martedì 17 agosto 2010

C'era una volta la cartolina, ora dalle vacanze si manda un tweet


"«Cosa significa una cartolina? In quali condizioni è possibile?», si chiede il filosofo Jacques Derrida. Malgrado la sua precoce senescenza, la cartolina è infinitamente più giovane della lettera. È nata nel 1870, durante la Comune di Parigi, quando la posta doveva essere leggera perché veniva trasportata in pallone. Aveva avuto subito un certo successo per il suo costo ridotto rispetto alla lettera. Un privilegio pagato con la riduzione dello spazio e la perdita della privacy del messaggio. Però era esplosa solo con l'Esposizione Universale del 1889, quando erano state stampate trecentomila cartoline con la nuovissima Tour Eiffel.
Fu il periodo d'oro del rettangolo di carta. Nel 1904, la popolazione svedese – circa cinque milioni di persone – aveva imbucato oltre quarantotto milioni di cartoline.
Eppure gli autori più sofisticati guardavano con sospetto quell'irrefrenabile diffusione di immagini. Tozzi, descrivendo lo squallore della sua camera, lo fa culminare in «una cartolina che è una caricatura orrenda». Gozzano irride «la cartolina della Bella Otero / alle specchiere ... Che malinconia!». Ma era solo uno snobismo momentaneo. Ancora più trasgressivi i surrealisti, Aragon in testa, si innamorarono dell'estetica naïf delle cartoline.
La grafomania degli scrittori spesso si ribellava ai limiti della cartolina. Proust mandò una lunga lettera scomposta in dieci cartoline.
Kafka non aveva scrupoli a invadere l'immagine non solo con le parole, ma anche con uno schizzo di se stesso, sconsolato e inappetente in sanatorio. Più conciso, Waugh si interrogava: «Come fanno i romanzieri a scrivere dei libri così lunghi? Sono sicuro che potrei scrivere qualsiasi romanzo su due cartoline postali».
Nelle cartoline si sollevavano problemi inquietanti, come quando Freud, preoccupato, scrisse a Binswanger: «Che cosa vuol fare lei con l'inconscio o piuttosto come pretende di cavarsela senza l'inconscio? Forse che in conclusione il diavolo filosofico la tiene nei suoi artigli? Mi tranquillizzi». O dichiarazioni di estetica, come quella di Victor Hugo dietro alla cartolina di un castello diroccato: «Il passato è bello solo così. In rovina». O una svolta filosofica, come nella celebre cartolina di Nietzsche da Sils-Maria in cui celebra la sua scoperta di Spinoza: «Sono stupito, estasiato! Ho un precursore e che precursore!».
Parenti e amici seguivano i viaggi su una scia di cartoline. Wilde annunciava la sosta a Ravenna per ammirare i mosaici. Il giovane Hofmannsthal stupiva la nonna con una peraltro precaria padronanza dell'italiano, sfoggiata in una cartolina imbucata in «una bocca di lettere». Palma Bucarelli non si accontentava di un cartolina della città giapponese, ma aggiungeva: «Tokio di notte è un bellissimo spettacolo perché le scritte pubblicitarie fortunatamente non le leggiamo, sono segni astratti su colori luminosi, tra cui certi rosa, violetti, arancioni, insoliti per le nostre strade». Malaparte mandava all'amato levriero di Stromboli cartoline che aveva tenuto a lungo sul suo corpo, perché gliene arrivasse l'odore, indirizzandole «a Febo Malaparte, Capri».
Solo di rado la cartolina serviva a scusare la brevità dello scritto. «Quando sei stanca e non hai nulla di speciale da dirmi, prendi una cartolina postale, scrivi l'indirizzo e comunicami che stai bene. Guai se lo scrivermi ha da esserti una cosa sgradevole; preferisco la cartolina postale», dichiarava Svevo alla moglie. «Stanca ma felice», ripeteva Colette in ogni cartolina spedita alla madre durante il suo tour teatrale. «Ho sofferto molto più di ora: se tu puoi ti prego di restare mandandomi giornalmente una cartolina», chiedeva Campana alla Aleramo. Era celebre la concisione dei ringraziamenti di Morand a chi gli aveva mandato un libro. Ma niente supera la nudità dei «baci» mandati da Simenon alla madre che gli preferiva il fratello.
A volte la cartolina era la foto del posto in cui risiede il mittente. Colette mandava alla sua amante, Missy, quella con la sua casa di Saint-Tropez. Inutile dire che l'aveva fatta sequestrare per uno sbaglio: avevano scritto il suo nome con due elle. Più dettagliata, Kiki de Montparnasse, in orgiastica vacanza a Villefranche, segnava sulla facciata dell'Hotel Welcome la sua camera e il bar dei marinai, dove si dava al bel tempo. Hesse, appena separato dalla moglie, mandava la cartolina della Casa Camuzzi del Canton Ticino, dove si era trasferito.
L'erotismo non si limitava alle ingenue nudità offerte dai pornografi. Joyce faceva ritratti particolareggiati, in latino maccheronico, delle prostitute che frequentava. Per farsi ricordare dall'amato Dalí, Lorca aveva disegnato una doppia aureola intorno alla propria foto formato cartolina che gli mandava. Su quel pezzo di carta potevano materializzarsi delicati equilibri. Cioran mandava all'amante una cartolina da Toledo – «Tornare a Parigi è assurdo. La Spagna avrebbe dovuto essere la mia patria» – con in calce gli indulgenti saluti della moglie.
La cartolina poteva preparare incontri importanti. Eliot invitava Joyce, sempre squattrinato, a prendere il tè con una mecenate. Quando la Pivano, che stava traducendo Addio alle armi, aveva ricevuto una cartolina firmata Hemingway – «Sono a Cortina, vorrei vedervi» – aveva pensato a uno scherzo. Ma quando ne era arrivata un'altra – «Se non volete venire a Cortina, vengo io a Torino, ma devo parlarvi» – aveva capito che era vero.
Anche i segreti potevano passare attraverso la cruna leggera della cartolina. Nella corrispondenza di Gide, durante l'occupazione tedesca, gli altri scrittori venivano chiamati con i nomi dei loro eroi di carta. Altre volte lo scrittore veniva trasparentemente designato come lo zio G. e Valéry come p. v. Ma c'era anche chi come Pavese non prendeva troppo sul serio quell'opposizione velleitaria e aveva scritto su una cartolina: «Quand'è che manderanno al confino anche te?». Inutile dire che l'amico, terrorizzato, aveva subito bruciato quel provocatorio messaggio.
Nella Prima guerra mondiale un grande traffico di cartoline legava i soldati alle retrovie. Malaparte ne mandava ai commilitoni caduti perché venissero posate «sulla fossa coperta di neve». Dietro cartolina di propaganda contro il prussiano Guglielmo II, Apollinaire tracciava un quadro della vita in trincea: «Temo che non resteremo a lungo in questo sporco paese pieno di mosche, pendii brulli, e granate. Quanto rimpiango il settore 59 ... È vero che qui le notti sono favolose, fantastiche». Ma c'era anche chi, come Maccari, rimpiangeva i giorni della marcia su Roma e mandava ogni giorno, dal primo ottobre, una cartolina a Flaiano con scritto: «Il 28 ottobre si avvicina!».
Le scabre parole di uno sconosciuto potevano ferire un autore apparentemente corazzato come Waugh: «Una critica ha avuto il potere di deprimermi: la cartolina di un uomo, che scrive: "Il suo Ritorno a Brideshead è uno strano modo di mostrare come il cattolicesimo sia una risposta a tutto. Fa pensare più al bacio della Morte"». Un tipico lapsus freudiano aveva fatto credere a Schnitzler che fosse anonima la cartolina in cui veniva avvertito che la sua amante lo tradiva con un attore della troupe. In realtà la denuncia era firmata dal padre.
E anche la morte trovava il suo posto nelle cartoline, come in quella mandata sotto falso nome dal diciassettenne D'Annunzio, ansioso di farsi notare, alla «Gazzetta della Domenica», annunciando la propria fine dopo una caduta da cavallo. Il poeta astrologo Max Jacob, in una cartolina a Camus, destinato a scomparire in un incidente automobilistico, prese un memorabile granchio: «Non so perché vi dicono che morirete tragicamente». Ma la cartolina migliore è quella spedita da Hemingway, poco prima di suicidarsi, a un amico: «Comunque ce la siamo proprio spassata!»." (da Giuseppe Scaraffia, C'era una volta la cartolina, ora dalle vacanze si manda un tweet, "Il Sole 24 Ore Domenica", 15/08/'10)

Jacques Derrida, La carte postale (Flammarion)

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