venerdì 4 febbraio 2011

Lo spacciatore di talenti, Brioschi: vi ho fatto leggere Hornby e Safran Foer


"I modi di Luigi Brioschi sono compassati. Se fosse nelle gerarchie ecclesiastiche lo si potrebbe immaginare come un elegante monsignore dai toni cauti e cortesi. Ma una laurea in diritto ecclesiastico non è stata sufficiente per avvicinarlo troppo a quel mondo. «Ho preferito occuparmi di editoria», dice. La stanza in cui mi riceve è ariosa e ordinata. Una parete di libri alle spalle; una piccolissima scrivania intarsiata (ereditata da Mario Spagnol, ci tiene a farmi sapere) un cassettone su cui si ammucchiano le proposte editoriali e infine un tavolinetto rotondo attorno al quale si svolge la nostra conversazione. Oggi Brioschi è presidente e socio di Guanda e direttore editoriale di Longanesi. Entrambe le case editrici appartengono alla GeMS (il Gruppo editoriale Mauri Spagnol), la cui quota di mercato complessiva è di circa il 12%. Che la pongono al terzo posto dietro Mondadori e Rizzoli.
Le crea qualche problema essere parte di un gruppo così grande? «Guanda gode di una totale indipendenza editoriale, di cui sono il garante. Ovvio che rispecchia una precisa filosofia di gruppo».
Quando ha cominciato a occuparsi di editoria? «Con Elio Vittorini che era consulente alla Mondadori. Nei primi anni traducevo inglesi e americani. Dopo la sua morte, grazie all'interessamento di Oreste Del Buono, entrai alla Rizzoli. Lì divenni editor della narrativa, poi responsabile dell'ufficio diritti, capo ufficio stampa e infine direttore editoriale per la narrativa. Fu in quegli anni che ricevetti l' offerta da Mario Spagnol di passare alla Longanesi».
Di quali anni parliamo? «Era il 1984 e quando Spagnol acquistò Guanda, alla fine del 1987, mi offrì la direzione editoriale. La casa editrice aveva un bel passato, ma poche prospettive. Praticamente viveva senza un portfolio autori e con una scarsa presenza in libreria. L'idea era di cercare autori e libri al di fuori di quell' area affollata e competitiva del mercato dei diritti».
Non è facile scoprire talentie pagarli a buon mercato. «Avemmo la fortuna, dopo un paio di anni, di imbatterci in un'autrice spagnola: Almudena Grandes. Allora il mercato editoriale spagnolo non era molto osservato e improvvisamente apparve questo romanzo erotico, Le età di Lulù, del quale mi incuriosii. Lo acquistammo senza pensare che sarebbe diventato nel giro di pochi mesi un best-seller da 100 mila copie. Era il 1990: stava nascendo la movida. Nel 1992 ci fu l' incontro indiretto con Luis Sepúlveda. Lessi su un settimanale francese una piccola recensione a Il vecchio che leggeva romanzi d'amore e lo comprammo più che altro incuriositi dal fatto di capire se dopo la grande ondata della letteratura latino-americana c'era ancora spazio per qualche romanzo che proveniva da quel mondo. Fu incredibile il successo che ottenne».
Sepúlveda è tra i vostri autori più popolari. «Complessivamente con i suoi libri abbiamo venduto oltre sei milioni di copie. Molto più di un biglietto della lotteria. In ogni caso, la fortuna in questo mestiere è fondamentale».
E l'abilità? «Se non sei abile alla lunga non sopravvivi. Quando entrai, Guanda fatturava sotto il miliardo di lire. Oggi è a trenta volte tanto».
Siete una casa editrice che guarda molto fuori dall'Italia. «C'è una proporzione di tre libri stranieri pubblicati per ogni titolo italiano. Ci muoviamo a tutto campo: narrativa anglo-irlandese, americana, cilena, indiana».
Ma in un Paese che legge poco ha senso proporre così tanti scrittori stranieri? «Le cito alcune punte. Nick Hornby è un nostro autore di successo. Alta fedeltà ha venduto fino ad oggi 365 mila copie. Il Dio delle piccole cose dell'indiana Arundhati Roy è stato un best-seller di 400 mila copie. Trainspotting di Irvine Welsh è stato un best-seller in Gran Bretagna. Noi lo abbiamo preso andando contro l'indifferenza che c'era attorno a questo romanzo». Indifferenza provocata da cosa? «Molti editori, vista la forte gergalità, pensavano che fosse un romanzo intraducibile. Io l'ho letto e l'ho trovato non solo turbolento nei contenuti, ma anche nella forma. Alla fine abbiamo avuto ragione di pubblicarlo».
Con quali criteri sceglie un romanzo? «Criteri nella lettura non ce ne sono. C'è l'orecchio e l'esperienza. Si tratta di leggere e avvertire se in quella voce che affiora c'è un elemento di novità. Per farle un esempio, ricordo che quando giunse in casa editrice il manoscritto di Jonathan Safran Foer, Ogni cosa è illuminata, rimasi colpito dall'assoluta singolarità della sua voce narrativa: da un lato la favola ebraica, dall'altro il viaggio in Ucraina per ritrovarei segni della propria famiglia,e chi l'aveva salvata dal nazismo».
Ma se c'è la voce e non il libro che accade? «La voce, il timbro di un romanzo, è la cosa più importante, poi viene l'architettura. E se non c'è la costruzione il romanzo si perde. È come avere una grande idea e non sapere come realizzarla». Magari ci mettete le mani. Cosa pensa dell'editing? «Sui libri stranieri mi pare difficile che si possa intervenire se non con una buona traduzione. Per gli italiani è diverso. In certi casi puoi consigliare, ma senza essere invadenti. L'editing è l'arte della discrezione. Una volta l'editore Peter Suhrkamp rivolgendosi a due suoi collaboratori disse: "Ricordatevi bene una cosa: ogni autore, per quanto giovane, è una personalità creativa. E sovrasta da un'altezza vertiginosa tutti noi tre che siamo seduti qui". Ho un'idea gregaria dell'editing. Mi asterrei dal culto dell'editor».
È il rispetto dell'autore. «Per noi fondamentale. E non è solo una questione di stile. Rispettare un autore significa riconoscere la sua centralità, avere fiducia nel suo talento».
Fino a che punto? Mettiamo che quella voce narrativa non incontra sul mercato, che fa? «Le delusioni sono messe nel conto. Se crediamo in uno scrittore lo sosteniamo. Ricordo che quando abbiamo cominciato a pubblicare John Banville, nei primi anni vendeva pochissimo. Poi vinse il Booker Prize e i suoi libri cominciarono ad avere un consenso di pubblico. A volte bisogna sapere aspettare».
Si è mai pentito di aver abbandonato un suo autore? Glielo chiedo perché immagino che le sarà accaduto. «Naturalmente è successo. E c'è un caso in particolare che mi è dispiaciuto: aver lasciato Paul Auster alla concorrenza. Agli inizi degli anni Novanta pubblicammo tre suoi titoli. E malgrado gli sforzi fatti, non vendeva. Alla fine mi sono lasciato convincere a mollarlo. È stato un errore».
C'è crisi nell'editoria? «C'è, ma in misura inferiore che negli altri settori. In Italia più del 50% della popolazione adulta non legge. Però la quota dei lettori forti nel nostro Paese resiste meglio che altrove». I premi letterari sono una risorsa? «Sono un riconoscimento. Se capita partecipiamo. Siamo stati presenti, negli ultimi anni, sei volte nella cinquina del Campiello e ne abbiamo vinti due».
E lo Strega? «Un premio complicato, fatto da forze elettorali che bisogna fronteggiare. Importante per le sorti di un libro e di un autore. Ma non lo metterei al centro di ogni preoccupazione. Trovo che in generale la partecipazione andrebbe un po' sdrammatizzata e svelenita»." (da Antonio Gnoli, Lo spacciatore di talenti, Brioschi: vi ho fatto leggere Hornby e Safran Foer, "La Repubblica", 03/02/'11)

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