mercoledì 1 giugno 2011

Il romanzo come cura


"Park So-nyo, protagonista del romanzo di Kyung-Sook Shin, Prenditi cura di lei (Neri Pozza), è scomparsa, mentre andava a trovare i figli, a Seul. Il marito è salito nella metropolitana, e quando si è voltato non l'ha più trovata. Inghiottita dalla folla, in un istante. La scrittrice, nata nel 1963 in un piccolo paese della Corea, ne descrive pagina dopo pagina l'assenza, con ineffabile perfezione e un andamento misterioso al quale il rigido canone della letteratura occidentale ci ha disabituato. I fatti, in questo romanzo, non vengono raccontati, ma si rivelano. Non hai mai, leggendo, quella fastidiosa sensazione di assistere a una specie di messa, in cui tutto è dove insegnano che deve stare, secondo le regole dei mai abbastanza maledetti manuali di sceneggiatura americani. Piuttosto riconosci che si tratta, semplicemente, di letteratura.
Per raccontare la madre, Kyung-Sook Shin da voce ai figli, il primogenito adorato, la figlia scrittrice, l'altra figlia a sua volta madre di tre figli. I quali, schiacciati dal sentimento di inermità che si prova di fronte al manifestarsi quasi metafisico della catastrofe, si aggirano maldestri e inefficaci. E al marito, ottuso per tutta la vita ma annichilito da questa improvvisa solitudine. In una inconsueta seconda persona singolare, che apostatizza i loro racconti, Kyung-Sook Shin svela uno dopo l'altro frammenti della vita silenziosa della madre-contadina, addentrandosi nella ritualità della devozione, della cura insopprimibile per ogni essere umano.
Chi è questa donna, che ha servito da mangiare a tutti loro per sempre, che li ha vestiti, accuditi, che ha permesso che studiassero a costo di spezzarsi la schiena? Ha una figlia scrittrice, ma non sa leggere, e nessuno di loro se n'era mai accorto. Ha saputo curare e perdonare il marito, ma non ne ha ricevuto in cambio gratitudine. Persino Hyong'chol, il primogenito, l'ha tradita, non diventando un pubblico ministero. Per ultima è lei, la madre, a raccontarsi. Cammina da sola, chissà dove, parlando da sola. «Tutte le cose successe nel passato sono in realtà nel presente, le cose vecchie si mischiano con quelle di adesso e quelle di adesso con quelle del futuro e quelle del futuro sono mischiate a quelle del passato, solo che non ce ne accorgiamo». Forse è malata, da molto tempo nella sua testa passano scariche di dolore che la lasciano tramortita a terra. Non vuole andare in ospedale, anche se i suoi pensieri sono ormai un maelstrom dentro il quale vede passare relitti degli anni vissuti e profezie del nulla che verrà. Le parole scompaiono, si confondono, diventano nemici.

Nel suo saggio Vivere alla fine dei tempi (Ponte alla Grazie), il filosofo Slavoj Zizek, come ha raccontato su queste pagine Antonio Gnoli, indica l'Alzheimer come lo stigma dell'individuo post-traumatico, il sopravvissuto, la creatura fragile che noi siamo, la cui identità trova forma precisa solo nella sua patologia. Non è casuale che questa malattia sia diventata quasi un topos letterario dei nostri anni. Fece scalpore l'opera prima di Stefan Merrill Block, Io non ricordo (Neri Pozza). Protagonista della storia era una particolare forma di Alzheimer familiare a esordio precoce, la variante EOA-23, inventata dallo scrittore ma modellata su patologie simili e tragicamente vere. Una condanna genetica, enzimi polimerasi che, per caso, producono un'alterazione del quattordicesimo cromosoma. Inestirpabile, tanto da creare un'interminabile catena di demenza, che dalla metà dell'Ottocento arriva fino alla madre del giovane Seth. Il quale, per disperazione, si butta in una ricerca affannosa delle origini della sua tara familiare.
Nelle sue indagini, incontra tra gli altri un uomo Conrad Hammer, malato, ma in una fase iniziale. Hammer, artista dilettante, gli racconta del pittore Willem de Kooning, della disperazione che lo colpì quando gli fu diagnosticata la malattia che era sicuro gli avrebbe impedito di dipingere. «Ogni cosa che ha imparato sull'arte sta scomparendo», spiega Hammer, «tanto che si potrebbe pensare che non sia in grado di fare più nulla. E invece accade l'opposto. Arriva in un punto in cui ... è difficile dire cosa sia. È come se tutto quello che aveva imparato, tutti i modi in cui aveva cercato di essere qualcosa che non era, fossero svaniti insieme al resto». E in quel punto, immemore e libero come un fanciullo, l'artista dipinge i suoi quadri più belli.

Le nostre esistenze sono organizzate secondo regole private e sociali, calpestando le quali si finisce chissà dove. Droghe, alcool follie d'amore funzionano perché, nella maggior parte dei casi, sono viaggi di andata e ritorno. Ma l'Alzheimer è un buio della ragione senza uscita, uno sperdersi progressivo e inesorabile. Chi siamo, una volta infilati in quel tunnel? Quanto valgono i segreti che, senza più freni, potremmo rivelare? Di questo parla un curioso romanzo intitolato Com'è piccolo il mondo!, dello scrittore svizzero Martin Suter (prima Feltrinelli e adesso Sellerio). Della frana causata da rivelazioni fatte dal protagonista, Konrad Lang, a causa della demenza che lo trascina di nuovo nel territorio dell'infanzia. Di quanto sia fragile la nostra finzione, e di come non si possa mai esser certi che quello che è stato non ci torni addosso come una cartaccia portata dal vento.

Proprio come accadeva in quel racconto struggente di Alice Munro, "L'orso attraversò la montagna" (in Nemico, amico, amante..., Einaudi). Una coppia perfetta, una vita senza ombre fino al giorno in cui lei si ritrova in mano una padella senza sapere che farne, e dopo una lunga esitazione la ripone nel frigorifero, davanti allo sguardo sbigottito del marito. Così, sempre arretrando, finisce per ritrovarsi un giorno faccia a faccia col ricordo di qualcosa che l'ha ferita in profondità, così in fondo che era stato sepolto da tutto il resto. La scrittrice non spiega se la malattia sia la causa o la scusa di quella rivelazione, né se il nuovo amore smemorato e affettuoso che incontra sia reale o solo una proiezione della demenza. Certe malattie, sembra piuttosto dire - come diceva anche Susan Sontag - sono metafore, sono scandali che disarcionano la vita da se stessa, creando delle epiche disperate e sfrenate. Proprio quello che serve alla letteratura." (da Elena Stancanelli, Il romanzo come cura, "La Repubblica", 18/05/'11)

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