mercoledì 3 dicembre 2008

Racconti di orchi, di fate e di streghe. La fiaba letteraria in Italia


"Si intitola Dal buio delle notti invernali l'introduzione che Mario Lavagetto ha preposto a Racconti di orchi, di fate e di streghe, un'antologia della Fiaba letteraria in Italia (come recita il sottotitolo) da lui curata per i Meridiani Mondadori. E nel cortocircuito fra titolo dell'introduzione e sottotitolo del volume è già implicito il senso che il curatore ha voluto dare al suo lavoro. Nel buio delle notti invernali le nonne hanno raccontato, da che mondo è mondo e fino a poco fa, innumerevoli favole ai bambini raccolti intorno al focolare, nei più svariati dialetti e con parche teatralizzazioni fatte di gesti, pause, ammiccamenti: una forma elementare di intrattenimento popolare, l'oralità pura del tutto indipendente da una scrittura che certo nessuno dei narratori o narratrici sapeva decifrare. Il sottotitolo, invece, indica chiaramente che di fiabe scritte qui si tratta, depositate nella tradizionwe di una letteratura come quella italiana, la quale fino a metà Ottocento è stata molto sospettosa e sussiegosa nei confronti della favola, con emergenze sporadiche e lunghissimi periodi di silenzio: fiabe scritte che pescano certo quasi sempre nello sterminato patrimonio fantastico della tradizione orale, ma che lo adattano, lo arricchiscono, ne spostano gli equilibri narrativi e/o drammaturgici alla luce della sensibilità 'poetica', strutturale e stilistica dell'autore. In una parola, lo adulterano irrimediabilmente. Si determina così un paradosso: esclusivo e genuino prodotto popolare, la favola, se tale resta, non può essere comunicata se non a voce a una ristretta cerchia familiare (e da tempo, tra l'altro, non si danno più le situazioni perché quella comunicazione possa avvenire), con infinite varianti da famiglia a famiglia e dunque con l'impossibilità che diventi 'testo'; se invece assume forma testuale e viene fissata su carta, diviene un'operazione d'autore in tutto e per tutto ascrivibile alla letteratura, dimenticando totalmente la sua origine dal 'buio delle notti invernali'. Da Perrault a Calvino, da Basile ai Grimm, questo paradosso si ripropone continuamente, tanto da diventare un probante banco di prova (e sospetto sia questo il vero movente del lavoro di Lavagetto) per un´ulteriore definizione e precisazione dello 'spazio letterario', che nel caso della fiaba ha a che fare con condizioni davvero 'estreme': un tempo bloccato, o comunque sghembo rispetto alle usuali coordinate sia della realtà che della finzione narrativa; uno spazio ridotto a fondale fisso, fatto di castelli meravigliosi, o di altissime rupi e profondissime valli da scalare o attraversare fra mille insidie; un´azione ristretta a poche funzioni elementari, e iterative al punto da poter essere ridotte davvero a una manciata di motivi tematici; una radicale assenza di psicologia e di motivazioni nei personaggi; e via via dicendo. Eppure su questo materiale tanto esiguo si sono costruiti degli autentici capolavori letterari, a partire dal secentesco Lo cunto de li cunti di Giambattista Basile per finire con le novecentesche Fiabe italiane di Italo Calvino. Come è potuto avvenire? Lavagetto ne fa, a ragione, una questione di 'voce', e quindi di 'stile': la creatività dello scrittore che pone mano allo sterminato e labile deposito folklorico si esplicherebbe innanzi tutto nell´imitare le voci anonime e perdute dei narratori orali, nella loro regionalità, nelle loro semplificazioni sintattiche, nelle loro ripetizioni, nei loro modi di dire. Accade così che 'la trama narrativa della fiaba viene messa in secondo piano da una scrittura che la sovrasta', e che l´esercizio letterario trovi il suo fulcro in accanite modulazioni su temi già dati. Ma in tal modo, per via appunto stilistica, si costruisce una grammatica espressiva che supera la fiaba in sé per entrare nel ben più ampio territorio del 'fiabesco', immenso serbatoio virtuale, dal quale l´autore può trarre anche fiabe del tutto nuove, magari confezionate per combinatoria, o semplicemente per suggestione diretta di un 'tono', o di un´area tematica. La letteratura, insomma, vampirizza la favola allo stesso modo in cui vampirizza la vita; e alla fine, come per la vita, ne ritrae un senso più alto e complesso, da mettere a disposizione di ingenui ascoltatori divenuti ormai definitivamente 'smaliziati' lettori. Ammesso che l´obiettivo finale sia questo, le strade per giungervi sono ovviamente abbastanza diverse fra loro, e Racconti di orchi, di fate e di streghe ne offre un vasto campionario. Intanto ci ricorda che dal Cinquecento al secondo Ottocento di raccolte di fiabe d´autore ce ne sono state molto poche, all´incirca una per secolo: Le piacevoli notti di Giovan Francesco Straparola (1550-1553), il Cunto di Basile (1634-1636), le Fiabe teatrali di Carlo Gozzi (1761-1765). Poi, grazie al lavoro dei tanti 'folkloristi' che nell´Ottocento battevano le più remote contrade per stenografare dalla viva voce dei narratori le illetterate e formulari storie fantastiche da propinare intorno al focolare, l´interesse per la favola si riaccende negli scrittori, né verrà mai meno fino a tutto il Novecento. In questo panorama spiccano, naturalmente, le varie raccolte di fiabe di Luigi Capuana, che con l´amico Verga rivendicava drasticamente, come ricorda Lavagetto, la sua assoluta indipendenza di scrittura dalle fonti popolari: 'Non posso resistere alla mia vanità di dirti che in tutto quel libro non c´è una sola virgola che la favola genuina delle nostre donne possa reclamare'. Ma Verga, saggiamente, gli rispondeva mettendolo sull´avviso: 'Tu stesso non saprai quanta parte inconscia, e materiale direi, ci sia della nostra Sicilia nella più intima espressione di quei racconti'.
Siamo sempre lì, insomma: nel bilico che si determina fra una memoria etnica misconosciuta e una raffinata contraffazione letteraria, fra antropologia e cultura, fra testo virtuale e testo scritto. Ed è un bilico dal quale si affranca, forse, solo la Storia di un burattino di Collodi: falsa fiaba, o fiaba inaudita dilatata a romanzo, davvero unicum nel suo genere, tanto da divenire archetipo per tutta la narrativa per bambini - diventata genere in Italia proprio grazie a Pinocchio - del secolo e passa a venire. Ecco: Pinocchio segna probabilmente la cancellazione definitiva delle 'radici storiche dei racconti di fate' (come suona il titolo di un famoso studio di Vladimir Propp). Dopo il meraviglioso burattino, la fiaba d´autore diverrà archeologia per adulti (le Fiabe italiane di Calvino non sono in fondo altro), e non più 'lo trattenemiento de piccirille' di Basile. Tutti i nomi novecenteschi inclusi da Lavagetto - da Gozzano a Landolfi, da Cerami a Cucchi, da Moravia a Zanzotto, da Malerba a La Capria a De Simone - oscillano fra l´uno e l´altro polo, fra la 'riscrittura' e la scrittura, fra l´archeologia e l´invenzione franca, spensierata, di una storia. E la letteratura, grande assimilatrice di tutto e del contrario di tutto, e a tutto disposta pur di perpetuare se stessa e la sua missione, avrà segnato un punto, l´ennesimo, a suo favore." (da Stefano Giovanardi, Le notti di fate e orchi, "La Repubblica", 03/12/'08)

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