sabato 13 novembre 2010

Diario di lettura: Serena Vitale


"Fine dicembre 1978, uno degli inverni più gelidi del secolo. A Mosca il termometro segna trentaquattro gradi sotto zero: la giovane italiana esce dall'albergo e controlla se «loro» sono ancora lì. Le due Zaporozhets ingranano la prima e si muovono lentamente slittando sul ghiaccio. Anche se si è abbigliata come una moscovita doc con cinque chili di karakul nero, irsuta pelliccia-corazza contro gli spifferi gelidi, non riesce a passare inosservata, la slavista Serena Vitale.
Da qualche giorno percorre sempre lo stesso tragitto con un taxi. Le due macchine - ognuna con dentro stipati quattro giganti dai cappottoni di pelle - seguono l'auto pubblica su cui è salita la scrittrice che in quegli anni fa la spola con l'Urss, abbandonando ogni tanto Roma o il sole di Puglia, terra natale. Gli spioni la «scortano» alla casa del celebre formalista russo Viktor Borisovich Shklovskij, ex futurista e provocatorio intellettuale. La Vitale stava lavorando a un'intervista al saggista (sarebbe uscita dagli Editori Riuniti, Testimone di un'epoca), punteggiata di tanti «non so», «non ricordo», «ma come si permette di chiedermi questo?». Questa memoria labile era un riscontro del regime di terrore costruito attraverso sofisticate «cimici» intercettatrici, disseminate negli appartamenti, a cui si poteva far fronte solo parzialmente con lo sciacquone del wc premuto più volte. Con Shklovskij, Serena di solito si intratteneva fino a pomeriggio inoltrato. Ma quel 29 dicembre la Vitale, intorno alle ore 12, esce di corsa dal portone con due lacrimoni che rotolano giù per le guance prima di diventare perle gelate. «Gli avevo chiesto se le nuove generazioni lo avessero dimenticato e se ora fosse entrato a far parte dell'establishment», ricorda nella sua bella casa milanese nei pressi della Cattolica. «Non l'avessi mai detto, Shklovskij impermalosito mi caccia via, per poi scusarsi il giorno dopoperlo scoppio d'ira».
Comunque gli otto angeli custodi che stanno alle calcagna della ricercatrice decidono di dare una bella lezione all'intraprendente che si occupa di un critico letterario il cui fratello, Vladimir, filologo romanzo e teologo, è stato chiuso nel gulag e poi freddato con un colpo alla nuca. Una spallata ben assestata la fa planare sul marciapiede della metropolitana e le incrina un paio di costole.
Il giorno dopo uno dei due macchinoni le punta addosso il suo brutto muso grigio provocandole altre contusioni e fratture. «Ancora oggi non mi è completamente chiaro il motivo dell'aggressione. Ero ospite ufficiale dell'Unione degli scrittori sovietici e avevo un contratto con la Vaap (Agenzia dei diritti d'autore, filiale letteraria degli Organi della sicurezza di Stato), eppure mi vollero kappaò».
In questo «Gorky Park» in cui si traffica di libri, tra pedinamenti, inseguimenti, cazzotti, microfilm occultati e alfabeti segreti, si è svolta la vita «editoriale» di Serena Vitale, razza rara nella tribù degli intellettuali italiani, agente segreto ovvero contrabbandiera di carta stampata.
Ora la scrittrice in A Mosca, a Mosca! (Mondadori), con stile esilarante e raffinato, ci restituisce i suoi «calienti» anni moscoviti. Vi descrive la capitale sovietica dalla fine degli Anni Sessanta in poi, quando, studentessa del grande esperto di lingue e letterature orientali Angelo Maria Ripellino, va a far ricerca nella biblioteca Lenin (altro covo di spie e di occhiuti sorveglianti) per portare a termine la sua tesi su Andrej Belyj.
Oggi è un'autrice di gran successo (da Il bottone di Puškin a L'imbroglio del turbante) ed è una delle più note e feconde traduttrici di Marina Cvetaeva, Il poeta e il tempo, e di Nabokov, Il dono, o anche di Puškin, Piccole tragedie. La sua esistenza l'ha trascorsa tra volumi che da «avventure dell'anima» si sono trasformati in «avventure del corpo» e anche in trappole micidiali, dice la Vitale con l'understatement e l'ironia che le sono cari.
Data di inizio della trasposizione? «Mi sono sempre piaciuti gli scrittori che mi portavano lontano. Da piccola la parola “tormenta” in Dostoevskij mi faceva impazzire, dal momento che a Brindisi, di tormente non ce n'erano. I miei autori sono stati negli anni Balzac, Dickens, Goethe, Austen, James, Manzoni, Nabokov, Mandel'štam, Dostoevskij e tantissimi altri. La passione per far diventare il libro una realtà avventurosa l'avevo però fin da ragazzina. Mia madre mi porta a visitare le grotte di Castellana: all'epoca ero tutta presa da Le avventure di Tom Sawyer che si perde mentre esplora cunicoli e caverne. Così abbandono il gruppo e cerco di imitare le gesta del mio piccolo eroe. Mi vengono a cercare con la polizia».
E l'università l'ha incoraggiata nella sua vocazione alla scoperta culturale?
«Certamente. Ho avuto professori di grande valore oltre a Ripellino, Giovanni Macchia, Giulio Carlo Argan, Giacomo Debenedetti le cui meravigliose lezioni si tenevano in piccole aule, a orari improbabili della mattina o della sera. Sono stata molto fortunata per aver compiuto i miei studi prima del Sessantotto. La mia voglia di rompere vincoli e barriere e di far conoscere in Europa e al mondo libri censurati è nata anche nelle aule della Sapienza di Roma. Un impulso che, comunque, mi ha creato non pochi guai».
Vi sono state alcune volte in cui ha immaginato di essere al limite, di finire nelle segrete stanze dalle luci sempre accese della tetra Lubjanka? «Uno dei peggiori momenti me lo ha riservato Padiglione cancro di Solzenicyn che sottoforma di microfilm stavo cercando di portare all'Einaudi. La pellicola l'avevo acquistata a suon di dollari da un gruppo di intellettuali non allineati. Il mio treno viene fermato a Chop, un paesetto di confine con l'Ungheria. Salgono dei militi armati.
Stanno cercando proprio me, quasi sicuramente a seguito di una spiata di un “caro” amico o degli stessi “non allineati”, forse imbroglioni patentati. Mi fanno scendere e mi trattengono senza aver trovato la pellicola che sta davanti ai loro occhi in una reticella di frutta, dentro una finta arancia. Nella stazioncina battuta dalla neve, il medico di turno, Valentin, mi aiuta: fa una diagnosi falsa, dice che sono malata di cuore e riesce a ingannarli. Mi accoglie nel suo studio, mi addormenta e si approfitta brutalmente della mia incoscienza. Il giorno dopo vengo caricata su un treno per Budapest dove sbarco in piena notte. Sono senza bagaglio e addirittura in tailleur, con quel freddo: ho dovuto regalare il pellicciotto e tutto il resto alle poliziotte per farmi rilasciare. Con i soldi arrivo a malapena a un biglietto per Zagabria. Qui incontro un italiano che, informato delle mie disgrazie e del fatto che sono a corto di quattrini, ripetendo continuamente "povera figlia!" mi propone di “darmi una mano”. Altro che mano! È un malintenzionato e sono costretta a rifugiarmi in ambasciata. Finalmente si apre uno spiraglio e posso rientrare. Successivamente trascorrerà qualche anno prima che io torni in Urss. C'era stata l'invasione della Cecoslovacchia e le vicende che mi avevano coinvolto mi avevano profondamente segnato».
Come faceva a far transitare i dattiloscritti proibiti verso lidi più ospitali? «In tanti modi, certo non c'erano macchine per le fotocopie. Inventai un inesistente carteggio Flaubert-Turgenev per far passare oltre frontiera Lettera all'Amazzone della Cvetaeva, di cui un apprezzato critico di regime aveva scritto: “non ha nulla da dire, la sua opera assomiglia a una cava di pietra aperta e vuota”. L'epistolario della stessa autrice, invece, lo sottrassi a uno studioso che amava molto la vodka. Mentre ronfava, imbottito dall'alcol di cui gli avevo fatto consistente omaggio, portai il malloppo alla redazione di Repubblica e fotocopiai a rotta di collo. Poi bussai all'alba a casa dell'ambasciatore Sergio Romano che mi accolse molto gentilmente ancora in vestaglia ma che si mostrò ligio e mi negò la valigia diplomatica. Alla fine trovai altre strade. Altre volte alternavo in grandi quaderni la copiatura a mano di una pagina “proibita” e di una pagina di un autore su cui non c'era nessun veto».
Le sensazioni di quegli anni? «Il malessere per la cultura del sospetto: se una donna aveva un anellino d'oro ci si chiedeva se l'avesse ottenuto a seguito di una delazione e a tavola quando un commensale andava via per primo ... si pensava che fosse andato a fare una spiata. Nella bella abitazione del figlio di Pasternak, sempre per timore delle maledette “cimici”, si comunicava tramite una piccola lavagna».
E al rientro in Italia, la sua vita intellettuale a fianco di Giovanni Raboni, un protagonista per anni del mondo culturale? «E' stata molto ricca. Da Attilio
Bertolucci, personaggio straordinario e di grande umanità e mitezza d'animo, ad Antonio Porta a Elsa Morante, la “gattara” con cui condividevo la singolare passione per i mici, eravamo come una famiglia. C'erano rapporti di scambio intenso, quasi quanto quelli indimenticabili, suggellati da mille difficoltà, che per anni ho coltivato a Mosca»." (da Mirella Serri, Con la vodka ho salvato la Cvetaeva, "TuttoLibri", "La Stampa", 13/11/'109

1 commento:

Saskia Avalle ha detto...

Incontro con Serena Vitale al Collegio Nuovo: http://colnuovo.unipv.it/news/CS_SERENA_VITALE_2102011.pdf