lunedì 29 giugno 2009

Lontano di Goffredo Parise


"Per pura ispirazione, in un parossismo di selettività e nostalgia di vita, Goffredo Parise scrisse quasi senza accorgersene fra il 1982 e il 1983, pochi anni prima di morire, uno dei suoi libri migliori, forse il più enigmatico e magnetico. Con il titolo Lontano (che sul «Corriere della Sera» contrassegnava questa serie di elzeviri) il libro uscì da Avagliano nel 2002: ora ricompare da Adelphi, sempre accompagnato da un degno e congruo saggio di Silvio Perrella, Vita breve di un nichilista felice. Era felice Parise? Era nichilista? Si potrebbe dire il contrario: era infelice e pieno di passione e di fede per la vita «così com'è». Ma anche rovesciando la formula le cose non cambiano. In Parise il nichilismo era al servizio della felicità: e la felicità, essendo imprendibile e rara, mostra quanto raro e sfuggente sia anche quel nichilismo (o estetismo) che la rende possibile. I due termini-limite evocati da Perrella devono avere comunque una loro parentela se compaiono in una definizione, direi buddhistica, di Gottfried Benn: «Nihilismus ist ein Glücksgefühl», il nichilismo è un senso di gioia. Percepiamo i momenti della vita come assoluti solo quando siamo capaci di fare vuoto intorno, di sentire che prima e dopo c'è una specie di nulla. In queste indefinibili prose brevi di Parise, racconti o elzeviri, schegge di esistenza, allegorie poetiche o microsaggi di memoria autobiografica, si sente la pienezza di certi esseri, vicende o circostanze, e si sente il vuoto che ne annuncia l'apparizione. Come Lettere luterane per Pasolini e Palomar per Calvino, così le prose di Lontano sono il testamento letterario di Parise. Anche il furore giudiziale di Pasolini e la disperazione cognitiva di Calvino venivano da lontano: nascevano da un sentimento della distanza, del dopo, della fine, del non più. Ma la loro scrittura era costruita su nervature intellettualistiche di genere politico o filosofico. Pasolini agiva da moralista: il suo io parlava al centro della vita sociale e per categorie sociologiche. Calvino procedeva come un naturalista: il suo io fingeva di sparire, era uno strumento da lucidare e focalizzare perché restasse sempre efficiente e trasparente. Sia in Lettere luterane che in Palomar chi scrive riduce se stesso alle sole funzioni necessarie per scrivere. Parise invece, guardando da lontano, non opera nessuna riduzione polemista o cognitivista della sua psiche: nella sua selettività resta pienamente vivo e conserva un'incalcolabile varietà di attitudini emotive e percettive, così personali e oscillanti da restare irriducibili a qualunque funzione comunicativa o teorica. In Parise la condensazione formale non limita ma accentua, esaspera, moltiplica sia la pluralità che la singolarità delle forme viventi. Anche Parise, come Calvino, pensa da naturalista, fisiologo e osservatore di ecosistemi. Ma spia queste singolarità e pluralità per scopi completamente suoi. Sembra sempre che scriva più per se stesso che per il lettore. Ma scrive: e il lettore legge sperimentando un tipo di partecipazione insolita, perché ha sempre l'impressione di entrare un po' abusivamente nei monologhi dello scrittore, come un narratore entra «non visto» nei monologhi di un personaggio. Tutto ciò che Parise ci racconta sembra essere la rivelazione di misteri e segreti che riguardano simultaneamente la sua vita intima e quella di esseri del tutto lontani da lui, ognuno chiuso nella sua monade o in un microcosmo regolato dalle più capricciose, inimmaginabili combinazioni chimiche di tempo e di luogo, di forma e materia. Quello di Parise è «un mondo di individui» che ci fanno dimenticare la loro appartenenza a qualunque genere, specie e categoria sociale.
Con i Sillabari, come partendo da zero, Parise riscoprì il mondo come un'ontologia pluralistica, un insieme fantasmagorico di schegge di esistenza, ruotanti senza un centro identificabile. Ma Lontano va oltre i Sillabari. Non si tratta più di racconti veri e propri. Lo svolgimento narrativo si contrae in sequenze paraboliche e poetiche di immagini. La cosa che qui interessa Parise, al contrario che nei Sillabari, non è la vita comune ma quella dei più singolari individui, vita che riassume in tre pagine e consegna a un'eternità e a una gloria incomprensibili al mondo. Celebra casi unici, esistenze che chiunque ha dimenticato o nessuno ha visto, nelle quali tutto si è bruciato in una sola stagione, in un solo gesto, in passioni esclusive e indecifrabili, nell'unicum di un odore, di una luce, di un'ora del giorno.
La più tipica caratteristica dei Sillabari, che Perrella definisce «istinto percettivo fatto di rapidità felice e disperata insieme», torna in Lontano complicandosi e condensandosi. La sintassi semplificante e vocale dei Sillabari ora è sparita. Parise preferisce inoltrarsi nei labirinti e nelle minuscole giungle dei suoi microcosmi rendendo altrettanto folta e labirintica la sua sintassi piena di irregolarità e sorprese. In Lontano ogni mondo è stipato e gremito, un gomitolo di misteri e di piccole estasi. Siamo più vicini a prose poetico-saggistiche come quelle di Montale (nella Farfalla di Dinard) che alla narrativa. E come Montale, qui Parise è «fisico e metafisico»: va a caccia di luoghi e momenti in cui il sensibile sconfina nell'extrasensoriale e la materia si mette a vibrare sprigionando l'odore, il sapore o la forma di qualcosa che costringe a sospettare e ipotizzare il «divino». In queste esplorazioni e ricerche Parise torna dovunque è stato. Si sposta da una parte all'altra della sua geografia e storia personale, dall'infanzia e giovinezza nel Veneto ai più lontani e diversi paesi del mondo: ora siamo a Vicenza, ora a Venezia con Truman Capote e Marilyn Monroe, ora sulle Dolomiti, ora nella Repubblica di Salò, nella Cina comunista, nella Cuba di Castro, a New York, a Parigi, nel Sud-Est asiatico. Ora a Padova, in un piccolo cimitero ebraico che è anche «un vero Eden», un minuscolo giardino «carico di pere, d'uva e mele», che nessuno conosce e dove il confine che divide i vivi dai morti è invisibile. Il centro dell'universo, purché ignorato, Parise può incontrarlo dovunque e dovunque possiamo aprire «un cancelletto non più grande di una botola», dove si passa da un di qua a un di là senza quasi notarlo, senza che sia ormai chiaro dove siamo e perché." (da Alfonso Berardinelli, La metafisica di Goffredo, "Il Sole 24 Ore Domenica", 28/06/'09)

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