sabato 24 settembre 2011

Diario di lettura: Cesare Segre


"Ottantatreenne di molte aperture, Cesare Segre è nato a Verzuolo, in provincia di Cuneo, dove il padre era impiegato presso le Cartiere Burgo (la famiglia dovette poi trasferirsi a Milano e a Milano Segre vive tuttora). Professore di Filologia romanza per poco meno di cinquant'anni a Pavia, la disciplina gli fu rivelata dallo zio Santorre Debenedetti, a cui fece da segretario.
Ma lui ama considerarsi il frutto di una formazione solitaria che - senza venir meno alla solidissima preparazione specialistica - ne ha da sempre alimentato l'infinita curiosità. Una curiosità attiva nelle numerose opere di romanistica e di italianistica (i lavori più importanti sono l'edizione critica della Chanson de Roland e dell'Orlando Furioso), ma poi tutto un fitto studio di autori, da Bono Giamboni a Petrarca, da Boccaccio ad Ariosto, da Dante a Montale). La stessa che muove l'esercizio dell'interpretazione e della riflessione teorica praticato
abbattendo steccati di genere (Teatro e romanzo), scavalcando recinti (La pelle di San Bartolomeo), cimentandosi con molti autori contemporanei (almeno la raccolta Tempo di bilanci). Per non dire della scrittura narrativa in libri come Per curiosità, «una specie di autobiografia», o come Dieci prove di fantasia (Einaudi), i racconti e i dialoghi (sempre un gusto di rimescolare e di contaminare) usciti l'anno scorso dalle pieghe di una materia ben nota ma diversamente scrutata.
Professore, in Per curiosità lei sostiene di non essere stato un lettore precoce. Ma fa i nomi dei russi della Slavia e di Einaudi, parla del dominio di Victor Hugo ... «Sono vissuto in un ambiente abbastanza colto ma senza uno speciale interesse per la letteratura. Anche se mia madre era una grande lettrice e in casa circolavano molti libri. L'unico criterio di valutazione esplicita era che un libro fosse o non fosse adattoa bambinio ragazzi».
Fumetti? «Sì, certo. Topolino e anche Il Corriere dei Piccoli. Ma mi divertiva di più Topolino, mi pareva più moderno».
Lei cita anche Salgari, Verne, Cooper, London, Stevenson. Tra Verne e Salgari?
«Salgari, Salgari. Lo leggevo da lettore appassionato, un titolo dopo l'altro, una lettura bulimica. Avevo dieci anni, avevo bisogno di avventura e l'avventura la trovavo lì. La parola letteratura non la conoscevo. Fruivo delle offerte dei libri ma al di là del piacere del leggere non pensavo potessero avere altre finalità».
Il tutto cominciò nell'anno e mezzo della vita di segregazione che lei visse
sotto falso nome alla Madonna dei Laghi di Avigliana, per evitare il peggio della stretta razziale dopo l'Armistizio? «Sì. Quel periodo lo considero come un ampliamento degli studi ginnasiali concentrati sul greco, sul latino, sul francese. Lì mi sono allargato agli altri paesi. Lì ho avuto il primo vero contatto con la letteratura. Traducevo testi che costituivano un piccolo canone: Shakespeare (Amleto), Goethe (la prima parte del Faust), il teatro spagnolo (La vida es sueño di Calderón). E facevo letture ancor più decisive: Sant'Agostino e Montaigne, i due estremi. Terzo filone, le letture di critica, molto meno numerose ma formative, perché ho incontrato allora, per puro caso, l'opera di De Sanctis e qualche numero della Critica di Croce».
De Sanctis con qualche diffidenza o sbaglio? «La mia maturazione è nata in polemica con De Sanctis. L'impressione (erronea) che ne avevo era un eccesso di sentimento sia da parte del critico sia da parte dell'oggetto della sua ricerca. Avevo coniato la categoria dei sentimental-romantici. Ma poi che esistesse altra critica lo ignoravo».
Anche la Treccani ha fatto la sua parte, no? «Per un motivo che non saprei precisare avevo preso una grande passione per la Storia dell'Arte e leggevo appunto la Treccani, ne riproducevo le tavole. Tutta la cultura per me era la Treccani. Ma questo già da prima del soggiorno di Avigliana».
Non abbiamo ancora parlato della Bibbia come libro della formazione. «La Bibbia è appartenenza, come negarlo? Ma in quegli anni ho affrontato per la prima volta il Nuovo Testamento, i Vangeli, che leggevo già con mentalità filologica, prediligendone ora l'una ora l'altra versione».
Lì si è allenato anche lo spirito del controversista. «Sì, ma si è allenato anche alla lezione di insegnamenti formidabili: le Osservazioni sulla morale cattolica
di Manzoni e soprattutto le Provinciales di Pascal per la forza con cui la religione viene vissuta e rappresentata in una specie di dramma dell'intelligenza. E alla lezione degli illuministi, come Voltaire o Diderot piuttosto che Rousseau, perché nella follia della guerra, della persecuzione, dell'odio sapevano dirmi cose ironiche e satiriche, che per me furono una vera medicina».
A lei che ha frequentato e frequenta tante letterature, posso chiedere di fare un gioco? Tra Spagna, Germania, Inghilterra, possiamo estrarre qualche nome imprescindibile? «Vuol farmi vergognare delle mie lacune? ma proviamo. Degli spagnoli mi sono occupato molto e da quel capolavoro che è la Celestina (fine Quattrocento inizio Cinquecento), fino al Novecento. Ma direi proprio la Celestina, e poi Cervantes, Góngora e Machado. Tra i tedeschi mi sono cari Thomas Mann, Musil, Broch (specialmente La morte di Virgilio) e naturalmente Kafka (tedesco solo di lingua). Tra gli inglesi Shakespeare, la Woolf e Beckett, una delle cime della letteratura universale. Ma mi accorgo che trascuriamo i russi e il portoghese Pessoa».
Come trascurare il filone di letture legate alla Shoah, dalla Picciotto Fargion a
Primo Levi? La consapevolezza del confine - come lei dice - «tra Avigliana e
Auschwitz». «Dal Libro della memoria della Picciotto Fargion ho appreso la data di gassificazione ad Auschwitz dei miei parenti più sventurati. Quanto a Primo Levi, secondo me è uno dei massimi scrittori non solo del Novecento, che dovrebbe avere posto in qualsiasi canone della letteratura».
Un'antologia di letture come quella che Levi fece, La ricerca delle radici, lei la farebbe? «Non mi è stato mai proposto, ma non la farei. Perché costruire
la propria biografia sulla base delle letture ha un significato soltanto a posteriori. La nostra vita è mescolata alle letture ma non la si può agganciare soltanto a una successione di titoli».
Senza contare che verrebbe da interrogarsi non solo sulle presenze, ma anche sul perché di certe lacune ... «Sì. A volte casuali, a volte più significative. Ad esempio, per quanto mi riguarda, mentre propugno entusiasticamente Gabriel García Márquez, dovrei spendermi per nomi altrettanto grandi come quello di Guimaraes Rosa. Purtroppo io conosco il portoghese ma non quello di Guimarães, che richiede ben altra competenza».
Che dire dei grandi incontri? García Márquez, giustappunto. Ma anche Schapiro, anche Montale? «Di García Márquez colpiva quello che chiamerei il suo nazionalismo
latino-americano, la speranza che i suoi libri, portando tutto su un livello iperbolico e fantastico aiutassero gli europei a portarsi al di sopra dei luoghi comuni. Di Montale mi sono sentito libero di scrivere solo dopo la sua morte perché, lui vivo, non volevo turbarne indiscretamente il modo di essere. Per Schapiro era la capacità di guardare ai problemi partendo da un'infinità di suggestioni. La sua casa finiva per trasformarsi in un insieme di cose, di oggetti, che in modo lieve e non didascalico erano collegabili con l'intero universo dei segni».
Se veniamo alla nostra letteratura più recente, quali i nomi su cui punterebbe? «Tra i contemporanei a parte Lalla Romano, di cui ho curato i due Meridiani Mondadori, e a parte Consolo, Tabucchi, Del Giudice, Di Stefano, mi sono parsi interessanti Nove, Scarpa, Ammaniti e più recentemente la Veladiano, che ho appoggiato per lo Strega. Però devo precisare che il mio tipo di collaborazione prima alla "Stampa" e poi al "Corriere della Sera" non mi dà la posizione di giudice, come poteva essere per Pancrazi, per Cecchi. Posizione impossibile per tante ragioni, ma soprattutto perché dovrei occuparmi soltanto di autori contemporanei».
C'è un livre de chevet sul suo tavolino da notte? «In questo momento sono i Racconti e prose brevi di Beckett recentemente pubblicati da Einaudi».
Pensando ai silenzi di Beckett, un'ultima domanda, professore. A che punto è la letteratura? «Se ben intendo ciò che lei vuole dire, ossia dove stia andando la letteratura, la risposta diventa tragica. Tutto sembra congiurare contro una posizione rilevante della letteratura. Ma possiamo sempre sperare che si affermino paradigmi migliori, e non solo in Italia»." (da Giovanni Tesio, E' L'ironia di Voltaire la medicina, "TuttoLibri", "La Stampa", 24/09/'11)

Nessun commento: