martedì 21 giugno 2011

Colazione con Audrey. La diva, lo scrittore e il film che crearono la donna moderna


"È l'alba sulla Quinta strada deserta. Audrey Hepburn, occhiali scuri, tubino nero di Givenchy - il little black dress che cambiò la storia della moda - sguscia fuori dal taxi per sbocconcellare una brioche davanti alle vetrine di Tiffany's, e diventa una leggenda. Cinquant'anni dopo (la premiére di Colazione da Tiffany fu nel 1961) non ha perso il suo fascino. Per celebrarlo arriva in Italia il bestseller del New York Times, Colazione con Audrey. La diva, lo scrittore e il film che crearono la donna moderna (Rizzoli). Tra storia sociale, del cinema e del costume, questo saggio brillante e insolito racconta genesi, fortune e retroscena della produzione del film, e molto di più. C'è il racconto struggente della vita di Audrey, la sua metamorfosi da casta principessa di Vacanze romane a squillo sofisticata, la New York corrotta e scintillante di Capote con la sua corte di "cigni", ricche, bellissime e infelici signore dell'alta società. Autore è Sam Wasson, giovane critico e storico del cinema di Los Angeles ("il cinema viene al primo, secondo e terzo posto"). Ora sta lavorando a una biografia di Bob Fosse, "accanto a Marilyn, la figura più rappresentativa dello show business novecentesco". Intervistarlo nella cornice adeguata, a Manhattan davanti a un Martini, era impraticabile: ripieghiamo dunque su un appuntamento Skype. Sam, occhialoni alla Woody Allen e una massa di ricci, si affaccia alla webcam alzando un calice di vino.
Colazione da Tiffany è un film di culto per il pubblico femminile, ma una scelta insolita per un ragazzo nemmeno trentenne. «Scrivendo un libro su Blake Edwards ho scoperto che nessuno aveva raccontato la storia di questo classico, un punto di svolta per l'immagine della donna nel cinema. Nell'America dove dive e donne erano condannate al binomio santa-puttana, la "svitata" Holly Golightly, spigolosae seducente, scaltra e disarmante, fragile ma indipendente, manda in frantumi i canoni di femminilità degli anni Cinquanta e segna l'avvento di un nuovo modello di donna».
Colazione da Tiffany testo protofemminista? Tesi audace. «Holly/Audrey si fissò nell'immaginario come creatura libera e ribelle, non come prostituta. Non arrivo a sostenere che gettò i semi del movimento femminista, ma rese accettabili, anzi, attraenti, nuovi modelli di condotta: era ok anche non sposarsi ed essere sessualmente attive, divertirsi, bastare a se stesse. Anche nel vestire: il nero, che al cinema era il colore delle "donnacce", diventò un passepartout, sinonimo di chic e praticità. Il cambiamento era nell'aria. La Nouvelle Vague creò icone femminili controcorrente, da Jean Seberg a Jeanne Moreau, ma toccarono l'élite. Hollywood, la più potente fabbrica di cultura popolare e ideologia, agì direttamente sullo status quo».
Fu una rivoluzione involontaria. La macchina industriale del cinema non ci pensava minimamente. «Già. I produttori miravano solo a fare un buon film che guadagnasse. Ma l'industria cinematografica di allora cercava di anticipare le tendenze, mentre oggi non fa che rincorrere il mercato».
Oggi è un "classico" e non riusciamo a immaginarlo diverso, ma Colazione da Tiffany nasce da un percorso accidentato. «E' noto che Capote avrebbe voluto la sua amica Marilyn Monroe per la parte, ma la produzione non si fidava dei "mean reds" (le "paturnie") della diva. La MacLaine era impegnata, Jane Fonda troppo giovane. Audrey era un salto nel vuoto, e averla fu un'impresa, il ruolo della prostituta spaventava lei e l'iperpossessivo marito Mel Ferrer. Lo sceneggiatore George Axelrod arrivò dopo il fiasco di un altro scrittore, si rischiò che mancasse il compositore Henry Mancini. Ci fu battaglia sul finale, ne girarono due, quello attuale è di Edwards. Poi le rimostranze dei giapponesi, Kurosawa in testa, per la caricatura di Yunioshi ...».
Il racconto degli stratagemmi con cui fu aggirata la censura è appassionante. «Il romanzo di Capote doveva essere edulcorato. Per salvare qualcosa della sua sfida alla morale sessuale, Axelrod ebbe l'intuizione di usare il genere della commedia romantica - una storia d'amore con risate piene di significato e alle prese con dei limiti - come "cavallo di troia", innovandolo. Al centro del conflitto di Holly non c'è più il desiderio: può andare a letto con chi vuole! ma i legami. E lei e lo scrittore gigolò devono rinunciare alla sicurezza economica per il rischio dell'amore».
Il libro è documentatissimo (stampa, memorie, interviste, production files dagli archivi degli studios), ma ha lo stile di una commedia romantica degli anni d'oro. Nessuno ha pensato di trarne un film? «E chi interpreterebbe la protagonista? Natalie Portman, Anne Hathaway? Sono carine, intelligenti, capaci, ma ordinarie. Hollywood cerca cose già testate, guarda al passato, mira al profitto sicuro. Non mi sorprenderebbe che Audrey Hepburn non ce la facesse, nell'industria di oggi: una come lei era un rischio, rappresentava nuovi ideali estetici. Oggi invece la maggior parte delle commedie romantiche prodotte sono inutili. Gli scrittori, un po' come Axelrod, devono combattere per portare sullo schermo personaggi che non interagiscono come bambini ma come adulti, con emozioni reali e complesse».
Nessuna Audrey all'orizzonte? «L'unica star a cui posso pensare - e sono completamente serio - è James Franco. Sul versante maschile, supera i limiti e gli stereotipi di genere come fece Audrey. Non vedo nulla di paragonabile tra le attrici di Hollywood».
Quali film hanno avuto un impatto paragonabile sul costume e sulla trasformazione dell'immaginario femminile, prima e dopo? «Katharine Hepburn fu un'apripista: Susanna è del 1938. La Jill Clayburgh di Una donna tutta sola veicolò la nuova femminilità degli anni Settanta. Poi è subentrata la tv. Non sono un grande fan della serie Sex and the city, ma indubbiamente, portando per la prima volta sullo schermo protagoniste che parlano di sesso in modo tanto esplicito, è stata una potente "comunicazione in codice" tra e per le donne. Ma l'industria cinematografica non offre nuovi modelli»." (da Benedetta Tobagi, Le donne modello, "La Repubblica", 21/06/'11)

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