Biblioteca civica "MINO MILANI" bibliogarlasco@yahoo.it tel. 0382/801009 "Le paradis, à n'en pas douter, n'est qu'une immense bibliothèque" (Gaston Bachelard) SELEZIONE DI ARTICOLI SULL'UNIVERSO-LIBRO
lunedì 22 novembre 2010
Inge Film
"Il 24 novembre prossimo Inge Feltrinelli compie ottant'anni. La festa - amici, editori, scrittori arriveranno da molte parti del mondo - si terrà alla Stazione Centrale di Milano, con l'apertura di Feltrinelli Express, la libreria numero 101, «la Feltrinelli più grande d'Italia». In quell'occasione si proietterà Inge Film, realizzato da Luca Scarzella e Simonetta Fiori e presentato in anteprima al Festival di Roma. «È la mia autobiografia non scritta» dice Inge Feltrinelli. «Tutti mi chiedono di scriverne una, ma io non voglio. Tutte le autobiografie sono vanitose, non dicono mai la verità vera. Aveva ragione un mio amico che non c'è più, il grande editore Rowohlt, che diceva sempre: noi editori non dobbiamo scrivere libri, non siamo bravi a scrivere. Non siamo uomini di idee, ma di aneddoti».
Raccontare la vita di Inge Feltrinelli del resto non è facile, perché lei di vite ne ha avute tante. Così come ha tanti nomi: Ingelein, il diminutivo con cui la chiamava Giangiacomo (che ricorre nel libro del figlio Carlo, Senior Service); per il disegnatore Peynet era «la petite princesse esquimoise» per via del taglio degli occhi, da cui poi il nome della barca a vela Eskimosa. «Oggi i miei nipotini mi chiamano Mops, che è il nome in tedesco del carlino, un cane che ha gli occhi tagliati come me». Delle sue tante vite, tante non sono conosciute. Come l'infanzia e l'adolescenza a Göttingen, gli anni come fotoreporter ad Amburgo e in giro per il mondo (celebri le foto di Hemingway a Cuba, di Picasso, Anna Magnani, Chagall, Simone de Beauvoir). Tutti ricordano il suo matrimonio con Giangiacomo Feltrinelli, il suo dedicarsi sempre più alla casa editrice del Dottor Zivago e del Gattopardo, poi, dopo la morte di lui sul traliccio di Segrate, è lei, la presidente, che con ostinazione salva la Feltrinelli dalla crisi («non ero sola, eravamo e siamo un gruppo», ribadisce), investe nelle librerie, pubblica libri che di nuovo diventano bestseller (si comincia con L'amante di Marguerite Duras, 1985, poi verranno Tabucchi, la Allende, Coe, Oz e tutti gli altri). Della Feltrinelli è lei l'immagine, il simbolo, la forza trainante; inaugura le nuove librerie, segue gli autori e organizza feste per loro, partecipa ai party di amici editori e scrittori, sapendo, come riesce solo a lei, mescolare cultura mondanità business. «Mio figlio Carlo (amministratore delegato della casa editrice, presidente della società Librerie Feltrinelli, ndr) odia la mondanità, io mi diverto da morire». C'era una volta, in Germania. Un libro uscito da poco in Germania ha messo in subbuglio tutta l'intellighenzia tedesca. Sono i Diari (Tagebücher 1981-2001, editi da Rowohlt) di Fritz J. Raddatz, l'ex caporedattore delle pagine culturali del settimanale «Die Zeit». In quelle pagine - oltre 900 - ce n'è per tutti. L'unica con cui Raddatz non è stato troppo caustico è Inge Feltrinelli. «Ci conosciamo da tanti anni» ricorda Inge. «Nel '68, durante la Fiera di Francoforte, eravamo insieme a un incontro con Daniel Cohn Bendit. Lo avevamo invitato io, Rowohlt, Christian Bourgois e altri cinque importanti editori europei, allo Hessischer Hof per proporgli di fare un libro. Dany venne con alcuni compagni, si parlò, alla fine fu Rowohlt a pagare il whisky. Nessun disordine, nessuna manifestazione. Eppure al proprietario dell'albergo (il principe d'Assia) quella riunione non piacque, e per più di dieci anni non vollero più darmi una camera. Comunque, poi la stanza l'ho riavuta, ed è la più bella dell'albergo». Trovarsi su una lista nera non era una novità per Inge Schoenthal Feltrinelli: le era già capitato nel '44, a Göttingen, quando venne espulsa da scuola perché figlia di padre ebreo. «Nei documenti ritrovati nel mio liceo c'è scritto: "Per le leggi razziali deve lasciare la scuola perché bastarda". Mia madre non me lo disse, mi spiegò che era meglio se restavo a casa per via dei bombardamenti. Mio padre era riuscito a fuggire dalla Germania dopo la Notte dei cristalli, nel '38. Aveva voluto che mia madre divorziasse per potersi risposare. Così fece, si sposò con un ufficiale di cavalleria, Otto Heberling. Vivevamo in caserma, mi ricordo. Il mio patrigno era affettuoso, delizioso con me. Mi insegnò ad andare a cavallo, mi regalò un pony». Quel periodo, fino al '45, Inge lo ricorda come «un paradiso»: «Non sapevo niente, non capivo niente, avevamo da mangiare, facevo molta attività fisica, vivevo come una principessa. Volevo entrare in un gruppo con altri ragazzi, c'era la Hitler Jugend, mia madre però non mi ci mandò con la scusa che dovevo fare i compiti. Così entrai a far parte di un gruppo di ragazze più grandi di me, attrici, facevamo numeri di cabaret per i soldati feriti all'ospedale. Poi, un giorno, era il '43, arriva l'annunzio del Festival della gioventù a Berlino. Decidono che dovevo andare io, ero la più brava in atletica. Ero felicissima, mia madre invece era terrorizzata, aveva paura che scoprissero che mio padre era ebreo. Fortunatamente presi la scarlattina, e quindi niente Berlino». La guerra è finita. Dopo la guerra, Göttingen è amministrata dagli inglesi. «Che subito, a scuola, ci fanno vedere le immagini dei lager. Il paradiso è finito, scopro la realtà, l'orrore. E sento tutti i genitori delle mie compagne di scuola che dicono: noi non ne sapevamo nulla. Bravi tedeschi, tutti nazisti. È un clima cupo, opprimente, voglio andarmene». Heberling, il patrigno, viene messo a riposo. «Vivevamo in povertà - dal matrimonio erano nati due figli, un maschio e una femmina - e lui era caduto in una profonda depressione. Si ammalò di ulcera, forse un fatto psicosomatico; è morto presto, nei primi anni '50».
E suo padre? «Viveva in America. Si era risposato con una signora di Hannover che aveva conosciuto durante il viaggio in nave. Avevo trovato il suo indirizzo, e gli scrissi: volevo andare in America. Lui mi rispose che sua moglie non voleva che la mia presenza turbasse il loro matrimonio». L'ha mai incontrato? «Sì, anni dopo, nel '52. Lavoravo già come fotoreporter, ci siamo visti in America. Un incontro convenzionale, senza affetto. Io non credo a quelli che parlano della voce del sangue, tra noi non c'era niente. Ma è stato meglio così, se mi avesse lasciato restare con lui avrei rischiato di diventare una vecchia americana grassa di provincia».
E invece? «Invece andai ad Amburgo, come assistente di una fotografa. Dovevo guadagnare, mandare dei soldi a casa. Ed ero determinata. In quegli anni tutto era più facile, in poco tempo avevo conosciuto l'editore Axel Springer, Rudolf Augstein il fondatore di "Spiegel", l'editore Heinrich Maria Ledig-Rowohlt. Volevo fare la fotoreporter, foto e articoli. Un amico mi regalò un viaggio per nave a New York, Rowohlt mi disse che dovevo andare a Cuba, da Hemingway, di cui era l'editore per la Germania. Tutto cominciò così». Poi, nel '58, a una festa da Rowohlt, incontra Giangiacomo Feltrinelli. E così un'altra vita comincia. E come sempre Inge volta pagina, senza ripensamenti. Le foto finiscono nelle soffitte di via Andegari. Dieci anni fa, Carlo e Grazia Neri le ritrovano e organizzano una mostra: «Era il regalo per i miei settant'anni. Quest'estate, Göttingen ha ripreso quella mostra. L' editore Steidl l'ha vista, ci farà un libro».
C'era una volta, a Milano. «Com'era viva la Milano in cui arrivavo intorno al 1960. Era uno dei centri più importanti d'Europa, cultura, musica, teatro, editoria. Discussioni politiche, dibattiti animati dentro una sinistra divisa tra Pci e Psi. Io ero digiuna di politica, venivo dalla Germania del cancelliere Erhard, dove contava solo l'economia. Qui c'era una borghesia illuminata, intellettuali generosi, impegnati. E la Feltrinelli, la casa editrice più nuova, più internazionale. Ecco, oggi questa città non la riconosco più. Se ci fossero ancora Giangiacomo e il suo grande amico Roberto Olivetti, cosa direbbero di questo stato di cose, dei politici che abbiamo? Penso che più in basso di così non si può scendere. Dunque che siamo pronti per ripartire, per risalire. Sarà il mio inguaribile ottimismo, non lo so ... Forse, guardando il film, mi pento di non essere stata più dura contro la politica di oggi. Certo, tutte queste critiche le faccio in Italia. Fuori, questo Paese lo difendo. E non solo perché ci vivo da cinquant'anni. Ma perché conosco la qualità degli italiani, che anche nella crisi più profonda sanno inventare qualcosa, a differenza dei tedeschi che invece, se l'economia non tira, si deprimono, vivono nell'angoscia».
Milano, dopo una diffidenza iniziale («i tedeschi non erano visti di buon occhio»), l'aveva adottata. E Milano anche nei momenti più difficili è vicina a «la Inge». «Quando dopo la morte di Giangiacomo, per salvare la casa editrice si dovettero prendere misure gravi, licenziare 25 persone - una cosa terribile per un editore di sinistra - ci fu un impiegato, il ragionier Silvio Pozzi (sul biglietto da visita c'era scritto "ex partigiano in bicicletta"), che andò di casa in casa a spiegare il perché di quella decisione. E poi abbiamo dovuto rinunciare a molti autori che pure avevamo lanciato noi: García Márquez, Grass, Vargas Llosa. Al rinnovo dei contratti ci chiesero delle somme che non potevamo permetterci. Un altro dolore. Anche se ... (ride) anche se, sinceramente, scrittori come Grass e Vargas Llosa i libri migliori li hanno pubblicati con Feltrinelli»." (da Ranieri Polese, «Com'era vivace Milano. Oggi non la riconosco più», "Corriere della Sera", 20/11/'10)
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