martedì 26 maggio 2009

Dalla Nafisi alla Djavann, le donne raccontano soprusi e violenze


"«Tra pochi minuti m´impiccano, aiutatemi!». E´ difficile non ricordare le ultime parole di Delara Darabi leggendo il libro di Chahrdortt Djavann, La muta (Bompiani), il diario della quindicenne Fatemeh, condannata a morte per essersi ribellata agli infiniti soprusi di un vecchio mullah e avergli infilato un coltello un gola mentre lui le infilava il suo sesso nella vagina. Una storia di brutalità, disperazione e solitudine quella di Fatemeh e di una sua giovane zia muta, in un povero villaggio dove il mullah è onnipotente. Una impiccagione reale è invece quella di Delara Darabi, 23 anni, mandata a morte dal tribunale di Rasht dopo cinque anni di carcere per un omicidio di cui si era sempre proclamata innocente, e in spregio della norma internazionale che vieta la condanna a morte per delitti commessi da minorenni. Notizie di questo tipo, censurate dai giornali nazionali, emergono qua e là nei giornali locali iraniani e vengono rilanciate dai blog. Donne che uccidono a sangue freddo un marito dopo aver subito abusi senza fine da lui e dalla suocera. Donne che mutilano il parente che sta per stuprarle, oppure che vengono condannate per adulterio dopo essere state stuprate. La legge è contro di loro. Da sempre, ma soprattutto da quando con la rivoluzione islamica la Legge per la Protezione della famiglia fu abolita e si tornò alla sharia, che riduceva l´età per il matrimonio a nove anni, limitava il diritto al divorzio per le donne, toglieva loro la custodia dei figli e imponeva a tutte il velo.
Ma l´Iran è un paese di paradossi e uno di questi è stata l´esplosione di donne scrittrici dopo la rivoluzione islamica. Ad essa le donne parteciparono, lottando per la giustizia e la libertà senza neanche immaginare che il paese sarebbe precipitato poco dopo nel bigottismo e nella teocrazia, e questa lotta dette loro fiducia in se stesse. Dice Mehrangiz Kar, con Shirin Ebadi una delle più importanti giuriste iraniane: «Con tutti i sacrifici che avevano fatto durante la rivoluzione, ormai sapevano quanto i governanti fossero in debito verso di loro, e sapevano che la parità dei diritti era tra ciò che era loro dovuto. La richiesta di parità non viene più da un piccolo gruppo ma da tutte le donne, e il regime islamico sa di non poterla eludere senza rischiare una brutale separazione tra Stato e religione».
«Per sopravvivere dobbiamo distruggere il silenzio» scrive Simin Behbahani, la più famosa delle scrittrici iraniane (A cup of sin: selected poems Syracuse University Press). Anche questo apparentemente un paradosso: nei regimi repressivi sopravvive di solito chi nasconde il proprio pensiero. Prima della rivoluzione, sposata a un uomo non amato, Simin Behbahani aveva scritto soprattutto poesie d´amore nella forma classica, anche se modernizzata, del ghazal. Ma dopo, come molte altre poetesse, scelse la prosa, per parlare delle esperienze traumatiche della storia recente.
Il passaggio dalla lirica alla prosa è anche la storia di una emancipazione. La poesia era stata per secoli il genere letterario privilegiato perché con le sue metafore, i suoi simboli era stata anche un vero e proprio codice di resistenza contro i potenti, Lessan al Gheib, il lessico del segreto come dicono gli iraniani. Ma ora le donne decidevano di uscire allo scoperto. Di scrivere sulla guerra, gli arresti, le partenze di coloro che erano stati spinti all´esilio, mentre gli uomini spesso non avevano altrettanto coraggio di affrontare la realtà. La sessualità è ancora una linea rossa che non può essere superata, ma anche qui molte scrittrici hanno provato a uscire dal labirinto obbligato della purezza. Lo ha fatto soprattutto chi vive in esilio come Chahdortt Djavann o Azar Nafisi, autrice del bestseller Leggere Lolita a Teheran (Adelphi). Le scrittrici rimaste in Iran - Simin Daneshvar (i cui lavori più noti sono un romanzo, Siavushun, su una famiglia iraniana travolta dalla storia e Il tramonto di Jalal in ricordo del marito, noto critico letterario), Shahrnush Parsipur, Forugh Farrokhzad(che provocò uno scandalo per aver lasciato figlio e marito per un grande amore, di cui parla nella bellissima raccolta di poesie Prigioniera), e Fereshteh Sari, restano un modello di coscienza di sé per le più giovani: «Adesso sono/in posizione da poter/ spaccare il sole come fosse un melograno/e con il succo farne inchiostro per la mia penna ...», (Fereshteh Sari, L´attimo, citato da Figlie di Shahrazad di Anna Vanzan, Bruno Mondadori). In un blog ho letto di recente: «I miei guardiani sono uomini, sorvegliano le loro sostanze, i loro beni, il loro onore. Chi sono io? Sono l´onore di mio fratello, mio padre, marito, zio, perfino del figlio dei vicini. Nemmeno dopo morta mi onoreranno, al posto della mia fotografia metteranno una rosa, perché la vista di una donna può turbare un uomo ...»." (da Vanna Vannuccini, Se le scrittrici sfidano i mullah. Dalla Nafisi alla Djavann, le donne raccontano soprusi e violenze, "La Repubblica", 25/05/'09)

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