venerdì 25 febbraio 2011

Se la fortuna è nostra


"A volte viene da domandarsi se esiste ancora una letteratura che non vuole scorrere facile, che sente la responsabilità e la potenza di ogni parola tracciata sulla pagina: una letteratura che deve arrivare al cuore della vita, e se non ci riesce non rischia il fallimento artistico, ma la rovina esistenziale. Aurelio Picca ha scritto un libro importante, mille miglia lontano da ciò che oggi si legge, un diario-romanzo che impasta a mani nude presente e passato, cocci di vetro e cieli azzurri, frammenti affilati dal tempo e attimi di oblio. Se la fortuna è nostra (Rizzoli) ha la porta di ingresso stretta, non invita ruffianamente a entrare in una "bella storia". Piuttosto urta, raschia, scalcia, sembra quasi dire al lettore: "Questa è casa mia, qui si fa come dico io, non pensare di passeggiare in qualche paesaggio piacevole, tra personaggetti melodiosi". All'origine del libro c'è la promessa fatta dallo scrittore al nonno di raccontare la sua storia, la storia di una famiglia intera, da quando il trisavolo Arcangelo abitava la casa di Colle di Pietra, e per amore uccise e tutto perse, fino all' infanzia del piccolo Aurelietto, che guarda e impara dalla forza e dalla pena della vita. Siamo su una linea quasi abbandonata, quella che porta dal Verga più furibondo alle visionarie malinconie di Federigo Tozzi, a quelle campagne italiane dove la terra è sangue e sogno. E' un mondo arcaico, ferocemente allegro, allegramente feroce, che procede tra fallimenti e grandi amori, tra abbracci e addii e bevute colossali e vendemmie, un mondo contadino che a poco a poco entra nella modernità rischiando di pagare il prezzo altissimo di una smemoratezza che tutto seppellisce e cancella. Per questo Aurelio Picca si fa cerimoniere di un'aia pagana e sacra dove i vivi e i morti stanno ancora insieme nella sera del Grande Banchetto. Ogni trapassato riaffiora nel presente con la sua storia, ogni morto offre radici ai fiori effimeri dell'oggi. Il padre è il perno di questa ruota malinconica, lui che morì troppo giovane, quando Aurelio Picca non aveva ancora due anni. Ma la famiglia rimase intatta, il patriarcato istituito dal nonno resse alle mazzate del destino, e il bambino crebbe in un'adorazione quasi sacra per il sangue della sua stirpe, gente rude, orgogliosa, tenacemente legata alle tradizioni, ai campi, alla propria storia. Tutto il libro batte tra la campana e la zappa, a colpi secchi, scandendo il tempo dei battesimi e dei matrimoni, delle comunioni e dei funerali. C'è un'enfasi dichiarata, un'epicità che solleva il quotidiano e lo porta fino al cielo della Necessità, una solennità che fa vibrare ogni singolo momento. Se la fortuna è nostra è il romanzo di un'Italia che non esiste più e che pure ancora ricordiamo, un'Italia terribile e nobile in cui tutto si incideva nella pietra della memoria familiare, e un'onta non si lavava nemmeno in cento anni, e l'amore diventava festa per tutti. Strappandosi i ricordi dal corpo, Picca ha voluto celebrare il nostro passato con una voce gridata, commossa, indimenticabile." (da Marco Lodoli, Una famiglia arcaica tra allegria e ferocia, "La Repubblica", 21/02/'11)

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