lunedì 15 giugno 2009

L'ultima estate di Cesarina Vighy


"Raccontare la propria vita? Che cosa banale, oggi. Ma il nostro pregiudizio cade di fronte al romanzo di Cesarina Vighy, L'ultima estate. Un'autrice di talento, esordiente a settant'anni passati da poco con un libro che durerà (e che ha già vinto il Premio Campiello Opera prima ed è in finale allo Strega). Lei è bravissima a rievocare e raccontare e insieme a interpretare. E non è cosa da poco, se si pensa alla materia narrata. Per il fatto che il suo personaggio, la signora Zeta, ovvero Amelia, detta Pucci, veneziana d'origine ma trasferitasi giovanissima a Roma, ha una grave malattia neurologica, la Sla, che nel tempo le ha inceppato la parola e tolto la deambulazione. Mentre Pucci non è altro che, purtroppo, il 'doppio' della narratrice: una vita che si esprime attraverso un'altra vita, speculare. Raccontarle, è un'impresa da far tremare vene e polsi. Il pericolo, il patetismo in agguato. Non succede. L’umorismo è la salvezza di questo ‘narratore onnisciente’, come lei si definisce, un po’ sul serio un po’ per gioco (chi conosce meglio di noi la nostra vita?) nelle ultime parole del romanzo. E che vita. Così piena di fatti, imprevisti, gioie e dolori. A partire dagli avi. Con un nonno materno, Giovanni, ‘inconsapevole Saturno che divora i suoi figli’, accanendosi con loro. Una madre cui il nonno nega gli studi, fermandola alla seconda elementare, ma, di più, vorrebbe negarle il suo destino di donna (‘adesso che porti le pezze, non crederai di comandare, puttana!’), al primo mestruo. Quanto a lei, Pucci, concepita fuori dal matrimonio (il papà avvocato, è già sposato con un’altra, ma vivrà poi con la mamma un'unione amorosa e felice per oltre 40 anni), lascia intrepida la famiglia e la sua città, per cercare dopo un incidente amoroso, di rifarsi una vita a Roma. Riuscirà, coronando, alla fine, il suo sogno di diventare bibliotecaria. E avrà la fortuna di attraversare Sessantotto e anni di piombo troppo adulta per lasciarsi coinvolgere (spassosissime le pagine sull'incontro con femminismo e femministe, gonnellone a fiori e zoccoli). Un marito di sette anni più giovane, 'con nessuna voglia di capire' il suo mondo, 'e tanto meno di entrarci'. Eppure il matrimonio tiene nel suo 'legame inestricabile'. Una figlia. 'Anni di quiete che si potrebbero chiamare anni felici se solo sapessimo, mentre la si vive, che quella è la felicità'. Perché poi, per Amelia detta Pucci, arriva la malattia. Sofferenza e grottesco, illusioni e paure: è il miscuglio di emozioni che la Vighy fa vivere alla sua protagonista. Lei, Amelia - ma anche la narratrice -, trova una sua nuova forza nel racconto. Sciorinando un gusto formidabile per l'aneddotica, in grado di ridare energia ai momenti più dolorosi. Così avviene nel capitolo Neurologia, ninfa gentile, dove ognuno dei sette, fra medici, professori e professoroni, dice la sua conducendo la paziente, fra occhio clinico e, spesso, goffaggine umana, verso il calvario. O quell'altro irresistibile capitolo intitolato I consigli di madame de la Palisse, serissimo e insieme faceto; dove dà 'una specie di decaloghetto portatile' ai 'principianti' e 'ai catecumeni' 'di questa mia e loro malattia'. L'attaccamento ostinato alla vita: è l'oggetto che la Vighy ci fa conoscere. Tuttavia, molto al di là del suo ruolo di (apparente) narratrice principiante. Persuasi come siamo che in lei viva una tradizione letteraria veneta bonariamnete ciarliera e amabilmente digressiva, che attraversa, tutta luci e ombre, febbrile e limpida, Goldoni e Nievo. Ed è a questi due grandi che la vogliamo affettuosamente unire." (da Giovanni Pacchiano, Vicissitudini di una Zeta, "Il Sole 24 Ore Domenica", 14/06/'09)

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