lunedì 22 giugno 2009

Naufragi. Immagini romantiche della disperazione di Esperanza Guillén Marcos


"La nave è ferita, sfondata, immobilizzata da lastre di ghiaccio preistorico, forse è sconquassata da secoli, forse è stata morsa da marosi pietrificati un attimo fa, forse si è conservata nella frantumazione del gelo dai primordi della Creazione, o forse si sta spaccando ora negli occhi che guardano affascinati e atterriti: così appare il naufragio sublime che il pittore romantico Caspar David Friedrich dipinse due secoli fa e chiamò Mare di ghiaccio. Le immagini di Friedrich, insieme a quelle dei naufragi infuocati e tempestosi di Delacroix, e Géricault, e Turner, tornano in un bellissimo e agile libro di Esperanza Guillén Marcos pubblicato da Bollati Boringhieri: Naufragi. Immagini romantiche della disperazione. La Guillén parte dall´idea di Sublime in Kant per leggere nei naufragi in mare l´idea romantica di disfatta eroica, la figura avventurosa di un´esperienza del viaggio e del pericolo supremo che ossessionò i Romantici da Byron a Hugo. Ma la figura del naufragio è antichissima, e ambigua fin dalle origini.
In Mesopotamia, due millenni prima di Cristo, nel poema di Gilgamesh, il diluvio universale è una tempesta in cui i mari inferi salgono a galla e distruggono tutto tranne il battello di Gilgamesh, che sopravvive per ricostruire il mondo. Ma mille anni dopo, nella Grecia di Omero, il naufragio che sbatte Ulisse nudo davanti a Nausicaa è già diventato una metafora: Ulisse, lo scampato, non ricostruisce niente, racconta solo una storia.
Nell´epoca in cui i naufragi erano una realtà quotidiana, tra Cristoforo Colombo e il Colonialismo, l´affondamento di una nave e la morte di tutti tranne uno sembra assumere un senso positivo. È grazie a un naufragio che Robinson Crusoe scopre di saper vivere da solo nella Natura; in Swift è con un naufragio che Gulliver ha la rivelazione che il mondo cosiddetto civile è un universo falso, retto da leggi assurde; ed è un naufragio magico che nella Tempesta di Shakespeare ripristina l´ordine e fa trionfare la giustizia.
Sembra che il lavacro nelle acque in tempesta sia simile a un rito di passaggio, una prova che dà inizio a una trasformazione, un disastro per il quale valgono i versi di Hölderlin: «Là dove è pericolo, cresce anche la salvezza». E i primi veri poeti della modernità confermano questa idea di una prova iniziatica, che a loro però è vietata: nel Battello ebbro Rimbaud si augura che il battello della sua mente-corpo sia squassato dalle tempeste e che la sua chiglia «scoppi», ma cade in una quieta disperazione quando scopre che il naufragio rigeneratore è un sogno, e il battello ebbro è stato sostituito da una barchetta di carta che un bambino fa scivolare in una pozzanghera; Baudelaire nel Voyage invita il lettore a seguirlo «in fondo all´abisso», nel solo naufragio che può condurre ancora al «nuovo», ma il nuovo è possibile solo pagandolo con la morte: «O Morte, Vecchio Capitano, leviamo l´ancora…».
In forme variate all´infinito il tema di Ulisse che sopravvive per narrare non finisce, e arriva fino al Melville di Moby Dick: un immenso flashback narrato da Ismaele, il solo scampato al naufragio. Ma mentre raccontava l´ultima epica del naufragio nel Male, Melville stava inventando con Bartleby lo scrivano un´altra figura di naufragio, totalmente moderna e metaforica: il naufrago nell´anonimato del lavoro meccanizzato, il sopravvissuto perso in un mondo estraneo, l´impiegato universale privato dell´avventura e la cui sola resistenza al male è un lapidario «preferisco di no».
Il vecchio Melville, ex marinaio e scrittore fallito arenato per vivere in un impiego alla dogana di New York, ha capito che i viaggi sono finiti, e i naufragi sono ormai di altra specie. In America Kafka farà naufragare Karl Rossman nell´immensità spersonalizzata dell´America, e lo definirà "il disperso"; l´uomo di Sartre resterà chiuso in una stanza, naufrago nel Niente e nella Nausea; l´Io di Heidegger si perderà nell´Abgrund, l´abisso senza fondamento, o affogherà nella Chiacchiera; e, sepolto in una buca, immobile, con solo la testa fuori dal deserto, il sotto-essere di Beckett racconterà in Giorni felici la fine frivola e banale di ogni sublime.
Fine di tutto? No, qualcosa ancora galleggerà della vecchia metafora, affiorando in uno dei rari grandi poemi postmoderni, La fine del Titanic di Hans Magnus Enzensberger, dove, nell´anno di piombo 1978, si racconta il naufragio delle illusioni di progresso e di democrazia della Modernità, con un sopravvissuto che come Ulisse parla, ma parla una lingua indecifrabile: «Non era né un morto né un Messia, e nessuno comprese quel che diceva». Quel che diceva lo scampato del Titanic lo capiamo appena oggi, nel naufragio che nessuno vuole vedere e chiamare con il suo nome: forse gli scampati e i dispersi che siamo hanno ancora molto da raccontare." (da Giuseppe Montesano, Naufragi, "La Repubblica", 21/06/'09)

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