lunedì 26 marzo 2012

Ricuperati, 'Su quel taxi a Manhattan. Il mio ricordo di Antonio Tabucchi'


"La sola cosa buona di aver incontrato Antonio Tabucchi così poche volte è lo splendido nitore che avvolge tutti i carati del ricordo – quattro occasioni, in quattro città del mondo diverse, New York, Bucarest, Lisbona, Parigi, più una lunga telefonata da Torino, in poco più di sei mesi di intensa frequentazione mentale. Poi il nulla – e la stretta annacquata di un rimorso senza grinta, ora, in questa domenica di primavera con le ombre finalmente chiare fino a sera, a poche ore dalla notizia che Antonio non respira più con noi. Avrei dovuto capire meglio: avrei dovuto chiarire: avrei dovuto vederci meglio, perché ero quello più giovane e solo gli adolescenti e i vecchi possono permettersi di essere permalosi - e quando l'ho conosciuto non ero vecchio, e non ero adolescente da un pezzo.
Ho conosciuto Antonio Tabucchi alla fine dell'estate 2007, quando lui aveva sessantatrè anni e io ventinove – a New York, su un tassì, attraversando Manhattan da Midtown al Lower East Side, dove stavamo andando perché avevo chiesto a un suo amico caro, Norman Manea - scrittore ebreo rumeno che ha avuto la singolare ventura di essere stato perseguitato in una sola vita dai comunisti (Ceausescu) e dai nazisti (nella Buchovna dei primi anni '40) - di partecipare alla presentazione americana di Abitare, rivista allora diretta da Stefano Boeri, il quale aveva affidato a me, scrittore-non-scrittore, l'impervia idea che guidava l'intero progetto editoriale: abbinare l'architettura alla letteratura contemporanea, presentare ogni edificio insieme a un racconto d'autore. Manea aveva esteso l'invito a Tabucchi, che era lì per qualche iniziativa del PEN Club, e in uno di quei giri di valzer tra porte scorrevoli, borse piene di libri e traffico cittadino, sull'orlo del marciapiede, abbiamo deciso di imbarcarci tutti e tre sulla stessa auto, diretta verso Polizzotti Park – dove si teneva l'evento. Tabucchi era un intellettuale completo e curioso, ma credo che l'avesse fatto perché c'entrava il suo amico Manea, e perché c'entrava un gruppo di giovani, e soprattutto perché era un uomo generoso e gli uomini generosi sono generosi soprattutto con quelli nati dopo di loro.
Un paio di giorni dopo saremmo andati a mangiare una pasta in un ristorante italiano, nell'Upper West Side, io lui e la moglie: credo di aver girato un filmino con il cellulare, ma non voglio rivederlo, perché da quel che ricordo Tabucchi si stava lamentando di qualcosa, probabilmente parlavamo di Pd o di Berlusconi, e non voglio associare questi due diversi generi di fallimento italiano alla memoria di uno scrittore.
La seconda volta fu a Parigi – nel suo appartamento di Rue de l'Universitè, di cui trattengo con precisione solo una specie di tinello con un fax, e il nostro incontro interrotto da due telefonate diverse: una con un giornale italiano, una con Milan Kundera, che aveva invitato Tabucchi a una manifestazione cinematografica parigina. In casa c'era una studiosa che collaborava con lui, e conservo due cose di quel pomeriggio: un lungo ragionamento intorno a Robert Walser, il grande eccentrico autore svizzero sulla cui Passeggiata (Adelphi) Tabucchi mi avrebbe inscritto una bellissima dedica; e la strana, invidiabile condizione di appartenere alla ristretta élite di ‘international authors' pubblicati e tradotti ovunque, presenti sui grandi giornali e nel dibattito di attualità, invitati dalle università e dalle istituzioni di qualsiasi latitudine.
La terza volta avvenne a Lisbona – anzi, nella casa del mare della famiglia Tabucchi-Lancaistre, nella baia di Troia, a mezz'ora di treno dalla capitale portoghese, e so di aver fatto un breve viaggio in traghetto, e all'approdo di aver visto il grande manierista postmoderno di Notturno Indiano che viene a prendere un giovane che non è stato suo allievo, che non ha niente da dargli in cambio, che non ha curato monografie né ha investito in complimenti o adulazioni: poi un tragitto in una lingua di terra adombrata dal quasi-tramonto, una deliziosa cena insieme alla deliziosa bimbetta, nipotina con i capelli ricci bellissimi, e la sensazione netta di un rito letterario che si compiva – con tutta l'ironia del caso. Come ne Lo Scrittore Fantasma di Philip Roth, quando Zuckerman si trova a dormire ospite nella magione del grande Lonoff, e una fuga di fantasmi e libere associazioni si traslano nell'aria che separa e unisce l'esordiente e il venerato maestro. In questi casi una promessa d'incomunicabilità si mantiene ancor prima di essere formulata, e quel pomeriggio in tasca avevo una copia del mio romanzo preferito degli ultimi trent'anni, Gli anelli di Saturno di W. G. Sebald, e Tabucchi lo conosceva ma non lo aveva letto, e visto che dormiva poco e io ero stanchissimo ricordo di essermi ritirato dopo averlo visto con certezza tra le sue mani – un'edizione Bompiani, tascabile, consumata fino all'osso. E l'indomani mattina, con il sole e il traghetto da prendere, e dopo una visita ad alcune ville moderniste nei dintorni, diventa difficile dimenticare la magistrale umiltà con cui uno dei più noti letterati italiani globali riceveva il consiglio di un semi-sconosciuto, semi-arrogante, semi-simpatico ventinovenne che aveva appena ospitato a casa sua, nutrito, accompagnato: «non l'avevo mai letto, davvero straordinario».
L'ultimo incontro fu a Bucarest, in un hotel, di nuovo in compagnia di Norman Manea, perché entrambi ricevevano la laurea honoris causa dalla facoltà di Lettere locale, e insieme avevamo nel frattempo progettato un viaggio fatto di immagini e parole attraverso la Buchovina, la regione natale di Manea. Doveva diventare un libro, ma non se ne sarebbe fatto nulla. Ricordo una cena, la signorilità di Tabucchi nel sistemare il conto e la simpatica petulanza nei confronti di Orhan Pamuk, che riceveva la laurea insieme a loro, e viveva tuttavia al riparo da ogni convivialità protetto da un muro di guardie di scorta.
C'è infine un timbro puramente acustico, in questa breve collezione di istanti – una telefonata che Tabucchi mi fece insistendo perchè mi rivolgessi a un avvocato prima di intrapendere un progetto narrativo che stavo coltivando, riguardante un importante politico italiano sul quale poi sarebbe stato girato un importante lungometraggio da un importante regista. Era un gesto d'affetto e di rispetto, di protezione aggiuntiva – portata all'orecchio con insistenza da quella voce con l'accento toscano, da centinaia di chilometri di distanza." (da Gianluigi Ricuperati, Su quel taxi a Manhattan. Il mio ricordo di Antonio Tabucchi, "Il Sole 24 Ore", 25/03/'12)


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