venerdì 2 settembre 2011

La traccia dell'angelo


"Da Il male oscuro di Giuseppe Berto (1964) a Natura come cura di Richard Mabey (2009), molti romanzi hanno tentato di scendere nell'abisso della depressione, in quello spazio ai limiti dell'indescrivibile che Julia Kristeva (rifacendosi a una poesia di Nerval) ha definito come "sole nero". Qualche anno fa questo argomento è stato oggetto di un volume curato da Rita Bruschi col titolo L'arte di essere depressi. Figure della depressione nella musica, nella letteratura, nelle arti figurative (Edizioni ETS). Ebbene, proprio di questo tema parla l'ultimo libro di Stefano Benni. È dunque un Benni strano ed inatteso, quello che ci viene incontro con La traccia dell'angelo (Sellerio). Certo, il racconto presenta alcuni tratti caratteristici della sua narrativa: un umorismo acre, toni surreali, una costante pietas verso gli umili. Ciò che sorprende, però, è una sorta di ripiegamento, uno scrutare concentrato, accanito, dolente, come in queste considerazioni sulla morte autoinflitta: «I suicidi sono ognuno diverso dall'altro. Non giudicateli. Pietà, immensa pietà per loro. E per qualcuno, onore al coraggio. E lapidi come per tutti e una foto sul comodino. Le foto durano sempre più di noi, buffa cosa chiamarle istantanee». L'eroe della vicenda ha nome Morfeo, e fa la sua comparsa sin dai primi, felici capitoli, che illustrano la sua trepidazione infantile all'avvicinarsi di Natale, «un vecchio Natale del paleozoico precellulare» datato 1955. L'inizio è fatato, ma come percorso da un brivido, un presentimento funebre. In quell'età meravigliosa, «dove la morte è nascosta ma non parla e non si fa vedere», prima che accada il disastro della putrefazione (espresso in fosche immagini barocche: «Denti, denti che vivono più dei nostri begli occhi o della nostra incantevole voce»), un bambino è in attesa dei regali nella casa dei nonni. Fuori nevica, «come nei western di una volta», mentre dentro vibra la luce delle candele, «francescane sorelle». La scena è punteggiata di acute notazioni sensoriali: Morfeo «guardava, fracassando sarcofagi arachidei, i Babbi Natale di cioccolata, dolci cadaveri impiccati ai rami (...) Guardava sua sorella che si rimpinzava di torrone con l'apparecchio dei denti che scrocchiava come un meccanismo bellico». Ma l'idillio è interrotto di colpo: una persiana, «pesante come una bara», precipita sul protagonista colpendolo alla testa. È da qui che comincia il vero intreccio. Molte pagine illustrano l'inferno degli psicofarmaci in cui il ragazzo, poi uomo, sprofonda inesorabilmente. Furibondo è l' attacco sferrato contro la grande truffa dei medicinali rimbambenti e felicizzanti, prodotti da «criminali con tutto il mondo malato come mercato e come cavia». La depressione porta all'assuefazione, grazie anche al fatto che, ripete spesso Benni, sulle confezioni delle sostanze chimiche non viene mai indicato: Pericolo. Prenderle solo per tre mesi e poi sospenderle. Per avvertire il consumatore, spiega indignato l'autore, c'è solo il cosiddetto bugiardino, un foglietto «ripiegato come un biglietto della lotteria (...) scritto in lettere piccolissime. In mini-ittita, in microegizio, in geocriptico esculapico». Nel frattempo la storia ha una svolta, con la comparsa di Gadariel, figura misteriosa di barbone, pazzo, sovversivo e insieme Diavolo, sì, ma solo in quanto Angelo caduto per amore dell'uomo. Con la seconda parte, a Gadariel si affianca un suo simile, Elpis, presenza femminile che aiuterà Morfeo, diventato scrittore, lungo la difficile strada della disintossicazione e del recupero. Accanto a tale linea narrativa, di taglio fantastico e spirituale («Non sapere mai se arriverà, ecco l'essenza, ecco la traccia dell'angelo»), scorre il confronto con un alter ego spregevole, il professor Poiana, marito di una lontana cugina della donna sposata da Morfeo. Questo racconto secondario, con le insistite simmetrie fra le due mogli, è forse l'elemento meno risolto del libro, che serve tuttavia a introdurre lo sconfinato amore del protagonista per il proprio figlio, ultima e vera ragione di vita. La critica alla medicina non viene mai meno («la terza industria del mondo, dopo le armi e il petrolio»), ma intanto Morfeo continua a lottare, e infine, secondo l'etimo del suo nome, giunge a scontrarsi con il demone dell'insonnia. Per sottrarsi alla depressione, egli si affida a Elpis, «angelo caduto, infermiera e body-guard». Viene così alla luce la radice gnostica di tutta la parabola, ossia l'idea di un dio che non ama gli uomini, confinandoli nell' estraneità: «Morfeo era come l'abitante di un altro pianeta caduto sulla terra». A questo punto, però, il recensore è sotto scacco: per mostrare il senso, la struttura dell'intero racconto, dovrebbe rivelare il finale, ma una scelta del genere sarebbe imperdonabile. Abbandoniamo dunque il lettore sulla soglia dell'ultima pagina, lasciando a lui il compito di tirare le somme di questo testo rabbioso e malinconico, bizzarro ed eteroclito, metà pamphlet, metà allegoria, che affida la salvezza dei suoi infelici personaggi a un disarmato amore creaturale." (da Valerio Magrelli, L'altro Benni, "La Repubblica", 01/09/'11)

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