sabato 13 marzo 2010

Diario di lettura: Massimo Ammaniti


"A stimolare in Massimo Ammaniti la passione per la lettura è stata la madre, una
donna piena di curiosità e di interessi che gli ha saputo trasmettere il suo amore per la cultura e per l'arte insieme ai propri ideali politici democratici. Attingendo alla sua biblioteca, lui ha «divorato» grandi classici come Shakespeare e Pirandello, ma soprattutto i libri della «Medusa», la storica collana Mondadori che negli Anni Cinquanta seguitava a proporre il meglio della grande letteratura internazionale - da Joyce, Kafka, Orwell, a Hemingway, Huxley e Bellow, Malraux, Butor e Nabokov. Il padre, un affermato pediatra, molto autoritario, a volte «troppo rigido», ha fatto pressioni perché scegliesse la medicina e, nonostante i conflitti, ha comunque rappresentato un modello di riferimento. Solo col tempo, il figlio ha trovato la sua strada sviluppando i suoi interessi più autentici. Specializzatosi con un precursore della neuropsichiatria infantile come Giovanni Bollea, Ammaniti oggi è un apprezzato psicoanalista di formazione freudiana-kleiniana, autore di testi scientifici e di libri divulgativi di successo sui temi della maternità e del rapporto madre figlio, le fasi dell'adolescenza e i problemi delle relazioni interpersonali.
Dopo il recente Pensare per due. Nella mente delle madri (Laterza), arriva in libreria Psicopatologia dello sviluppo, una voluminosa e interessante ricerca a più mani in cui traccia modelli e definizioni di una disciplina che, attenta ai processi psicobiologici, sposta la dimensione evolutiva all'intero ciclo vitale. Il suo studio è quasi ascetico. Tre quadri astratti sulle pareti bianche, una libreria colma di volumi e riviste scientifiche, un tavolo ingombro di carte e, allungato sotto la finestra, l'immancabile lettino foderato d'azzurro.
Dalla psichiatria alla psicoanalisi, la letteratura ha avuto un ruolo? «Confesso che mi piacerebbe scrivere un romanzo d'argomento psichiatrico in cui riversare interessi, motivazioni ed esperienze. La difficoltà è accordare la scrittura saggistica cui sono abituato a quella narrativa. All'origine, c’è un vecchio libro che per molto tempo campeggiò nella vetrina di un negozietto accanto al Giulio Cesare, il liceo romano che frequentavo. M'intrigava il titolo, La psicanalisi, senza sapere che quel testo del 1926 di Enrico Morselli, era una feroce critica del pensiero freudiano in linea con la cultura fascista del tempo. Un'altra suggestione la ebbi da un libro adottato nell'Istituto religioso
dove mio padre mi fece finire il liceo. Si parlava di Freud in modo assai critico sottolineando il suo errore nel voler interpretare tutto in chiave sessuale. Intanto, era la fine degli Anni Cinquanta, cominciai a leggere La nausea, Il muro e il teatro di Sartre, che ho amato molto come d'altronde Camus perché i temi dell'esistenzialismo rispondevano ai miei interrogativi di allora. Erano letture che aiutano a riflettere, a scavare dentro di sé mettendo a fuoco
i grandi temi della vita. Da studente di medicina, che non amavo troppo, forse mi hanno spinto a scegliere l'internato di psichiatria con l'idea di curare la mente. Ma erano anni in cui si sperimentavano farmaci ed elettroshock e feci una tesi che ancora mi fa rabbrividire. Poi, ebbi un incarico al reparto di neuropsichiatria infantile a Santa Maria della Pietà. E' durato un giorno. Arrivare, vedere i bambini legati ai letti in una specie di fossa dei leoni, mi ha talmente impressionato che mi dimisi».
Erano anche gli anni dell'antipsichiatria, e di Basaglia ... «All'Istituto di Bollea dove tornai si creò ungruppo di critica e di interventi, per esempio contro le classi differenziali a scuola, e quando negli Anni 70 tornai a Santa Maria della Pietà, trasformai il reparto infantile. Praticamente lo chiusi, insieme a un conto
aperto con me stesso».
Erano anni di critica della famiglia alienante che, in linea con le Istituzioni, appiattiva l'individuo sul conformismo. Cooper, Laing, Statzman decretavano
la morte di una famiglia che uccide. «Ricordo benissimo quei libri che hanno avuto una funzione importante ma non ho mai veramente creduto
alla morte della famiglia. In Italia ha un grande potere, perché provvede ai figli, anche adulti, compensando la disfunzione delle istituzioni sociali ma acuendo il problema del distacco. Si è anche creata una complicità genitori-figli, per
esempio nell'approccio delle famiglie verso la scuola che ha perso la sua autorità educativa. Quando i genitori, al di là di certe giuste rivendicazioni, si schierano contro giudizi e punizioni trasmettono ai figli un valore diverso dal bene collettivo fondato sulla responsabilizzazione e sul rispetto delle regole. Proteggendoli li spingono alla difesa del proprio interesse per ottenere a ogni
costo i maggiori vantaggi personali e privilegi. Per fortuna, buonefamiglie
non mancano».
Ma il disagio giovanile è diffuso, l'adolescenza si allunga ... C'è un rapporto col tasso di lettura giovanile sempre più esiguo? «Certamente. Attingere alla lettura comporta lo stare soli con se stessi, che è un momento di creatività. Nell'adolescenza bisogna imparare a vivere la solitudine e a sentire il proprio corpo, a pensare al futuro ancora nebuloso e a gestire il rapporto con la famiglia. E' un'esigenza naturale che oggi gli adolescenti tendono a «silenziare» nel rumore del gruppo. Cedendo a una molteplicità di stimoli - da faceboock alle chat, al telefonino - si procurano una comunicazione virtuale, anche con sconosciuti, che è superficiale, rapida e rallenta la crescita. Diventa poi pericolosa se il gruppo assume dinamiche antisociali».
In proposito, cosa leggere? «Sicuramente Il giovane Holden. Anticipa e drammatizza il rifiuto di crescere che segna una fase adolescenziale. La sua
ostinata opposizione al College agognato da tutti i giovani americani non ha nulla di ideologico, come avverrà negli anni della contestazione, è davvero un rifiuto del mondo adulto che va risolto. Adolescenti dell'antropologo David Bainbridge, esamina invece i fenomeni adolescenziali in varie culture sia dal punto di vista neurobiologico che neurocognitivo. Ne emerge come la necessità della ricerca di sensazioni e rischi da correre sia un modo di staccarsi dai legami familiari per trovare nuove situazioni di rapporto».
La letteratura ha anticipato la psicoanalisi che, rendendo ancora più centrale la figura della madre, ha attribuito al suo ruolo una responsabilità spesso colpevolizzante. In Pensare per due lei distingue madri integrate, ristrette, ambivalenti, a rischio depressivo. A quali eroine possono essere
associate? «Una madre ambivalente è la Iduzza de La Storia di Elsa Morante.
Il figlio lo vuole e lo ama ma lo sente anche come il figlio del nazista che l'ha stuprata. Lo protegge, lo avvolge di cure fino a nasconderlo e a soffocarlo, divisa tra il senso di colpa per non esser sfuggita alla violenza e il desiderio di indennizzarlo perché non ha padre. La protagonista di Anna Karenina, un romanzo che non mi stanco di rileggere e trovo straordinario perché premonitore, è una donna a rischio. Invece di risolvere, nasconde le sue vulnerabilità affidandosi a figure maschili, prima il marito poi l'amante, che non la capiscono. Lei si aliena nel desiderio dell'altro senza essere mai veramente se stessa e con il suicidio mette fine a una vita irrealizzata».
Altri suoi libri d'affezione, e illuminanti? «Il secolo breve di Hobsbawm mi ha appassionato come più di recente Dreams from my father di Barack Obama. Della sua storia familiare complessa, emoziona la riscoperta del padre che nonostante l'assenza lo ha spinto a trovare le risorse per costruire la sua identità. Amo moltissimo i romanzi e i saggi storici. La figura di Napoleone mi intriga al punto da leggere tutto quel che si scrive di lui. Ma tra i libri illuminanti per i risvolti psicologici, ci sono I Buddenbrook, storia di
una famiglia le cui generazioni affrontano compiti nuovi senza liberarsi dei germi del passato che ne provocano il disfacimento. Anche La montagna incantata è significativo come metafora della necessità di uno spazio individuale e di rapporti intensi. Lontano dalla vita frenetica della città, Caspar va in sanatorio per curarsi. Ma una volta guarito ci resta perché lì ha scoperto la vita interiore e un luogo che lo salva dall'orrore del nazismo».
In nome del padre, scritto con suo figlio Niccolò è stato un modo di superare un'adolescenza prolungata, risolvendo un fisiologico conflitto? «In un certo senso, sì. Lui aveva 27 anni, aveva abbandonato l'università e io, professore universitario, ho faticato ad accettarlo. Il libro è stato un incontro tra i suoi racconti di vari momenti dell'adolescenza e la lettura che ne faccio come analista e come padre».
Ma i padri sono davvero più consapevoli? «Sono più presenti fin dalle prime fasi. Però, avendo perso il loro ruolo tradizionale forse sono ancora alla ricerca di un nuovo modo di porsi nei confronti dei figli. Non possono essere madri sostitutive. Il padre deve essere colui che sostiene e guida. Penso che stiamo vivendo tutti una fase di grande transizione»." (da Paola Decina Lombardi, La meglio gioventù con la verde Medusa, "TuttoLibri", "La Stampa", 13/03/'10)

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