venerdì 22 maggio 2009

Oliver Sacks: "Mio padre medico si vergognava dei miei libri"


"Chi inizia a scrivere la sua autobiografia si mette al lavoro con i suoi ricordi, ma la motivazione che lo spinge a scrivere un´autobiografia sembra spesso la conseguenza di una situazione inversa: sono i ricordi che si mettono al lavoro con lo scrittore. «Nel 1993, mentre mi avvicinavo al mio sessantesimo compleanno», scrive Oliver Sacks ripensando alla stesura della sua autobiografia Zio Tungsteno, «cominciai a sperimentare un fenomeno curioso, l´emergere spontaneo e non richiesto di ricordi precoci, ricordi rimasti assopiti per più di cinquant´anni. E non solo ricordi, ma veri e propri stati d´animo, idee, atmosfere, e le relative passioni, ricordi soprattutto della mia infanzia». Quando Oliver Sacks, nell´ottobre del 2005, è venuto a Groninga per una conferenza, ha accettato di rilasciare un´intervista su ciò che il tempo fa ai ricordi e su ciò che i ricordi fanno al tempo. La conversazione, inaspettatamente, ha preso una piega malinconica. Sacks stava male e questo sembrava rafforzare la sua propensione a riflettere sul rapporto con i suoi genitori, sul corso preso dalla propria vita e sulla vecchiaia.
Quarant´anni di America non sono passati invano per Sacks, che si presenta con un berrettino arancione e scarpette da ginnastica cool. Ma senza berretto e con le scarpe sotto il tavolo, seduto davanti a me, c´è di nuovo innegabilmente l´inglese che lui è per nascita. Non vi è traccia di accento americano. Sacks parla con fare timido, con dolcezza e precisione. «Quando avevo cinquant´anni non avevo ancora mai preso in considerazione la possibilità di scrivere la mia autobiografia. Ma verso il mio sessantesimo compleanno ho notato che cominciavano ad affiorare spontaneamente dei ricordi di avvenimenti, persone, oggetti ai quali non avevo più ripensato dai tempi della mia fanciullezza. In quello stesso periodo mi hanno chiesto di scrivere un pezzo sui musei scientifici di Londra. Quei musei, per la mia formazione, sono stati più importanti di qualsiasi altro corso di studi. Una volta iniziato a scrivere sui musei e anche su mio zio Tungsteno era come, be´, come urinare: non potevo più fer-marmi».
Lei scrive che non riesce ad ascoltare Nachtgesang di Schubert senza dover pensare, "con nitidezza quasi insopportabile", a sua madre che cantava in piedi vicino al pianoforte. Perché "insopportabile"? «Perché mi rendo conto che lei non c´è più, che questo è il passato, che non puoi tornare al passato, che lei è morta, che quel tempo è morto, ma anche perché c´è un´insopportabile penosità nella musica di Schubert. Dopo la sua morte per un po´ l´unica musica che riuscivo a sopportare era quella di Schubert».
La scrittura dell´autobiografia ha cambiato il suo modo di pensare riguardo alla memoria? «Già non credevo, per cominciare, che i ricordi si fondassero sulla semplice riattivazione delle tracce cerebrali. I ricordi sono delle ricostruzioni, e il modo in cui si ricostruiscono dipende tra l´altro dall´età. Avevo messo in conto che avrei dimenticato parecchio. Ma la presenza di ricordi, ricordi molto vividi, rivelatisi non tanto ricostruiti quanto completamente fabbricati, mi ha davvero sorpreso.»
Ripensa talvolta al corso preso, professionalmente, dalla sua vita? «Sì, e pure di recente, nel treno verso Groninga. La vita di un dottore è diversa da quella di un ricercatore. Io dipendo da persone che bussano alla porta, mi telefonano, mi scrivono. C´è di certo meno coerenza nella mia vita. La mia forza creativa risiede, credo, nelle digressioni inventive verso soggetti esotici. Per la mia carriera non avevo in mente un tragitto chiaro. Ma più libri scrivo, più vedo i miei temi in prospettiva. Vedo con maggior chiarezza quale sia il mio orientamento intellettuale, quale sia il mio valore. Adesso posso commuovermi quando dei giovani mi raccontano di aver deciso di diventare dottori dopo aver letto i miei libri alla scuola media. Tuttavia, ora che sono entrato nella mia ottava decade, spero di avvicinare un po´ di più i miei temi tra loro, di cercare una sintesi. I colleghi qualche volta mi chiedono: "Sacks, dov´è la tua teoria?". Ma io non sono portato per le teorie generali, io fornisco i casi e gli esempi che devono formare il materiale per una simile teoria».
E adesso che è stato insignito di tutta una serie di dottorati di ricerca, appartenenze onorarie, premi letterari e scientifici? «Credo di essere stato un buon dottore per i miei pazienti. Un paio di giorni fa ho visto la signora Herbst. Ho ascoltato con attenzione, suggerito alcune cose, io conosco la mia disciplina come neurologo. Entrambi i miei genitori erano bravi dottori e loro avrebbero visto che anche io sono un buon dottore, pur avendo sensazioni contrastanti su molte cose che facevo. Nel 1970, dopo la pubblicazione di Emicrania, un giorno entrò nella mia stanza mio padre, cinereo, tremante, con il Times in mano: "Sei sul giornale!". Era sconvolto. C´era un pezzo sul mio libro, definito equilibrato e brillante, ma mio padre riteneva che un medico non dovesse finire sul giornale. Vigeva allora un´etica medica rigorosa, con le A proibite: adultery, alcohol, addiction e anche advertisement. Mio padre trovava doloroso il fatto che avessi reso pubblico in tal modo il nostro nome».
Suo padre visse fino al 1990, cambiò mai opinione sulla sua opera? «In seguito divenne più benevolo, più mite. Forse perché facevo qualcosa che piaceva fare anche a lui, era bravo a scrivere lettere e a raccontare storie. Forse era orgoglioso di me, anche io ero orgoglioso di lui. Era un tipo modesto, troppo modesto. In Inghilterra, nella medicina, c´erano due livelli, i medici di famiglia, che erano gli operai, e gli specialisti, che si sentivano socialmente e intellettualmente al di sopra dei dottori comuni. Ma mio padre nel fare diagnosi era straordinario, vedeva cose che agli specialisti erano sfuggite. Quando raggiunse l´età di novant´anni gli dissero: smetti adesso di fare visite a domicilio. Ma lui replicò: io smetto col resto e continuo con le visite a domicilio. Sfiorò i 95. Dedicò settant´anni di esperienza e dedizione a quelle visite a domicilio. Lasciai l´Inghilterra per andarmene dai miei genitori e da quella rigida gerarchia medica. Volevo spazio, provavo una sorta di risentimento nei loro confronti. Si può leggere quella rabbia "tra le righe" di Zio Tungsteno. Però man mano che invecchi cominci a vedere le cose diversamente. Nutro grande simpatia per le persone che fanno bene il loro lavoro e mio padre lo faceva. Non erano tempi facili e nemmeno io ero un figlio facile. In un certo senso li avevo sorpassati. Ciò mi impauriva e deve aver impaurito anche loro». Quindi partendo è stato un bravo figlio? «That´s a way to put it»." (da Douwe Draaisma, Oliver Sacks: 'Mio padre medico si vergognava dei miei libri', "La Repubblica", 21/05/'09)

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