mercoledì 31 dicembre 2008

Da Istanbul a Kobe, la faglia nel cuore



"Pagine terremotate nascono - non è difficile capire perché - soprattutto dove la terra trema. L’esperienza del sisma - quella che poi troverà forma espressiva nella scrittura o in altre creazioni di un artista - prima di tutto prende in ostaggio, dentro la sua tellurica filigrana, esistenze. Vite simili a tante altre che si trovano repentinamente a fare i conti con il terrore della distruzione e la perdita delle persone amate. In pochi attimi devono prendere atto dell’annullamento di luoghi e dello sgretolamento di mondi che non potranno mai più ricomporsi. Né fuori né dentro le loro quotidianità. Di questa ferita irredimibile, una sorta di faglia che il terremoto scava nel profondo dei sopravvissuti, dà conto lo scrittore giapponese Haruki Murakami - l’autore di opere quali Tokyo Blues, Feltrinelli 1993, poi uscito da Einaudi nel 2006 col titolo originale Norwegian Wood e L’uccello che girava le viti del mondo - nei sei racconti del volume, sempre pubblicato da Einaudi, Tutti i figli di Dio danzano. A far da filo conduttore alle vicende che confluiscono nel libro è il terremoto che colpisce la città di Kobe nel 1995. In quel sisma che provoca quattromila vittime, e lascia senza casa più di trecentomila persone, perdono la vita anche i genitori dello scrittore che, con una lunga rielaborazione del dolore, ambienta le sei storie in un tempo che sembra sospeso tra due apocalissi. Gli eventi si svolgono infatti a trenta giorni dal terremoto di Kobe e un mese prima che si registri l’attacco di una setta - con l’impiego del Sarin, un gas venefico impiegato nella guerra chimica - contro ignari viaggiatori della metropolitana di Tokyo. Pur assai dissimili l’uno dall’altro i tragitti esistenziali dei personaggi di questi racconti di Murakami sono avvolti dallo stesso gelo che, all’indomani della scossa di Kobe, ha collocato le vite dei sopravvissuti sotto un cono d’ombra. Opaco a qualsiasi tepore di sole. Anche Orhan Pamuk - scrittore che viene da un Paese come la Turchia dove la terra trema spesso, provocando disastri severi - non poteva non fare i conti con il disastroso terremoto che nel 1999 colpisce la sua amatissima Istanbul. I morti sono migliaia, decine di migliaia i feriti, incalcolabili le rovine tra le quali si aggira, partecipando ai soccorsi, lo scrittore poi destinato al Nobel. La visione della città messa a nudo dalla macerie - quasi il sisma avesse dato visibilità a tutti i passaggi di civiltà, al transito delle popolazioni che si sono concatenate nei secoli, finendo sepolte, strato dopo strato, dai successi arrivi - è il tema che Pamuk va a svolgere nelle pagine, pubblicate da Einaudi, che confluiscono in Altri colori. Un testo dove la scrittura sembra farsi carico di un intervento riparatore, successivo ai primi soccorsi ma niente affatto irrilevante, contro l’implosione del sisma che capovolge mondi e azzera consolidati modi di vivere. Se questi sono i più recenti faccia a faccia tra scrittori contemporanei di ogni latitudine e i terremoti che hanno colpito la loro terra, anche in passato, a ogni sisma severo che annichilisce città e semina distruzione, corrispondono voci - poetiche o narrative, di impegno civile o di riflessione filosofica - che si fanno strada tra le macerie. La cultura italiana del Novecento, ad esempio, è costituita anche da questo vertiginoso e doloroso passaggio attraverso le rovine sismiche di personaggi, già noti o destinati a diventare tali, che si sono visti sottrarre dal terremoto affetti e sicurezze. E, dopo aver fatto il vuoto attorno a loro, impone loro di ricominciare, di essere quello che, forse, non erano destinati a diventare. È il caso di Benedetto Croce che nel sisma del 1883 di Casamicciola perde i genitori e la sorella. Il terremoto di Messina del 1908 toglie a Salvemini cinque figli e la moglie. Ignazio Silone, nel sisma che colpisce la Marsica nel 1915, sopravvive solo col fratello alla distruzione dell’intera famiglia. Destini, dunque, davvero terremotati. Certo ci sono nella letteratura personaggi - non in carne e ossa ma altrettanto vivi - che solcano macerie sismiche perché lì sono stati mandati dai loro autori. Voltaire, ad esempio, non perde l’occasione di mandare il buon Candide e il suo maestro Pangloss a continuare l’apprendistato attorno al 'migliore dei mondi possibili' nella Lisbona devastata dal terremoto del 1755. Con tutto quel che ne consegue. E poco dopo Heinrich von Kleist in un racconto del 1807, cinque anni prima di ammazzarsi, fa del terremoto, più precisamente del Terremoto in Cile del 1647, il poderoso e terrificante strumento che - al prezzo di azzerare una città e la sua popolazione, peraltro tutt’altro che misericordiosa e dunque non meritevole di alcuna pietà - ristabilisce un fuggevole attimo di tregua nella vita di due amanti derelitti. Ma è, appunto, un fragile intervallo. Collocato in quell’interminabile terremoto che, con scosse sismiche o senza, è in definitiva la vita di tutti. " (da Giorgio Boatti, Da Istanbul a Kobe, la faglia nel cuore, "La Stampa", 30/12/'08)

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