mercoledì 21 marzo 2012

Quel carciofo che è Rabelais



"Tra una chiacchiera d’ufficio e l’altra, nella torinese stanza condivisa in via Biancamano, Italo Calvino mi fece dono di una strabiliante immagine: «I capolavori letterari sono libri-carciofo: li apri e sotto ogni lembo scopri qualcosa di nuovo e di diverso». E non esitò a semplificare: «La Commedia, il Chisciotte, Gargantua e Pantagruel ...».

La traduzione del capolavoro di Rabelais, di cui allora disponevo, era quella, per l’appunto einaudiana, del compianto Marco Bonfantini: ero solito menar vanto (arrossisco nel ricordarlo) di saperne a memoria alcuni passaggi lubrichi. Ora potrò rinfrescarla sulla nuova versione, che il nostro francesista principe Lionello Sozzi ha realizzato - testo a fronte a cura di Mireille Huchon - insieme a quattro validi colleghi, ad apertura di una nuova collana di classici, diretta dal bruniano Nuccio Ordine per Bompiani.

Il «Carciofo» di Rabelais contiene di tutto, proprio di tutto: nel concatenarsi sempre stringente, in base ad un sapientissimo calcolo, delle più disparate avventure si susseguono gestazioni di undici mesi, sbornie e mangiate colossali, vestimenta smisurate, giocattoli monumentali, cavalcature enormi, inversioni strabilianti (come quella di un nettaculo a base di cappello di pelo, «perché asterge completamente la materia fecale»): e siamo neppure a metà del primo dei cinque libri del romanzo.

Su questi aspetti comici del plot rabelaisiano scrisse un libro memorabile, intitolato l’Opera di Rabelais - la cultura popolare, uno studioso russo, Mikhail Bachtin (apparve in inglese nel 1968 e undici anni dopo presso Einaudi, suscitando un’ampia e molto stimolante eco).

Bachtin insisteva sulla «matrice popolare del riso di Rabelais», il quale, a suo avviso, elevava «a dignità letteraria ... una visione “bassa” del mondo», arricchendo del proprio superiore talento una tradizione popolare da lui definita «carnevalesca, perché legata al mondo subalterno, e per di più grottesca, materiale, corporea, connessa, ad esempio, col grande tema della ghiottoneria popolare, e una netta antitesi con la cultura seria e ufficiale delle classi dominanti».

Ho citato un passo della mirabile traduzione del Sozzi, quarantotto pagine fitte fitte, che sono al tempo stesso una rassegna completa ed organica degli studi non solo su Rabelais, ma sull’intero Rinascimento europeo (vi sfilano grandi nomi come Auerbach, Febvre, ma anche i nostri grandi Garin e Cantimori), ed una serrata introduzione alla multiforme personalità di Rabelais ed alla sua sterminata cultura.

Su questi due punti vale la pena tentare un inadeguato riassunto. Rabelais, figlio di un avvocato, studiò legge, prese gli ordini del frate francescano, passando poi al più dotto ordine benedettino, fu medico per laurea e professione, poi monaco, canonico e infine curato. Viaggiò, per l’epoca, molto: fu a Roma ben tre volte, visitando en route Firenze, e per due anni (1540 - 42: aveva all’epoca tra i 57 e i 59 anni) in Piemonte al seguito dell’allora governatore Guillaume du Bellay. Si può facilmente dedurne che un/due volte frate-monaco-prete secolare abbia alle sue spalle una notevole cultura religiosa e classico-umanistica. Il Sozzi, nelle sue fondamentali pagine, parla di una mole di letture-studio «addirittura portentosa»: vi si racchiudono «Platone e Luciano, Virgilio e Lucrezio, Pulci e Folengo, Budé e Tommaso Moro, il pensiero eretico ed Erasmo, senza contare la conoscenza dei testi sacri, dalla Bibbia ai Padri della Chiesa». La tesi sostenuta dall’eccellente studioso torinese è questa, se non la glosso malamente: è vero che nel monumentale romanzo Rabelais propone «una satira del sapere libresco, la gioconda irrisione delle convenzioni diffuse, un inno gioioso alla vita, ai gustosi sapori del mondo», ma occorre vedere ciò che è sotteso a codeste prese di posizione per positivo. Ed è, ad esempio, l’elogio «di una dignità umana concepita come efficienza», la coscienza che nell’individuo contano un «attivo impegno, senso dell’onore, buon umore, prudenza, serenità, perspicuità, civiltà». Come Rabelais stesso suggerisce nel prologo al Quarto libro dell’opera, non è colpevole dimostrare «una certa gaiezza di spirito», quando essa sia «fondata nel disprezzo delle cose fortuite». Ed, infine, non è una pericolosa audacia sostenere - come Gargantua scrive a Pantagruel - che la formazione dell’uomo dev’essere basata sulle «vive e istruttive parole» della cultura, ma, con la stessa intensità, su «lodevoli esempi», che l’esistenza altrui ci propone: dal momento che «scienza senza coscienza è la rovina dell’anima»." (da Guido Davico Bonino, Quel carciofo che e' Rabelais, "La Stampa", 20/03/'12)

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