mercoledì 2 luglio 2008

Dispacci dal fronte. Storie mai raccontate


"Guerra o operazione di polizia? Soldati o mercenari? Terrorismo o lotta di liberazione nazionale? Troppe parole non hanno più senso e molte di queste riguardano il modo in cui la violenza agisce nei rapporti tra gli uomini e nelle relazioni tra Stati. Del terrorismo, ad esempio, come ci ricorda un bel libro di Roberta Barberini, Il giudice e il terrorista (Einaudi), non esiste una definizione giuridicamente consolidata. Il concetto stesso sembra inafferrabile per le norme del diritto internazionale. Così si ricorre allo stereotipo del 'terrorista' (studente, maschio, musulmano, arabo, tra i 18 e i 40 anni) o a una casistica di quelli che possono considerarsi atti terroristici (i dirottamenti aerei, ed esempio) o che vengono identificate come organizzazioni terroristiche (c'è un lungo elenco elaborato dall'Unione europea che ha congelato i beni di soggetti e organizzazioni di varie matrici e collocazione geografica, con gruppi mediorientali, sudamericani, turchi, europei - Eta, Brigate Rosse, ecc...).
SCRIVE IL GENERALE MINI
Stesso ingorgo terminologico e identica difficoltà concettuale si incontrano anche quando si tratta di definire cosa sia oggi il 'soldato'. Fabio Mini, un generale che riflette sul suo mestiere con straordinaria lucidità, in Soldati (Einaudi), documenta efficacemente la composita galassia nata dalla disintegrazione della figura tradizionale del soldato novecentesco: esistono soldati 'blu' e 'neri', affiancati da professionisti della sicurezza, mercenari a partita Iva, contractors, generali dei 'soldati' e generali dei 'politici', in una frammentazione in cui si coglie il nuovo aspetto privatistico assunto da guerre che sempre più difficilmente possono essere ricondotte all'esercizio della sovranità dello Stato nazionale. Tutto questo provoca un occultamento della realtà che sconfina con la menzogna. E' come se, dopo la fine della guerra fredda, l'ossessivo moltiplicarsi dei conflitti che hanno accompagnato l'alba del nuovo millennio abbia reso quasi indispensabile la finzione della negazione della guerra, un artificio lessicale che consente di metabolizzarne l'impatto distruttivo, attenuando traumi e lacerazioni, proteggendo gli uomini dalla cruda evidenza degli scempi provocati da altri uomini. Il nocciolo della finzione è quello di rendere possibile ogni guerra chiamandola con nomi diversi, con vere e proprie bizzarrie terminologiche (si pensi a un ossimoro come quello di guerra umanitaria o alle operazioni di peace keeping!). In realtà oggi, per raccontare la verità sulla guerra, evitando i tranelli dell''elusione', occorre entrare diritti nel suo cuore di tenebra, in quella che è la sua essenza ultima di uccidere e farsi uccidere.
DISPACCI DAL FRONTE
È da quel luogo di morte che ci arrivano molti dei racconti raccolti in un antologia curata da Mimmo Cándito, Dispacci dal fronte. Storie mai raccontate (Ega): alcuni dei nostri giornalisti più bravi hanno inseguito il rapporto tra guerra e morte su tutti i fronti aperti dalle lacerazioni del mondo postnovecentesco, riportandone immagini crude e strazianti come quelle raccolte da Livio Senigallesi, sensazioni difficilmente riconducibili alla normalità della nostra esistenza quotidiana (Toni Capuozzo), l'umiliazione di essere talvolta costretti a raccontare 'una guerra che non si vede' (Tiziana Ferrario). Ci sono molti corpi in quei racconti, quasi a voler restituire alla morte una fisicità negatale dalla rappresentazione virtuale che ne danno i media. E' così per lo scontro tra hutu e tutsi narrato da Toni Fontana ('l'acqua creava un vortice dal quale emergevano braccia di bambini, gambe, teste mozzate ... ogni due, tre secondi la cascata scaricava nel lago sottostante un cadavere, a volte due, tre in rapida successione'), o per i kamikaze descritti da Stella Pende che, intervistando la madre di un 'martire', lascia affiorare la terribile distruttività ed economicità del corpo come arma: 'Il martirio è lo strumento più efficace e più economico che noi palestinesi abbiamo inventato. Gli israeliani hanno elicotteri, aerei, bombe raffinate. Noi abbiamo la nostra vita e basta. E su quella abbiamo coraggiosamente investito, scoprendo negli anni che quest'arma si è rivelata vincente. Sa perché? "Lo dica". Perché finalmente ci metteva alla pari con loro'. Alla fine sembra che le parole possano ancora vincere la sfida narrativa delle immagini, che la verità sulla guerra appartenga più alla cultura della scrittura che a quella dell'audiovisi." (da Giovanni De Luna, Fai presto a dire 'soldati', "TuttoLibri", "La Stampa", 28/06/'08)

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