sabato 10 settembre 2011

Vecchioni: Sartre mi serve per vivere non per pensare


"Qualche ruga di ridente nostalgia si allunga sul viso. E forse non solo «qualche». Ma non è stanco il bandolero, il nordico scugnizzo, Vecchioni. Bandolero, sì, sempre, irriducibilmente, insofferente di questa o di quella main street, calamitato da altre vie, le vie del cuore, dove sale il vento, dove non ristagnano i luoghi comuni, i logori copioni, i discorsi comme il faut.
Stanno riaprendo le scuole, ma il professor Vecchioni, non da oggi, va su e giù lungo altre predelle, inanellando un’Italia (una certa Italia, sempre più vasta) che si è scrollata di dosso gli evirati cantori o - come sferzava Faber - «voi che avete cantato sui trampoli e in ginocchio».
«Chiamami ancora amore / Chiamami sempre amore / Che questa maledetta notte / dovrà pur finire / perché la riempiremo noi da qui di musica e di parole ...»: di concerto in concerto, ininterrottamente, dopo il trionfo sanremese. Perché l’esperienza del verbum e del logos (latino e greco, le lingue insegnate da Roberto Vecchioni) sfarina lo slogan, lo strafalcione, il greve refuso, il turpiloquio. Perché il canto (Orfeo docet) è un antidoto contro le sirene, nei secoli dei secoli, fino alle vestali, così incartapecorite, di questo nostro Paese da bere, di ciò che vi resta.
Aosta è fra le stazioni del tour. I tecnici «accordano» il palco, in piazza Chanoux. La notte è vicina. Le luci risplenderanno. Le luci inesauribili. Luci a San Siro ... Rievocare il capo d’opera può, potrebbe, risultare uggioso a Vecchioni? Ma perché? Ogni artista - come rammentava Montale, scomparso giusto trent’anni fa nella capitale “morale” del letterato cantautore - non ha forse la sua Cavalleria rusticana, l’intramontabile leitmotiv? Piuttosto, si passi finalmente in cavalleria, con il professor Roberto Vecchioni, almeno, la logora questione canzone-poesia, se la canzone è poesia, riandando alle origini, alle radici, all’etimo, lyrikós ogni canto eseguito con l’accompagnamento della lira. Canzone-poesia, sottobraccio al premio Montale, assegnato, fra gli altri, a Conte e a Dylan. Trent’anni fa se ne andava il signore degli «Ossi». «Un grande artefice di parole momentanee. Componeva ovunque - vi ripensavo nelle visite ad Alda Merini, il mio Nobel -: sui fazzoletti, sui tovaglioli, sulle scatole di fiammiferi, una costruzione logica del pensiero immediata e istintiva. Era la sua terra, la Liguria dei calanchi, il mare che si vede attraverso i buchi, la verità che si afferra di là delle feritoie. Come non accostare Eusebio al Pascoli del Lampo, la casa che nella notte nera apparì sparì d’un tratto ...?».
Montale, un vertice, fra i vertici del Novecento. «Tra i miei primi libri, l’antologia Guanda di Giacinto Spagnoletti sulla poesia italiana del secolo scorso. Mi si rivelò la poesia come libertà, smentendo, o scalfendo, come dire?, la patina scientifica che la ipotecava, propria della lezione liceale».
Montale ... «E un ulteriore, straordinario ligure, Italo Calvino. Ne abbraccio
l’opera omnia, da Il sentiero dei nidi di ragno alle Lezioni americane, al Le città invisibili. Va - eccone la pregiata costante - oltre le invenzioni dell’uomo, crea, prefigura, scenari che non ci sono, dove, se non la felicità, si potrà gustare la serenità».
Le Lezioni americane sono un continuo vis-à-vis con i classici, a cominciare
dagli antichi, i suoi ferri del mestiere, dalla lontana università all’insegnamento nei licei. «Mi laureai in letteratura latina alla Cattolica nel 1968 con monsignor Benedetto Riposati. Discussi una tesi su Tibullo, in particolare approfondendo il quarto libro del corpus tibulliano, il più incerto circa la paternità. Lo attribuii a Properzio. Riposati, da parte sua, non voleva attribuire a me il lavoro che gli presentai. Di lì a un’ora tornai con tutte le carte autografe: “La calligrafia è la mia!”».
Romain Rolland, dei classici, diceva: «Sono la mia famiglia». Quale il suo albero genealogico, chi riconosce, per esempio, come padre? «In primis, i tragici greci. Eschilo: il padre della tradizione ancestrale, immensa, anche spaventosa. Sofocle: il padre del diritto di dubitare, suprema Antigone. Euripide: il padre delle donne, del sentimento, va oltre la tragedia, è una voce che si riverbererà nel romanticismo».
Il liceo, come luogo dove si leggono i classici ... «Come accostare i giovani ai
classici? Come fargliene sentire la necessità? Non mettendoli sotto vuoto, ma calandoli, radicandoli, innestandoli nella vita quotidiana. Conoscerli è salvifico, impedisce i passi falsi. Ci si soffermi, per esempio, sull’epistola in cui Orazio sollecita: “... torna indietro quando ti accorgi che le cose desiderate valgono meno di quelle perdute”».
Vecchioni, una «vita di parola». Come insegnante, come cantaprofessore, secondo la definizione di Michele Serra, come scrittore, Scacco a Dio l’ultimo, per ora, titolo. «Sto lavorando a un romanzo epistolare. Un genere che, come il diario, prediligo».
Einaudi è il suo editore, la casa di Pavese. A Pavese rende omaggio con una canzone: Verrà la notte e avrà i tuoi occhi. «I porti sicuri che sono i piemontesi. Da Fenoglio ad Arpino, a Pavese. Il Pavese di Dialoghi con Leucò. Ne apprezzo l’interpretazione del mito. Non separato dagli uomini, ma assiso, fermentante, in loro. Junghianamente. E, con i Dialoghi, Il mestiere di vivere, là dove, a risaltare, sono una grande disperazione e una grande sincerità. Un sicuro modello».
Non c’è compositore che, come lei, conversi con la letteratura. Il suo canzoniere è affollato di carissime ombre, da Saffo a Rimbaud, da Thomas Mann alla Merini, a Dante Alighieri, l’Alighieri che “troneggia”. «Sì, la Firenze di Cacciaguida e antecedente. Dove si potevano lasciare gli usci aperti, dove le donne non venivano importunate, dove si poteva girare con un saio, perché contava essere, non apparire. Una città sobria e pudica, finché non arrivò Sardanapalo, ossia l’immondo che di erede in erede si è sin qui, in questa Italia, perpetuato».
Risaltano nel suo salotto letterario Sartre, Baudelaire, Jarry, un trio che le detta il verso: “... è tempo di riaccendere le stelle consigliere”.
Anche Sartre, ancora Sartre? «For ever Sartre. Mi serve per vivere, non per pensare. La paura di vivere, in che modo superarla, o convivervi, non rifugiandosi in una divinità».
Ma forse l’apice è Fernando Pessoa, a cui «sfuggì che il senso delle stelle / non è quello di un uomo, / e si rivide nella pena di quel brillare inutile, / di quel brillare lontano ...». «Pessoa è il compendio del Novecento. Il buio, il dolore, l’assurdità, la fede che va e che viene, l’egoespressionismo. Un pessimismo infinito, una sofferenza che si riteneva inimmaginabile dopo Leopardi. No, non credo al dolore infinito, ma alla buona fede del maggiore portoghese, sì».
I libri. Il suo libraio, Il libraio di Selinunte, non li vende,
ma li legge ad alta voce. Un elogio dell’oralità ... «L’oralità, la forma di comunicazione degli aedi. Chi ascolta deve essere fantasticamente dotato, capace di immaginare (di tradurre in visioni) ciò che sente».
Il concerto si avvicina. Roberto Vecchioni è un crogiuolo di eteronimi. Gli occhiali cerchiati di Fernando Pessoa («... chiese gli occhiali / e si addormentò / e quelli che scrivevano per lui / lo lasciarono solo / finalmente solo...»). Il sigaro, forse un montaliano sigaro di Brissago (il «volubile fumo dei miei sigari di Brissago ...»). Lo sguardo febbrile, febbrilmente vagabondo, sconfinato, dell’angelo di Charleville («... ricordo a malapena quale nome ho: / Arthur Rimbaud, Arthur Rimbaud, / Arthur Rimbaud ...»). L’antico ragazzo che è Vecchioni, il professore di «tutti i ragazzi e le ragazze / che difendono un libro, un libro vero».
Scoprendo, accudendo, inventando, sillabando parole che vogliano smisuratamente dire «vivere, vivere»." (da Bruno Quaranta, Sartre mi serve per vivere non per pensare, "TuttoLibri", "La Stampa", 10/09/'11)

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