sabato 21 agosto 2010

Il cerchio imperfetto


"Da una parte la solitudine «sempre più totalitaria» («Soffro di essere del tutto solo, e di non sentire intorno a me che odio»), dall'altra una partecipazione sempre mite e vigilata. Da una parte gli abissi della nevrosi (il «cuore stretto da una mortale incomprensibile angoscia») lenita dall'assunzione di farmaci a base di morfina che danno dipendenza, dall'altra i più fisiologici intralci di una sfiducia (o «crisi di fiducia») compensata dall'amicizia e dalle cure familiari. Da una parte una sostanziale (e persino disarmante) sicurezza di giudizio, dall'altra le esitazioni e le perplessità di chi non si sente mai del tutto a posto. Da una parte la coscienza del proprio valore, dall'altra una specie di paura, il «qualcosa che mi ferma», come ha evocato una volta Lalla Romano in un suo ricordo molto bello. Da tutte e due le parti l'onestà e la chiarezza del sentire profondo, la diffidenza antimondana, la severità e la sobrietà delle parole essenziali: ciò che significa una lezione di decenza umana e intellettuale prima che letteraria.
In sintesi estrema è il doppio ritratto che scaturisce dalla lettura del carteggio tra Umberto Saba e Vittorio Sereni, Il cerchio imperfetto. Lettere 1946 - 1954 (39 le lettere di Saba, 19 di Sereni), sono otto anni cruciali di storia personale e nazionale che Cecilia Gibellini ha pubblicato da Archinto con un occhio rivolto non solo agli studiosi (testo, note, appendici, indice dei nomi), ma anche al lettore curioso messo in condizione di trarne il suo vantaggio.
Sereni lettore di Saba è un paragrafo non certo minimo della nostra storia letteraria (la dichiarata fedeltà a una lettura «che continuerà per tutta la vita»), anche se questo carteggio non serve soltanto a documentare il pur intenso dialogo di due grandi poeti che si trattano ormai di lontano (dopo essersi frequentati nel periodo in cui Saba abitò a Milano), ma a sottolinearne le pieghe più segrete, a smascherarne gli umori, a rivelarne momenti di vita vissuta, di intese imperfette, di affinità contraddittorie, di solide e affettuose discontinuità.
E anche di opinioni politiche come quando - in occasione del Fronte Popolare - Saba sottoscrive la più ardita delle sue provocazioni: «Del resto so benissimo che, se i comunisti fossero al potere, mi lascerebbero vegetare, o mi metterebbero al muro. Ma se da una parte vedessi i preti pronti ad incensarmi e dall'altra il plotone d'esecuzione comunista, scegliere ancora quest'ultimo».
Saba è più dolorante ma più deciso. Sereni più deferente ma mai arreso. Saba dà a Sereni del tu, chiamandolo sempre col nome (caro, mio caro, carissimo Vittorio). Sereni a Saba dà sempre del lei chiamandolo inderogabilmente col cognome (caro Saba).
Da parte di Sereni un rispetto senza deroghe, da parte di Saba un affetto senza lesine: «Tu sai che, degli amici di Milano (intendo di quelli che mi ero fatti a Milano negli ultimi tempi) mi sei stato, e mi sei, il più caro, e che, quando venivo a Milano, cercavo solo di te».
Saba è già il poeta che è. Vive a Trieste aggiogato al lavoro della libreria antiquaria («dove soffro di non poter strozzare uno - almeno un - cliente») e accresce il suo Canzoniere pubblicando Mediterranee e Uccelli. Mentre il più giovane Sereni, che a Milano fa l'insegnante per poi passare al settore pubblicitario della Pirelli (prima di trasferirsi alla direzione letteraria di Mondadori), è il poeta di Frontiera (titolo che Saba strapazza ripetutamente per una sua idiosincrasia) e arriva a pubblicare Diario d'Algeria. Ma Saba ama di più le sue prose («Vorrei che tu scrivessi più prosa») e le loda più delle poesie che non giudica sempre persuasive: «Sereni è bello quando è nudo; invece molte volte egli si esibisce vestito, e di vesti che si riconoscono non sue a un miglio di distanza».
E tuttavia il più alto elogio alla poesia di Sereni Saba lo pronuncia affermando e confermando di volere come epigrafe sulla sua tomba i tre versi finali di Solo vera è l'estate e questa sua, compresa in Diario d'Algeria (non senza una variante che conferma il suo bisogno di intervenire): «Ora ogni fronda è muta, / fatto il guscio all'oblio, / perfetto il cerchio».
Giustappunto i versi da cui - con callida variazione - il titolo del carteggio è stato felicemente desunto." (da Giovanni Tesio, “Carissimo Vittorio, solo vera è l’estate”, "TuttoLibri", "La Stampa", 21/08/'10)

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