sabato 7 agosto 2010

Lo sdegno per Hiroshima che fece di me uno scrittore


"La base aerea di Futenma a Okinawa, una delle maggiori basi militari Usa nell'Asia Orientale, si trova nel bel mezzo di una popolosa città. I pericoli che comporta sono ben noti al governo americano come a quello nipponico, tanto che circa quindici anni fa si decise di comune accordo il suo trasferimento. Ma finora nulla è stato fatto in questo senso. Nel 2009 un nuovo premier, Yukio Hatoyama, galvanizzò i cittadini di Okinawa con la prospettiva di una rapida rimozione della base militare, ma recentemente fu costretto a dimettersi, in parte anche per non aver saputo mantenere quella promessa. Il suo successore, Naoto Kan, ha invece dichiarato chiaramente di voler rispettare il Trattato di sicurezza tra Usa e Giappone; e benché non abbia citato espressamente il problema di un ridimensionamento delle forze militari Usa in territorio nipponico, le sue parole hanno chiaramente indicato da che parte soffia il vento. Recentemente si è appreso che un gruppo governativo sta preparando un documento da sottoporre al primo ministro Kan. Nel documento si sostiene che, in barba ai «tre principi non nucleari del Giappone» (divieto di produrre, possedere e introdurre in territorio nipponico armi atomiche) sarebbe inopportuno «porre limiti alla mano soccorrevole degli Stati Uniti», per cui si raccomanda di consentire il trasporto di armi nucleare sul territorio nipponico ai fini del rafforzamento del cosiddetto "ombrello nucleare".
La lettura di questa notizia, la settimana scorsa, mi ha suscitato un'ondata di sdegno. (Spiegherò poi perché questa parola ha per me un significato profondo). Qualche tempo fa ho reagito allo stesso modo a un' altra notizia: la rivelazione di un accordo segreto su Okinawa stipulato tra Stati Uniti e Giappone trent'anni fa, contravvenendo al terzo dei tre principi, quello che vieta l'introduzione di armi atomiche in Giappone. In occasione del 65° anniversario della bomba di Hiroshima, alla Cerimonia per la Pace celebrata venerdì scorso, era prevista per la prima volta la presenza di rappresentanti della Gran Bretagna, della Francia e degli Stati Uniti. Si tratta di un evento pubblico durante il quale prendono la parola varie personalità del governo; ma la cerimonia ha anche un altro aspetto, privato e più profondo, perché i superstiti della strage celebrano un rito per le anime dei loro cari scomparsi. Questa cerimonia è certamente, tra tutti gli eventi ufficiali istituiti in questi ultimi 200 anni di modernizzazione, quella che ha il più alto grado di serietà morale. Uso deliberatamente quest'espressione per riprendere un passaggio del discorso pronunciato dal presidente Obama a Praga, nell'aprile 2009: «In quanto unica potenza nucleare che ha effettivamente usato quest'arma, gli Stati Uniti - ha detto il presidente Obama - hanno la responsabilità morale di agire». Quest'appello è un ulteriore segnale del senso di crisi che sempre più si sta facendo strada: una percezione alimentata dalla crescente consapevolezza che tra non molto, in assenza di passi decisivi, il possesso di armi nucleari non sarà più limitato a un ristretto numero di Paesi privilegiati. Il discorso tenuto da Obama a Praga riflette i concetti già espressi da Gorge Schulz, William Perry, Henry Kissinger e Sam Nunn in un articolo pubblicato nel 2007 da The Wall Street Journal sotto il titolo «Un mondo libero da armi nucleari», in cui si sostiene tra l' altro: «La deterrenza è tuttora per molti un tema pertinente a fronte delle minacce provenienti da altri Stati; ma affidarla alle armi nucleari appare sempre più rischioso, e sempre meno efficace». Il rifiuto del nucleare si va sempre più diffondendo, sia in America che in Europa. Di fatto, la presenza americana, britannica e francese alla cerimonia per la pace potrebbe essere vista come un piccolo passo simbolico verso un mondo libero dalla minaccia nucleare. Eppure, allo stato attuale il Giappone non ha ancora un piano concreto per la rimozione della base militare di Okinawa; e per di più si pensa di consentire il passaggio di armi nucleari in territorio nipponico in cambio della protezione americana! Prima delle sue dimissioni, in occasione di un'assemblea del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, l'ex primo ministro Hatoyama aveva risposto al discorso di Obama osservando come anche il Giappone avesse una «responsabilità morale» in quanto «unico Paese vittima di bombardamenti atomici». Ma quali atti concreti risulteranno da tutta questa retorica antinucleare? Se il primo ministro Kan si prendesse un po' di tempo per riflettere sulla frase pronunciata a Praga dal presidente Obama, come la interpreterebbe? Un suo intervento alla cerimonia della pace non rischia di contrastare con il sostegno dato al trasporto di armi nucleari in territorio nipponico? Come reagirebbero i dignitari stranieri che hanno fatto proprio il concetto espresso da Obama? E come si sentirebbero i superstiti delle stragi sentendosi dire che come cittadini del solo Paese vittima di un bombardamento atomico hanno la responsabilità morale di vivere sotto la protezione di un ombrello nucleare? E che rifiutare quella protezione vorrebbe dire abdicare alla propria responsabilità? Non proverebbero uno sdegno profondo? Non solo le rosee promesse di rimozione della base militare si sono rivelate vane, ma è stato riesumato il piano originario che prevede di spostare la base di Futenma in un sito offshore presso il villaggio di Henoko, non lontano da Okinawa. Mi chiedo allora come reagiranno a questa svolta politica i tanti anziani, uomini e donne, che per più di 2000 giorni hanno organizzato a Henoko manifestazioni e sit-in.
Sessantacinque anni fa mia madre, avendo appreso che un'amica data per dispersa dopo il bombardamento di Hiroshima era stata ritrovata in un ospedale della zona, mise insieme un magro pacchetto di generi di conforto e partì da Shikoku, dove abitavamo, per andare a farle visita. E al suo ritorno riferì il suo racconto di quella mattina d'agosto del 1945. Alcuni attimi prima dell'esplosione l'amica di mia madre aveva cercato riparo dai raggi roventi del sole estivo dietro un massiccio muro di mattoni. Da lì aveva visto due bambini che stavano giocando all'aperto disintegrarsi in un batter di ciglia. Piangendo, aveva detto a mia madre: «Ho provato un profondo sdegno». Benché allora non fossi in grado di cogliere pienamente la portata di tutto ciò, sento che è stato quel racconto terrificante - con la parola «sdegno», profondamente e durevolmente radicata nel mio cuore - a suscitare in me il bisogno impellente di diventare scrittore. Ma mi ossessiona il pensiero di non essere mai stato in grado di scrivere un "grande romanzo" su chi ha subito quel bombardamento, e sui successivi cinquanta e più anni dell'era atomica che ho vissuto. Oggi penso che scrivere quel romanzo fosse l'unica cosa che veramente volevo fare. Nel suo ultimo libro, On Late Style Edward W. Said ha citato vari esempi di artisti (compositori, poeti, scrittori) che nelle opere dell'ultimo periodo della loro vita hanno immesso qualcosa come una tensione concentrata, quasi sospesa sull'orlo di una catastrofe; e in questa tensione esprimono se stessi, la loro società, la loro epoca, il loro mondo. Quanto a me, la scorsa settimana, dopo aver appreso la notizia del ritorno in auge dell'ideologia che propugna l'"ombrello nucleare", ho visto me stesso seduto nel mio studio in piena notte ... Quello che vedevo era un essere umano impotente, un vecchio immobile sotto il peso di un immenso sdegno, capace solo di sentire quella tensione concentrata in maniera così peculiare, come se quest'atto (in assenza di azione) fosse di per sé una forma d'arte." (da Kenzaburo Oe, Lo sdegno per Hiroshima che fece di me uno scrittore, "La Repubblica", 07/08/'10)

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