lunedì 20 giugno 2011

Livio Garzanti: 'La crisi italiana è culturale'


"Livio Garzanti, novant'anni il prossimo primo luglio. Lo incontriamo nella sua casa milanese, dove ci accoglie con battute e spirito da giovanotto. 'Ma perché dovete occuparvi di me?', borbotta lasciandosi cadere su una comodissima poltrona. Una pausa e poi un'altra domanda che non ha bisogno di risposte: 'Ma lei è così ingenuo da credere che ci siano ancora editori?'. Infine, una sentenza che andrebbe meditata: 'La crisi dell'Italia è una crisi culturale'.
Garzanti ha scritto due romanzi, L'amore freddo (1979) e La fiera navigante (1990), i racconti Una città come Bisanzio (1985) e un saggio filosofico, Amare Platone. Una lettura del Fedro (2006), ma soprattutto è l'ultimo esemplare di quella razza di editori - anche nel senso industriale - che fece onore all'Italia. Appena ci vede, le sue parole non si fanno attendere: «Romanzi? Narrativa? C'è ancora qualcosa che vale la pena leggere? Me lo dica, per favore, perché i libri durano qualche giorno e niente si fissa nella memoria». Dopo un calcolato stacco con sospiro: «Siamo sommersi dai premi ma non ricordiamo nemmeno i titoli dei vincitori dello scorso anno. Vedere i "letterati" di oggi mi fa senso, anzi mi sembra di essere caduto in una pozzanghera».
E dopo una breve pausa: «Quando andavo alla Garzanti, nel mio ufficio, incontravo Dino Buzzati, Pietro Bianchi, Orio Vergani, Attilio Bertolucci. Ludovico Geymonat veniva con il suo progetto di una storia del pensero filosofico e scientifico, Emilio Cecchi e Natalino Sapegno con quello dedicato alla letteratura. Oggi?».
È difficile replicare, anche perché affronta le conversazioni con spirito guerriero. Ogni tanto si concede preziose riflessioni («Ci si sbianca lentamente della vita») e sovente lascia spazio ai ricordi e a qualche rivelazione: «Posso definirmi scandalosamente fortunato per aver avuto un padre come il mio e avere fatto l' editore quando c'era una società letteraria». Sul tavolino ha Le faville del maglio di d'Annunzio nell'edizione Treves, ma il giudizio è più veloce della domanda: «Pagine piene di estetismo insopportabile».
Gli chiediamo qualcosa dei suoi incontri, dei tanti autori che ha scoperto, pubblicato, inventato. Il primo, chissà perché, è Carlo Emilio Gadda. «Non me ne voglia - confida - e non si aspetti cose mirabili. Mi mandava lettere, che poi diedi a Dante Isella; io, sovente, lo torturavo approfittando della sua singolare psiche. Mi ha aspettato molte volte in doppiopetto blu sugli scalini della sede Garzanti di Roma, mi omaggiava odiandomi, sempre con un leggero inchino».
Poi salta a Riccardo Bacchelli: «Era umano e io da ragazzo lo scambiavo per Manzoni, autore quest'ultimo che non ho mai troppo amato. Il creatore de Il mulino del Po aveva aplomb, era onesto, sapeva parlare». Si concede una pausa in questa galleria che sta evocando: «Non amavo lo zoo dei letterati, le serate noiose che organizzavano gli editori e che oggi sono mitizzate. Ho evitato lunghi soggiorni nei salotti ma non ho mai preteso di avere la dignità di uno snob».
E questo - aggiunge - «anche se ho incontrato Benedetto Croce dai Gallarati Scotti quando avevo circa venticinque anni». Sentito siffatto nome, la nostra domanda sull' argomento non si fa attendere. «Mi diede la mano - replica Garzanti - ma non parlò con me».
Gli ricordiamo che si era da poco laureato in filosofia e un'occasione simile non capita facilmente, nemmeno al figlio di un grande editore quale lui era. «È vero, è vero - ribatte - e feci la tesi con Antonio Banfi, ma non ricordo più l'argomento». Per non lasciarci sopraffare dai suoi colpi di fioretto scettico, tiriamo in ballo il saggio su Platone e gli confidiamo di aver visto nella sua biblioteca anche le opere in greco. «Guardi - risponde - che non desideravo scrivere un capolavoro sul sommo ateniese, ma soltanto mettere in evidenza il Platone non cristiano, soprattutto l'aspetto poetico. Quello che si chiosa nelle scuole, nelle università (ammesso che riescano a sopravvivere alle riforme) è stato sistemato dai Padri della Chiesa e a me non piace, non è vero, è falsificato».
Per continuare il dialogo cerchiamo di allontanarci dalla filosofia e sollecitiamo i ricordi con Goffredo Parise. «Il padrone lo ha scritto pensando a lei?», chiediamo. La risposta è deliziosa: «Parise veniva sovente a pranzo da me per poi scrivere male di me. Pasolini, di cui ero amico, mi disse che quello ricordato era un libro d' amore. Occorreva leggerlo con la giusta chiave».
Già, Pasolini. Non si diedero mai del «tu», ma il loro rapporto ha lasciato in Garzanti emozioni che continuano. «Era un puro, un càtaro», sussurra con voce non più decisa. E poi: «Mi era molto amico, ma non c'era tra noi confidenza. Mi lasciò per andare da Einaudi perché avevo pubblicato un autore da lui detestato, che poi vinse lo Strega. Mi colpì profondamente la nostra ultima passeggiata notturna, le confidenze che mi fece; tutti però temevano qualcosa, a causa degli ambienti che frequentava. Pasolini era un grande, possedeva il dono, il sentore, la grazia della raffinatezza letteraria».
Una pausa e incalza: «Tranne per Petrolio. Lo lessi per primo e dissi subito: impubblicabile. Erano appunti, non un'opera».
Non dimentica Mario Soldati. Lo mette in scena con tocco da maestro: «Sapeva scrivere, raccontare; mi chiedeva però sempre soldi, seppure in modo casto e giusto». E con un sorriso: «Credo fosse stato l'amante della figlia di Churchill, comunque da lui andò a pranzo». Garzanti si sofferma sui ricordi di famiglia, a cominciare dalla mamma: «Esportò Leopardi in Francia - dice - ed ebbe una corrispondenza con Maria Montessori. Durante una passeggiata con Bernard Berenson, il sommo esperto d'arte fu più svelto di me bambino nel raccoglierle il fazzoletto caduto». Passa al padre: «Si laureò in storia, sugli Ordelaffi, con Pascoli; poi si diede alla chimica, al tessile e nel '38 comperò la Treves».
Gli ricordiamo una testimonianza del musicista Gino Negri: «Quando facevamo il servizio militare, arrivava alla caserma il cameriere di famiglia con pietanze per Livio decisamente migliori di quelle della mensa». E lui: «Le ha detto una bugia, anche se era una gran persona». Di rimando: «Ha aggiunto che lei fu sempre di notevole intelligenza». «Questa - risponde Garzanti - non è una malignità». Fascinosi sono gli scorci delle vicende della casa editrice: «Ho inventato i dizionari fatti in casa. Mio padre fece un contratto assurdo con Hazon per l' inglese, concedendogli il 17%, ma tutti capirono che non si poteva onorare una simile promessa. Cominciai allora, grazie alla mia insegnante del liceo, che poi ebbe una cattedra alla Bocconi, a realizzare con i suoi migliori allievi vocabolari che non avevano un autore ma recavano solo il marchio Garzanti. Feci allo stesso modo anche con i testi scolastici, con una visione industriale. E i proventi finivano nel catalogo e permettevano di non scendere a bassi compromessi».
Anche l'invenzione delle «Garzantine», come le battezzarono gli agenti, non fu cosa da poco. «Rileggevo - ricorda - le voci e sovente consigliavo dove e come ridurre, arrivando all'essenziale. Furono considerate un modello linguistico oltre che di informazione».
Del resto, Silvio Riolfo Marengo, che di Garzanti diventerà amministratore, quando fu assunto in casa editrice lavorò alla scolastica insieme a Gina Lagorio, poi passò a dirigere le «Grandi opere». Ma il suo primo incarico fu «tagliare le voci iniziali dell'enciclopedia "somma", scritte da altri, in uno stanzino piccolo e afoso». Già, erano i primi fogli dell'Europea, della quale - precisa Garzanti - «mi manca un volume». Gli confidiamo: «Non si preoccupi, anche Voltaire non trovava più nella sua biblioteca un tomo dell'Encyclopédie di Diderot et d'Alembert»." (da Armando Torno, Livio Garzanti: 'La crisi italiana è culturale', "Corriere della Sera", 18/06/'11)

1 commento:

Giusy ha detto...

Ipocrisie italiche che non cessano neanche a novant'anni (e che il giornalista non rileva, ovviamente): dice Livio Garzanti "Nel 1938 comprammo la Treves". nel 1938 i Treves furono costretti a venderla causa leggi antiebraiche. da wikipedia: ''Nacque nel 1939 quando il forlivese Aldo Garzanti rilevò la famosa casa editrice Fratelli Treves assorbendone il catalogo e dandole il proprio nome. La casa editrice Fratelli Treves dovette cessare l'attività a causa delle leggi razziali''.
E' un po' diverso, eh.