venerdì 2 marzo 2012

I dannati non muoiono


"I romanzi gialli, chiamiamoli così, e tutti i loro derivati, mi hanno sempre fatto pensare al nuoto pinnato. Fin da piccolissimo (dodici-tredici anni) leggendo Simenon, Conan Doyle, Rex Stout, Dashiell Hammett e Raymond Chandler, ho sempre avvertito un brivido esattamente uguale a quello della velocità in acqua. Cioè, hai l'impressione di muoverti in un elemento che non è il tuo, ma con l'aiuto delle pinne l'elemento comincia a essere già più tuo; inarrivabile rimane la velocità dei pesci e delle altre creature marine, ma ciò che a piedi nudi risulta arduo e spesso anche pericoloso, con l'abbrivio prodotto dalle pinne diventa più semplice e naturale. Allo stesso modo tutto il torbidume sollevato dai romanzi gialli - che solitamente dragano il fondo della società facendo venire a galla "le peggio cose" - risultava, a me adolescente, molto più sostenibile all'interno di un meccanismo che venisse ogni volta smontato pezzo a pezzo e poi spiegato. Mai che quei romanzi ti spiegassero perché gli uomini possano essere così abominevoli - ma certo sapevano offrirti un vastissimo campionario sul come potevano esserlo. E questo, nel mio caso di adolescente, lo vivevo come una protezione.

Be', credo ancora che il segreto del successo di questo genere, che nei decenni ha assunto forme e nomi diversi (crime fiction, hard boiled, detective story, thriller, noir, eccetera) ma è rimasto sostanzialmente immutato nei contenuti, sia proprio il senso di protezione che infonde mentre ti affida alle più melmose profondità del Male, e che questo derivi proprio dalla velocità con la quale l'elemento ostile viene attraversato. Dostoevskij, che di molti autori di genere è il maestro conclamato, così come i Led Zeppelin lo sono di molti musicisti Hip-Hop, ha dragato quei fondali lentamente, senza le pinne, dimostrando quanto quel tipo di immersione sia da considerarsi impresa pazzesca e inconcepibile per autori che non siano dotati del suo genio; e tuttavia, pur imprigionata in un meccanismo narrativo che ne limita - ovviamente - la portata, la scrittura dei giallisti parte da questo imprinting dostoevskiano, che i migliori tra loro riescono a mantenere vivo e pulsante sotto la crosta dura del gergo e del contesto criminal-poliziesco.

È il caso di Jim Nisbet, autore ormai maturo e celebrato (in Europa, mentre a casa sua, in America, anzi, in California, la sua fama di hard-boileder inizialmente destinata a farne l'erede di Jim Thompson si è incagliata nelle secche editoriali che hanno fatto naufragare la sua etichetta di riferimento, la Black Lizard di Berkeley), i cui riferimenti alla grande letteratura senza pinne sono sempre stati profondi e coerenti e col tempo perfino evidenti, pur se mai gli si è potuta imputare qualsivoglia velleità d'imitazione. Come Chandler, Nisbet ha sempre destinato una franca e maniacale attenzione alla lingua, quell'american-english che molto deve del proprio successo anche agli sforzi degli autori di genere - in termini di elasticità, fruibilità e addirittura di universalità; e questo fin dal suo primo libro, The Gourmet, successivamente ripubblicato col titolo di The Damned don't Die e oggi, dopo l'aggiunta di un capitolo, di nuovo ristampato e diligentemente riproposto in Italia dalla costola noir di Fanucci chiamata Time Crime, col titolo di I dannati non muoiono.

Era molto giovane, Nisbet, nel 1981 - anno di prima pubblicazione di questo romanzo. Il mondo era diverso, e soprattutto San Francisco era diversa - molto più simile a quella degli anni '40 che a quella di oggi. E Nisbet stesso doveva ancora "sbozzolare" come scrittore, ragion per cui risulta comprensibile e perfino tenero il ricorso alla piena classicità noir nell'ambientamento e nella caratterizzazione dei personaggi. Tuttavia, il libro presenta fin dalle prime pagine il magistero del grande scrittore, presentandoci un protagonista, Martin Windrow - ex-SFPD diventato privato per un incidente di percorso, massiccio, beone, solitario e pieno di cicatrici - che, come Philip Marlowe, avrebbe ben potuto essere riproposto per una lunga serie di romanzi successivi. Invece Nisbet lo abbandona lì alla fine del romanzo, senza riprenderlo mai più - e nella prima versione, quella priva del capitolo aggiunto alla nuova edizione, si trattava di un abbandono assai scioccante, in un finale apertissimo, a tu per tu con l'anima dannata che lui solo ha saputo rintracciare, entrambi a cinquanta centimetri da una pistola, senza nemmeno farci sapere come va a finire il duello ...

Ora, il meccanismo narrativo è così serrato che qualsiasi riferimento alla trama costituirebbe un inopportuno svelamento dei suoi snodi: dirò soltanto che la sua (ri)lettura risulta forse ancor più piacevole per chi, negli anni, si sia goduto i romanzi più maturi e celebrati di Nisbet, da Iniezione letale a Prima di un urlo a Cattive abitudini (per limitarci a quelli tradotti e pubblicati in Italia da Fanucci), poiché mostra veramente da dove è partita la sua vena ricca e maledetta - da quali nobili radici abbia preso linfa e ispirazione. Dirò soltanto che la violenza, che esplode qua e là con possenti deflagrazioni omicide, non è che lo sfondo quasi scontato di una narrazione che s'immerge fino al dettaglio nelle sue (della violenza) variabili, diciamo così, mondane: sadomasochismo, voyeurismo, ricatto, ambiguità sessuale, sopraffazione fisica e psicologica si srotolano sotto gli occhi stanchi di Windrow che non si scompone dinanzi a tutto ciò ma continua a scendere sempre più giù, girone dopo girone, offrendo in sacrificio il suo bel corpo incorruttibile - bersaglio ripetuto di lame e bastonate e pallottole di grosso calibro ma del resto anche dannatamente incapace di morire. D'altronde, ciò che lui stesso infligge al proprio corpo - l'alcol, il trash food, la vita disordinata, la birra scura a colazione, con un uovo dentro - è quasi peggio, e nella sua innocente ostinazione a portare fino in fondo il proprio compito egli incarna il perfetto esemplare di eroe-che-non-sa-vivere, maestro ideale dell'immersione veloce e sostenibile nella feccia più spaventosa dell'umanità." (da Sandro Veronesi, L'elemento del crimine, "La Repubblica", 01/03/'12)

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