso all'idea di una natura non deterministica. E forse anche in questo limite invalicabile ricompare lo spettro di quel patto col diavolo che aveva portato la Knabenphysik (la 'fisica dei ragazzini') a svelare i misteri dell'infinitamente picolo per scoprire che la natura, in un certo senso, si prende gioco di noi e degli strumenti che inventiamo per addomesticarla. Ma c'è molto di più della fisica, nel Faust di Gino Segrè. C'è l'avventura umana, perfino sentimentale, di uomini e donne che attraversavano l'Europa incerta tra le due guerre per condividere la comune passione per l'indagine scientifica. Ed è certo in questa missione compiuta in nome della conoscenza che - per dirla con Goethe - trovarono la loro redenzione." (da Marco Cattaneo, Quando la scienza si vende l'anima, "La Repubblica", 18/07/'09)
giovedì 16 luglio 2009
Cover story. La prevalenza della copertina
"Dan Brown ha colpito ancora. E lo fa sventolando al mondo la copertina di The Lost Symbol, il seguito del fortunatissimo Il Codice da Vinci, in uscita il 15 settembre negli States. In realtà le copertine sono due: una per gli Usa e una per l’Inghilterra e Australia. Così nella grande operazione di promozione 'a puntate' decisa per il lancio dello scrittore da 81 milioni di copie, la cover è uno dei primi passi. A dimostrazione che oggi le copertine possono arrivare prima dei libri. Soprattutto per un editore 'kolossal' come Doubleday, che stamperà cinque milioni di copie in prima tiratura e che ha già aperto una pagina su Twitter per ospitare commenti sul 'vestito' scelto per il nuovo Brown. La sfida sulle copertine l’ha raccontata subito una nuova versione splatter della Austen. Dopo Orgoglio e Pregiudizio e Zombie di Seth Grahame-Smith, 600 mila copie solo negli Stati Uniti, l’editore Quirk Books pubblica Ragione e Sentimento e i mostri marini di Ben H. Winters. Un’altra uscita prevista il 15 settembre e un altro lancio fatto anticipando la cover.
Dall’altra parte paese che vai, copertina che trovi. E’ questione di gusti estetici, come per la moda. Anche se in alcuni casi l’immagine di una copertina è così caratterizzante che rimane uguale dappertutto: come Twilight o L’opera struggente di un formidabile genio di Dave Eggers, due tra le sette migliori copertine degli ultimi anni per l’americano Chip Kidd, celebre art director di Knopf che le ha selezionate per Newsweek. In Italia però spesso si cambia. Il nuovo Dan Brown è previsto per fine 2009 da Mondadori ma la copertina è ancora top secret. Nel 2003 Il Codice da Vinci era uscito con una copertina più raffinata e meno commerciale rispetto all’originale, perché mirava a un target più alto. E’ probabile che la casa editrice di Segrate creerà anche in questo caso una copertina ad hoc.
Perché se a metà Ottocento la copertina staccabile serviva solo per proteggere il libro ed evitare che si macchiasse prima dell’acquisto (e una volta a casa veniva gettata), ora è il marketing a comandare e la parola d’ordine è 'visibilità'. Per questo in ogni casa editrice lavora un art director responsabile dell’ideazione di tutto il packaging del libro (impaginato, formato, lettering), che è la confezione che lo deve rendere più sexy. Un vero e proprio 'artista della pagina' che insieme ai grafici inventa la copertina da mostrare alla rete di promozione anche sei o sette mesi prima dell’uscita di un titolo, spesso quando il libro ancora non esiste perché in corso di scrittura o traduzione. E che lavora quindi per 'intuizione' dopo essersi fatto raccontare il contenuto dagli editor.
Ma qual è il segreto di una copertina di successo? «In Italia la copertina giusta è quella che assomiglia al suo editore», sostiene Riccardo Falcinelli, art director di Minimum fax e di Einaudi Stile Libero. «Prima ancora di essere bella deve suggerire un’identità», gli fa eco lo scrittore critico Marco Belpoliti. Mettendo così in luce un’anomalia tutta italiana. Se nel mondo anglosassonesi punta sul libro come one shot, vale a dire ogni singolo titolo come caso a sé, la copertina nostrana si inserisce sempre in una determinata collana, ed è quella che deve essere riconoscibile dal lettore. Solo così può sfondare in libreria. Matteo Bologna, fondatore dello studio Mucca Design, direttore artistico di Rizzoli libri e grafico di Penguin e Harper Collins, da New York conferma che «il libro e la copertina non vengono visti come oggetto autonomo. Prova ne è che negli States il nome della casa editrice non compare mai sul fronte della cover».
Non è un caso che nell’immaginario dei lettori italiani, insieme al bianco einaudiano e al blu Sellerio, predomini il modello delle copertine Adelphi. E che i progetti grafici più interessanti degli ultimi dieci anni riguardino perciò non il singolo libro bensì l’intera collana. Come quello ideato da Guido Scarabottolo, art director e illustratore, che ha voluto dare a Guanda 'una certa aria di famiglia', semplificando la grafica e illustrando ogni copertina con il suo tratto caratteristico. Operazione simile a quella compiuta da Fandango con il pittore e illustratore Gianluigi Toccafondo. Anche perché spesso la creatività si può esprimere meglio quando ci sono regole fisse. La pensa così Giacomo Callo, art director di Mondadori (suo anche il restyling della collana di gialli in occasione dell’80° anniversario), che ha reso SIS e a Strade Blu due collane seriali e riconoscibili «utilizzando immagini molto diverse all’interno di una rigida gabbia grafica». Copertine di successo le sue, spesso riprese anche all’estero: come i coltelli di Andy Warhol sulla cover di Gomorra, voluti da Saviano e riapparsi in dieci paesi su cinquanta. O la ragazza di La solitudine dei numeri primi di Paolo Giordano («non una foto d’agenzia bensì un autoscatto di una ragazza olandese trovato su Flickr, il maggior sito di condivisione di foto») riprodotta in molti paesi in cui il libro è stato venduto. Del resto quello del ritratto di donna in copertina è un filone azzeccato, se si pensa al successo de La ragazza con l’orecchino di perla di Tracy Chevalier, che presentava il particolare di un dipinto di Vermeer. E negli ultimi tempi anche quello della foto che ritrae lo scrittore da giovane, come nel caso di Antonio Scurati in Il bambino che sognava la fine del mondo o di Mario Calabresi che compare insieme alla madre e ai fratelli in Spingendo la notte più in là.
Ma in una società dominata dall’immagine c’è anche chi fa una scelta controcorrente. ISBN, piccolo editore indipendente nato quattro anni fa come costola del Saggiatore, ha voluto copertine bianche, con la presenza del solo codice a barre sul fronte (oltre a titolo e autore). Unica concessione: le coste colorate. «Un segno minimale, fortemente no logo, che voleva ripensare il libro come oggetto vergine», secondo il direttore editoriale Massimo Coppola. E di un’esigenza di «meno spettacolo e più contenuti» parla anche Francesca Messina di Polystudio, art director di Bompiani, che per la nuova collana Faq Books (uscita da pochi giorni) ha voluto provocatoriamente in copertina alcune delle Frequently Asked Questions. Perché l’editoria, come sosteneva Giulio Einaudi, non è solo questione di 'contenuti' ma soprattutto di 'forme'." (da Benedetta Marietti, Cover story. La prevalenza della copertina, "La Repubblica", 16/07/'09)
Sandro Veronesi: "Nisbet, quando il noir è letteratura"
"Caro Jim, ecco che si chiude un cerchio, diciannove anni dopo la sua apertura. E' stato infatti nella primavera del 1990 che, per uno di questi guizzi del destino ai quali devo gran parte dei miei incontri fondamentali, me ne sono partito da San Francisco col tuo Lethal Injection nella valigia e il tuo numero di telefono in tasca. Voglio dire: poteva benissimo non succedere. Potevo non pensare di chiedere consiglio a Heidi prima di partire, oppure potevo non riuscire a incontrarla prima della mia partenza visto che abitava sperduta in Umbria: in quel caso non avrei mai letto questo romanzo formidabile e quasi sicuramente non ti avrei mai nemmeno conosciuto. E invece è andata come è andata, e quando ho toccato per la prima volta il suolo della California, Jim Nisbet non era più l'ex fidanzato di una mia amica al quale chiedere assistenza durante il mio soggiorno a San Francisco, ma uno scrittore emozionante del genere più californiano di tutti, l'hard boiled, di cui all'epoca, sulla scia della mia giovinezza, ero ancora un appassionato (e dico 'ero ancora' perché adesso non lo sono più, soprattutto perché quel genere ormai sembra essere stato divorato dalle sue stesse varianti postmoderne, dai legal-thriller agli horror di varia matrice). Che impressione, caro Jim, mi fece allora questo romanzo. Che potenza, che fiducia nella scrittura, che splendido esempio di disperata ma coercibile Weltangschauung mi sarei perso, se non lo avessi letto ... Del resto, non eri mai stato tradotto in Italia. Il tuo primo romanzo, The damned not die, del 1981 non era ancora stato pubblicato, direttamente in edizione economica, nei Grandi tascabili Garzanti - cosa che sarebbe accaduta solo nel 1993. [...] Il cerchio che si è aperto diciannove anni fa, dunque, si chiude oggi con la pubblicazione in Italia di quell'Iniezione letale che Heidi mi aveva dato da leggere durante il volo che mi portava a conoscerti. Si chiude giustamente, con questa mia non so ancora se pre o postfazione all'edizione italiana. Chi altri doveva farla? Mi sarei offeso, caspita, se fosse stato chiamato qualcun altro. Anche se, caro Jim (e anche caro Sergio Fanucci che eroicamente continui a pubblicare Nisbet), sapete bene che un destino è un destino, e questo mio testo non servirà a molto. Non farà vendere di più e non cambierà ciò che non è mai cambiato fin qui. Lo sapete perché ho già accompagnato l'uscita in Italia di un tuo libro, Jim (era una postafzione), pubblicato da Fanucci: era Prima di un urlo, 2001, formidabile anch'esso - ma non mi risulta che sia successo niente di che. Com'era ovvio, intendiamoci, e ormai perfino giusto, sei rimasto e mi sa che rimarrai per sempre un genio-fantasma, amico mio, conosciuto e adorato da pochi - che però sono sparsi in tutto il mondo e messi insieme, alla fine, non sono più nemmeno pochi. Di questo tuo libro, del resto, Iniezione letale, non voglio dire molto. E' un libro che non lascia fiato per i commenti. Dirò che è perfetto, a suo modo, e che, nella sua edizione italiana è anche molto ben tradotto. Neanche una parola sulla storia, sui personaggi, anche perché noi sappiamo che non è soltanto storia e personaggi: è più che altro visione del mondo, appunto, struttura, scrittura, è più che altro te. E' ciò che ti rende così unico, in fondo anche tra i tuoi compari di genere: tu ci sei sempre, nelle tue storie, perchè la tua scrittura non è mimetica, e non è essenziale, asciutta, reticente - la tua scrittura ti trasporta attraverso la tua storia, anche se non scrivi mai in prima persona. E' questo che è veramente inimitabile di te, Jim; tu ci sei sempre, anche quando, altrettanto sempre, non ci sei. Detto in altre parole: ci sei sempre ma non sei mai tra i piedi. [...] Tu che scrivi, dunque, ti confessi scrittore dentro a un romanzo di genere, un hard-boiled tutto azione e perversione. Wow. Ci sono dei tuoi colleghi che si vergognano anche solo ad ammettere d'essere scrittori, e si nascondono di continuo, e teorizzano, perfino, spalleggiati da editor e critici fanatici, questo loro nascondimento come fosse stile, come fosse valore ... Invece tu che fai il falegname, e dunque avresti l'alibi, perché potresti ben dire 'Io? Io non c'entro, ero lì che paillavo', tu, Jim, non solo non ti vergogni di scrivere le tue storie, ma vi partecipi: lasci che l'eroe sia un po' meno eroico, e saggio, e spiritoso, e intelligente - lasci che sia più normale -, e ti prendi la responsabilità di essere tu eroico, saggio, spiritoso, intelligente. Perché tu - ne abbiamo parlato tanto, del resto, in quei posti dove mi portavi a North Beach, dove tutti ti conoscevano e ti davano pacche sulle spalle, e dove sembrava di esser entrati in una fottura macchina del tempo, tanto quel sole che era tramontato dappertutto ancora vi risplendeva - ami profondamnete la grande letteratura, ami Beckett e Kenzaburo Oe, ami Skvorecky e Dostoevskji. Ecco, di questo libro dirò solo questo: che è come se fosse stato scritto da uno di loro quattro - e invece l'hai scritto tu." (da Sandro Veronesi, Quando il noir è letteratura, "La Repubblica", 16/07/'09; dall'introduzione di Sandro Veronesi al libro di Jim Nisbet Iniezione letale, Fanucci)
mercoledì 15 luglio 2009
The Paris Review. Interviste
"Se intervistare è un'arte, dal 1953 la rivista The Paris Review pubblica capolavori. Ritratti a tutto tondo delle più grandi voci della letteratura. Come i sedici contenuti nell'antologia che adesso Fandango pubblica in eclusiva per l'Italia (The Paris Review Interviste v. 1, traduzione di Francesca Valente), di cui anticipiamo alcuni estratti. Da più di mezzo secolo, le firme del magazine americano inseguono gli scrittori nelle stanze da lavoro. Cercando i trucchi del mestiere, i tic, i ricordi. E loro, gli autori, li lasciano fare. Perché il risultato è frutto di una collaborazione: nessun testo è stato mai licenziato senza l'approvazione dell'intervistato. E' così che sono nati incontri memorabili. Come quello del 1958 con Ernest Hemingway, che appare a George Plimpton quasi coinvolto in uno scontro fisico con la scrittura: 'se ne sta lì, nei suoi mocassini sformati di pelle di cudù tutta consunta, e di fronte all'altezza del petto, la macchina da scrivere e il piano di lettura'. Opposta l'immagine di Truman Capote che, ricevendo Pati Hill nella casa gialla di Brooklyn Heights condivisa con il bulldog Bunky, non fa mistero di usare il letto come scrittoio. E via così: la Paris review ha colto in più di mezzo secolo la grazia con cui Borges trattava la propria cecità. Lo humour amaro di Saul Bellow. I ricordi dal fronte di Kurt Vonnegut, interrotti dalla sua tosse da fumatore di lungo corso. E ancora: i giudizi di Dorothy Parker sui colleghi e l'insospettabile leggerezza di Elizabeth Bishop". (da Dario Pappalardo, L'arte di scrivere, "La Repubblica", 15/07/'09)
JORGE LUIS BORGES: "Evito la fantasia, infastidisce i lettori"
GLI INIZI. "Da giovane mi consideravo un poeta. Quindi pensavo: se scriverò un racconto tutti capiranno che sono un semplice outsider, che sto invadendo un territorio proibito. Poi ebbi un incidente. Mi dicevo: 'Forse non potrò più scrivere'. Così pensai di mettermi alla prova scrivendo un articolo o una poesia. Ma pensai anche: ho scritto centinaia di articoli e poesie. Se ora non riuscirò a farlo, saprò subito di essere finito, che nulla ha più senso per me. Allora mi venne l'idea di mettermi alla prova con qualcosa che non avessi mai fatto prima: se non ci fossi riuscito non ci sarebbe non ci sarebbe stato niente di strano ... Perché mai infatti avrei dovuto essere capace di scrivere racconti?".
DOVE SCRIVE. Nel suo ufficio alla Biblioteca Nacional di Buenos Aires, della quale era direttore. Agli angoli diagonalmente opposti della stanza ci sono due grandi librerie girevoli, che contengono libri consultati di frequente, tutti disposti in un ordine preciso e mai spostati per permettere a Borges di riconoscerli da quando ha perso la vista.
LA TECNICA. "Quando ho cominciato a scrivere pensavo che tutto dovesse essere ridefinito dallo scrittore. Per esempio, dire 'la luna' era severamente proibito; bisoganva trovare un aggettivo, un epiteto per la luna. Pensavo di dover esser efantasioso, ora credo che questo infastidiscano il lettore ... Cerco di usare parole comuni, eliminando quelle insolite".
I MAESTRI. "Credo che Mark Twain sia appartenuto alla categoria degli scrittori veramente grandi. Oggi i letterati sembrano trascurare i loro doveri in fatto di epica. La tradizione epica è stat salvata pe ril mondo nientemeno che da Hollywood".
KURT VONNEGUT: "Riparo i racconti come un meccanico"
GLI INIZI. "Ho sempre scritto con facilità. E inoltre, ho imparato a scrivere per i miei coetanei più che per i professori. La maggior parte degli scrittori in erba non aveva interesse a scrivere per i coetanei - e beccarsi i loro cazziatoni".
DOVE SCRIVE. Ovunque purché con pacchetti di sigarette Pall Mall posti accanto alla macchina da scrivere.
LA TECNICA. "E' un problema meccanico. Gran parte del processo di costruzione di uan storia è meccanica pura, ha a che fare, cioè, con i problemi tecnici che devono essere risolti perché la storia funzioni. Per esempio, le storie di cowboy e poliziotti finiscono con una sparatoria, dal momento che le sparatorie sono i meccanismi più credibili per far concludere le storie di quel tipo. Non c'è nulla di simile alla morte per dire quella parola falsa che sempre è frutto di una decisione arbitraria: Fine. Sono un tecnocrate talmente barbaro da esere convinto che si possa armeggiare e rattoppare una storia come si fa con una Ford modello T".
I MAESTRI. "Avevo tentacinque anni quando ho perso la testa per Blake, quaranta quando ho letto Madame Bovary, e prima dei quarantacinque non avevo mai sentito parlare di céline. Fortuna volle che leggessi Angelo, guarda il passato all'età giusta per farlo. A diciotto anni".
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