sabato 13 giugno 2009

Polillo: "Amore e suspense salvano l'editore"


"Sulla porta della casa editrice che ha il suo nome, a Milano, c'è una targa che sembra vecchissima, legno consumato, doratura smangiata. La Marco Polillo Editore ha una quindicina di anni scarsa, ma in effetti sommando le esperienze dell'eponimo la navigazione è lunga. Di questi tempi, poi, il sessantenne Marco Polillo sta vivendo simultaneamente tre vite: editore, neopresidente dell'Aie, e scrittore. Corpo morto, appena uscito da Piemme, è il suo secondo romanzo. Chi è il suo editor? «Io stesso». Ma non è l'editore di sé stesso. «Pubblico solo stranieri. E poi, non sarebbe chic». Frase fatta ma esatta: lei è un capitano editoriale di lungo corso. «Mio padre Arrigo, grande critico jazz, è stato a lungo direttore del personale in Mondadori. Alla laurea, in diritto del lavoro, ricevetti offerte dalla Snia Viscosa e dalla Mondadori. Pagavano meglio, andai lì». Manager editoriale anziché chimico. «Alla Mondadori dal 1973 all'85 e poi dall'89 al '92. Alla Rizzoli dall'85 all'88. Non sceglievo i libri, gestivo». Altro luogo comune: i manager sono duri, spietati, machi. «Io incarno il manager umano. Lavoro sulla fiducia, sull'accordo, sul gruppo. Per ottenere risultati migliori. Se l'Aie ha scelto me, è forse anche perché questo atteggiamento premia. Comandare con la paura è controproducente. Non amo i manager crudeli». I nomi? «Franco Tatò. Alla Mondadori ha lasciato un segno negativo». Almeno con lui è riuscito a litigare?
«Sì». Lavorare in una grande azienda e fare l'editore in proprio sono due mestieri diversissimi. «L'editore non esiste più. Quando gli editori erano i proprietari, conciliavano i bilanci con strategie di lungo periodo. Oggi esiste l'amministratore delegato, che ragiona per budget e fatturati, non per progetti culturali. Se i trimestri chiudono bene o male, conta solo questo». Per molti i trimestri non chiudono benissimo, ultimamente. «Il libro in sé non dà mai grandi risultati economici, ha sempre convissuto con la crisi. Anche oggi, i risultati sono in linea con gli anni scorsi. Né panico né entusiasmo». E per la sua casa editrice, specializzata in gialli classici anglosassoni, che periodo è? «Sell-out migliori, più fatica con il sell-in». Cioè le librerie assorbono a stento le novità, ma il pubblico premia le sue scelte. Quanti e quali titoli all'anno? «Circa 25, per un milione di fatturato. All'inizio pubblicavamo narrativa straniera d'intrattenimento, quella appena sotto i bestseller tradotti dalle grandi case editrici. Poi in questo mercato si sono infilati tutti, da Garzati a Piemme, e allora abbiamo virato sui ripescaggi dei gialli classici degli Anni Trenta e Quaranta. Quelli che uscivano in edicola, che io divoravo da ragazzo, e che sono sconosciuti ai giovani. Nonostante siano di qualità letteraria eccellente. Infatti piacciono al pubblico più raffinato: vendono benissimo nelle librerie Feltrinelli, per dire». Ma non c'è saturazione, dopo che negli ultimi anni sembrano uscire soltanto gialli e noir? «Non c'è nulla di nuovo, però. Oggi la novità è Stephenie Meyer. Per le storie d'amore e di suspense non c'è mai fiacca. Se togli le emozioni, ogni storia è fredda». Nel suo Corpo morto c'è l'amore, e c'è il giallo. «Il mio investigatore va in vacanza a Positano, luogo alieno ai fatti criminosi, ospite di due sorelle. Una è l'amore della sua vita. Ci sono dei delitti, lui rimane coinvolto perché è lì». Rosa e nero. «Enigma, poco sangue, zero brutalità. Amo Fruttero e Lucentini». C'è anche il personaggio di un editore trombone. Modelli reali? «Tanti e nessuno. Condensa il lato cialtronesco della nostra professione. Vuole lanciare la moda dei Pattinatori, come anni fa lanciarono quella dei Cannibali: scrittori che scrivono come lama sul ghiaccio, dice». Lei ride. Sembra divertirsi parecchio. «In tutto quello che faccio». Anche nel lavoro di lobby? «Bisogna provarci. Occorrono investimenti. Che si facciano trasmissioni di libri alla portata di tutti, giù dal piedistallo. Che la critica non parli soltanto con il pubblico che già c'è. Che i governanti vadano allo stadio con un libro sottobraccio. Quando Giovanni Leone uscì dal Quirinale con in mano Il fattore umano di Graham Greene, le vendite si impennarono». Soldi troppo pochi, ma molto, negli anni, è stato già detto e già fatto. Occorrerebbe fantasia. Occorrerebbe rendere il libro sexy come un iPod. «La lettura è faticosa. La televisione è sufficiente guardarla, se metti un libro davanti al naso e basta, non succede nulla. Ma è solo questione di abitudine. Tutte le generazioni con il libro ci vivono quotidianamente, eppure qui da noi il libro è visto come un nemico. Spaventa. Vinta la paura, c'è però il piacere. Che il libro sia costoso (meno di una pizza!), pesante, che manchi il tempo: tutte scuse. All'estero lo sanno. Voglio credere che la resistenza alla lettura non sia nel Dna italiano, altrimenti ci meritiamo di essere quelli che siamo. Non bisogna seguire gli umori del pubblico ma educarlo, oppure c'è solo Noemi. Non leggere è un handicap, mi batterò per sconfiggerlo». Lei legge sempre molto? «Come diceva Valentino Bompiani, il mestiere di editore rovina il piacere della lettura». E scrive quanto vorrebbe? «Se avessi più tempo, pubblicherei un romanzo ogni cinque anni». Lei è milanese, sia pure di prima generazione. Lavora tantissimo. Impossibile avere più tempo, già vive una triplice vita. «Non amo più Milano, è avida, prende molto e dà in cambio pochissimo. I romani sono invece pregevolissimi, lavorano senza ansia perenne, mescolano la professione e la vita. Capita di scendere a fare una commissione, senza sensi di colpa». Forse il segreto è divertirsi, facendo quello che si fa. Lei si diverte, Polillo? «Moltissimo»." (da Giovanna Zucconi, Amore e suspense salvano l'editore, "La Stampa", 13/06/'09)

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