sabato 28 agosto 2010

Cronache marziane


"Era un giorno qualunque del gennaio 1999 - narra Ray Bradbury nelle Cronache marziane - quando da una base spaziale dell'Ohio partì la prima spedizione umana su Marte: un giorno che passò alla storia come «l'estate del razzo» per gli effetti climatici prodotti dalla vampata di calore dell'astronave al decollo, che spazzò via in un istante i rigori dell'inverno. Dal punto di vista tecnologico la missione fu uno straordinario successo, ma da quello socioantropologico fu un tragico fallimento, proprio come le due successive dell'agosto 1999 e dell'aprile 2000. I primi esploratori vennero uccisi da un nativo geloso, convinto che gli insidiassero telepaticamente la sposa. I secondi li fecero fuori gli psichiatri locali, ritenendoli inguaribili psicotici, visionari socialmente pericolosi. I terzi, infine, furono quietamente messi a morte dagli abitanti di un villaggio, timorosi che la loro presenza costituisse per il pianeta un micidiale fattore inquinante. Un timore legittimo, peraltro, visti gli esiti della quarta spedizione, che nel giugno 2001 riuscì finalmente a insediarsi sul pianeta e ad aprire la strada alla colonizzazione.
Gli umani d'altronde non avevano molte alternative. L'enorme progresso scientifico aveva di fatto moltiplicato i rischi di un catastrofico e apocalittico conflitto nucleare (giudicato ormai inevitabile e imminente) tra le potenze che si spartivano la Terra e che ricorrevano a ogni mezzo per mantenere il controllo dei propri territori. In Occidente, ad esempio, fin dal 1957 era stata imposta una censura rigidissima sulla cultura, sfociata di fatto nell'eliminazione di ogni forma di pubblicazione a stampa, come racconta lo stesso Ray Bradbury in Fahrenheit 451. E quindici anni prima, stando alla cronaca di George Orwell in 1984, il potere assoluto del Grande Fratello si era esteso a tal punto da imporre, oltre alle telecamere/spia, l'uso della «neolingua», una parlata universale generalista e sintetica che eliminava dal vocabolario ogni sottinteso e ogni potenziale metaforico. L'invio di una nave spaziale verso Giove sulle tracce del monolito scoperto sulla Luna, descritto da Arthur Clarke in 2001. Odissea nello spazio, era in fondo un semplice diversivo. I Terrestri avevano bisogno (e voglia) di una nuova Terra Promessa e poco importava se i Marziani rischiavano di far la fine dei nativi americani dopo l'arrivo della Mayflower e dei Padri Fondatori. Dapprima a decine e poi a centinaia e a migliaia giunsero così sul Pianeta Rosso i loro razzi, lucenti e onnivore cavallette metalliche, autentiche «locuste d'argento». La frontiera si spostò nello spazio, attirando pionieri e coloni, avventurieri e mercanti, idealisti e politici, missionari e burocrati, ricchi e poveri, giovani rampanti e vecchi pensionati, negri, cinesi e messicani.
Ma la loro avventura in quel sidereo Nuovo Mondo ebbe vita breve. Nel tardo autunno del 2005 esplose infine il tanto temuto conflitto nucleare. La Terra prese ad ardere e rischiò di disintegrarsi, mentre i coloni spaziali facevano rotta precipitosamente verso casa, nella speranza di poter almeno morire sul suolo che li aveva generati. Una ventina di anni dopo, le tracce della loro presenza su Marte erano ormai pressoché scomparse. Dopo averne quasi sterminato i primitivi abitatori (con il micidiale contagio del morbillo, con feroci partite di caccia, con spedizioni sistematiche), i pochissimi umani rimasti sul pianeta finirono per riconoscerlo finalmente come propria dimora, sentendosi intimamente affini a quegli esseri «scuri dagli occhi dorati» che a tratti occhieggiavano tra i sognanti, eterei e piumosi palazzi delle loro magiche città, deserte ma intatte, e altre volte veleggiavano su silenziose e lievi navi del deserto tra i colori indescrivibili dei loro cieli e dei loro mari di sabbia.
Oggi Marte è tornato alla sua pace millenaria dolce e solenne, recuperando una verginità solo scalfita da una fugace e arrogante presenza umana. Resta (o riprende a essere) impenetrabile e inconquistato non soltanto nel tempo del racconto ma anche nel tempo della nostra vita, al punto che tutto quanto in esso è dato per accaduto potrà ancora compiersi, forse, nel nostro futuro. Un mondo dove ciascuno può scegliere il proprio presente e il proprio futuro, libero di decidere se assaporare in una quiete serena e gioiosa un'esistenza senza turbamenti, solitaria o di gruppo ma comunque svincolata da ogni ansia di sopraffazione e di potere e giocata sull'eguaglianza, il rispetto e la pari dignità di tutti; o aspirare invece a sondare a fondo i misteri dell'esistenza e del creato, a tal punto dimentico dei bisogni e dei limiti del quotidiano da scordarsi del corpo e da disincarnarsi, trasformandosi magari, come gli Antichi di Marte, in quelle aeree sfere di luce che i primi missionari terrestri, ansiosi di predicare il Vangelo anche nello Spazio, riconobbero in diretta comunione con l'Universo e con Dio.
Le distese di Marte come esotici e romantici spazi di fiaba, dunque? Forse. Anche se l'utopia di Marte s'intreccia nelle Cronache marziane con la distopia della Terra, una Terra che proprio non ne vuol sapere di rinunciare al gioco masochistico dell'autodistruzione e pare anzi ansiosa di esportarlo sul Pianeta Rosso; sicché la dialettica tra Marziani e Terrestri si fa metafora del conflitto tra due opposte interpretazioni della civiltà e del progresso.
Nell'episodio di Usher II (aprile 2005) il signor Stendhal, per punire quanti hanno concorso sulla Terra al rogo dei libri descritto in Fahrenheit 451, si vale di una sofisticatissima tecnologia architettonica per elaborare una performance robotica ispirata ai racconti neri di E. A. Poe e destinata a trasformare un'orgia in massacro. Ma nelle rare occasioni in cui pochi Marziani superstiti s'intravvedono fluttuare leggeri nelle proprie abitazioni e nelle proprie città, la loro avveniristica tecnologia si rivela ancella di una filosofia al cui interno coesistono simbioticamente scienza, religione e arte, senso etico e ricerca del piacere, tensione mistica e godimento di un infinito attimo fuggente. Apprezzare l'esistenza significa per loro vivere pienamente la vita, assorbendo ed emanando gioia. E in virtù di tale filosofia, che si contenta di abitare i luoghi anziché possederli, i Marziani non esitano a regalare il pianeta ai visitatori alieni o ad assumere a loro conforto le sembianze di persone amate e perdute.
Nella sua immutabilità immemoriale, Marte è insomma un pianeta in ogni senso metamorfico. Gli Antichi si trasformano in sciami di sfere luminose simili a «un volo di angeli ardenti». Gli altri - trasparenti, diafani, impalpabili, soavemente fantasmatici - fanno di sé e del paesaggio un sublime «caleidoscopio» che trasmuta e rifrange il bisogno della conquista e del possesso nel piacere di sentirsi parte del miracolo dell'Universo. E tale e tanta è la sua vocazione metamorfica, da saper infine trasformare in Marziani persino i Terrestri. Nell'episodio conclusivo del romanzo, La gita d'un milione di anni (ottobre 2026), la famigliola fuggita dalla Terra con un razzo di fortuna, dopo aver distrutto subito la piccola astronave per precludersi ogni ritorno, gironzola in cerca del posto giusto per un buon picnic trovandolo infine lungo la sponda di un canale limpido e fresco sulle cui acque, specchiandosi, scorge nitidi i volti degli «ultimi marziani»." (da Ruggero Bianchi, Buon pic nic fra i Marziani, "La Stampa", 28/08/'10)

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