venerdì 12 febbraio 2010

Lettere a C. K. Ogden


"Di ciò di cui non si può parlare si deve tacere», sentenziava Ludwig Wittgenstein nella proposizione più celebre del Tractatus logico-philosophicus. È la settima proposizione, l’ultima: quella in cui, con piglio risoluto, definitivo, tranchant, si riassume il senso di tutto il testo. «Definire» una volta per tutte, «tracciare un limite» tra il linguaggio e il mondo, le parole e le cose, la logica e la filosofia era l’intento di quel lavoro che intitolare Philosophical Logic - come, per semplificarsi la vita ai fini commerciali, aveva suggerito l’inglese Charles K. Ogden, molto più, si noti bene, di un editore - non avrebbe avuto alcun senso. «Logica filosofica» è un’espressione insensata, fece notare Wittgenstein all’imprenditore culturale e linguista noto per aver scritto un saggio su Il significato del significato e per aver inventato il Basic English che ancora oggi va per la maggiore. Esiste una forma dei fatti - insisteva il filosofo austriaco allora agli esordi - ed esiste una forma dei concetti: congruenti l’una all’altra se pronuncio proposizioni vere. Ma della forma logica come tale in filosofia non si può parlare più di quanto si possa dire del mondo in generale, dei valori universali, del senso della vita e della morte o di Dio.
Di ciò di cui non si può parlare si deve tacere. Si può dire però di traduzione. Parlarne è anzi forse l’unico modo per estrarsi dalla lingua in cui si è immersi, per trascendere l’orizzonte di mondo (che è poi sempre un orizzonte linguistico) in cui si è avviluppati: per guardare da fuori, saltare di lato, aggirare l’angolo di prospettiva, la linea d’ombra, il cono visivo e sbirciare al di là dei limiti che la struttura logica in cui pensiamo, parliamo e viviamo definisce. Sembra quasi un gioco. Wittgenstein che, negli anni in cui si batteva per la pubblicazione della sua opera prima, era un oscuro giovinetto reduce dal fronte, ignoto agli accademici, nemmeno laureato e ai primi passi in filosofia, non aveva ancora la disinvoltura per mettere a tema i «giochi linguistici» di cui nelle Ricerche filosofiche della maturità avrebbe esposto la teoria. Ragionando però insieme con i suoi editori e traduttori inglesi sulla versione del Tractatus, ebbe modo di giocare con le parole e di tentare qualche acrobazia. Le sue Lettere a Ogden - l’editore - proposte per la prima volta in italiano, con le lettere a Wittgenstein di Frank P. Ramsey - il giovanissimo traduttore (aveva 20 anni quando affrontò il lavoro, morì sei anni dopo) -, raccolte nell’epistolario edito da Mimesis (a cura di Tiziana Fracassi e Luigi Persinotto), danno un’idea vivace del compito che il pensatore assegnava al linguaggio e dell’uso che ne faceva in filosofia.
Dell’inglese Wittgenstein non aveva una conoscenza particolarmente accurata. Aveva intùito, orecchio e fiuto, però. E un sesto senso formidabile per captare al volo le espressioni artificiose e sbagliate. Il nuovo testo «non suoni tradotto», la versione non sia «troppo letterale», «tradurre il senso non le parole», raccomandava ammettendo che «il lavoro dei traduttori del Tractatus doveva esser stato terribile». Aggiustava in bozza certe scelte optando per soluzioni più esplicite di quelle tedesche. Notava un po’ offeso: «non le sembra che clarification sia una parola molto sgraziata? Meglio getting clear». O «non le pare che full of significance per Bedeutungsvoll sia orribile? Meglio it is of great importance». E ancora: «Non mi piace mystical element per das Mystische. Non è inteso element, semmai feeling» osservava alludendo al «sentimento» che prende il pensatore se avverte di spingersi oltre i confini del dicibile. «Immagino che in inglese non si possa dire semplicemente the mystical». Invece proprio quel suo suggerimento - come del resto quasi tutti gli altri - fu accolto, e nella versione definitiva compare l’espressione originale, resa in italiano da Amedeo G. Conte per la storica traduzione Einaudi con «il mistico».
Un analogo «feeling», d’altra parte, doveva senz’altro trasmettere il filosofo che, parlando del proprio lavoro, diceva di auspicare che altri giungessero per vie diverse a pensare la stessa cosa: che trovassero nei suoi scritti solo una conferma. E lo stesso sentimento o «simpatia», provò senz’altro il giovane Ramsey scoprendosi chiamato da Wittgenstein a Dire (quasi) la stessa cosa come vuole il titolo del saggio di Umberto Eco sulla traduzione.
Il breve ritratto che il traduttore fece del «suo» autore in una lettera spedita a Keynes dal villaggio di Puchberg in Bassa Austria, dove si era recato a fargli visita, rivela quanto ne fosse affascinato: «Wittgenstein è maestro di scuola nel villaggio», scriveva. «È molto povero, vive in una stanza minuscola in modo molto spartano. Appare più giovane dell’età che deve avere, ha un aspetto atletico. Quando parla della sua filosofia si esalta e gesticola con forza, ma scioglie la tensione con un sorriso affascinante. Ha occhi blu». Ramsey non specifica in che lingua si fossero parlati lui e Wittgenstein. Ma era un dettaglio che si poteva tacere se bastarono quegli occhi e quel sorriso a fargli dire dopo il loro incontro: «È un grande»." (da Alessandra Iadicicco, Il senso di Wittgenstein per le parole, "La Stampa", 12/02/'10)

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