mercoledì 24 marzo 2010

Boyne: "Stevenson o Dickens, ragazzi, leggete i classici"


"«Tutte le famiglie felici si assomigliano. Ogni famiglia infelice invece lo è a modo suo». Quando si ricorda a John Boyne il celebre incipit di Anna Karenina, lo scrittore vi riconosce lo spirito del suo nuovo lavoro: «Sì, il senso di La sfida (Rizzoli) è questo. Io ho voluto raccontare una famiglia normale che improvvisamente cade a pezzi per una sfortunata evenienza. Dopo l'incidente della madre, niente sarà più come prima». Solo silenzi, incomprensioni, solitudini. Se sul piano della letterarietà le vite famigliari senza increspature possono essere molto noiose, quelle sciagurate risultano molto più avvincenti. E l'ultimo romanzo per ragazzi di Boyne - autore irlandese prossimo alla quarantina, studi letterari al Trinity College - presenta la stessa grazia narrativa del suo fortunato racconto Il bambino con il pigiama a righe.
Non c'è mai enfasi nelle opere di Boyne. La forza d'urto delle sue storie scaturisce sempre da una sorvegliata costruzione narrativa, capace di condurre fin dentro l'abisso senza che il lettore se ne accorga o possa opporre resistenza. E l'abisso può avere il volto del più grande crimine novecentesco, come accade nel racconto ambientato ad Auschwitz, oppure nascondersi in più dimessi interni domestici, come capita in La sfida, il breve romanzo appena tradotto in Italia (Rizzoli, traduzione di Stefania Di Mella).
Ospite della Bookfair bolognese - dove ieri è stato conferito il premio Andersen allo scrittore David Almond e alla illustratrice Jutta Bauer - Boyne confessa di scrivere per i ragazzi solo quando ha "una buona idea". Ed è stata "una buona idea" a cambiargli la vita. Un filo spinato e due bambini che conversano, al di qua e al di là di un recinto. La storia di Bruno e Shmuel - il primo figlio del comandante di Auschwitz, il secondo un bambino ebreo polacco prigioniero del lager - ha emozionato lettori di trentadue paesi, vendendo quasi cinque milioni di copie (in Italia prima Fabbri, poi Rizzoli). La traduzione cinematografica del Bambino con il pigiama a righe, per la regia di Mark Herman, ha avuto l'effetto di amplificarne il successo. «Tutto è partito da quella immagine così forte», racconta Boyne. «Un'idea troppo ingombrante perché la potessi ignorare. Così cominciai a fantasticare sul percorso che aveva condotto i due bambini nel campo di concentramento, cosa potessero raccontarsi nei loro incontri quotidiani, fino all'epilogo drammatico». L'amicizia tra i due bambini si chiude nel penultimo capitolo, quando Bruno decide di superare il filo spinato, indossa il pigiama a righe che gli ha portato Shmuel e comincia a esplorare il mondo al di là del recinto. Naturalmente non trova niente di quello che s'era immaginato, non gli adulti sulle sedie a dondolo, né i bambini che giocano a squadre. Solo occhi infossati e teste rasate. Finché con Shmuel viene sospinto dentro un locale soffocante, a tenuta stagna. La porta che si chiude, le due mani strette, poi il buio.
Un «epilogo necessario», dice Boyne. «Non credo che la storia avrebbe avuto la stessa intensità senza la morte di Bruno e Shmuel. Quando il lettore entra con loro nella camera a gas, è invaso da una sofferenza atroce. Per me è importante che il romanzo abbia un finale così dolorosamente vero. Non ci fu il lieto fine per la grande maggioranza dei bambini di Auschwitz. È giusto che non ci sia neppure per i lettori, specie per quelli più giovani».
Se si richiama l'assonanza tra Il bambino con il pigiama a righe e La vita è bella - in entrambi i racconti è il lager visto con gli occhi di un ragazzino - lo scrittore irlandese liquida un pò infastidito: «Ricordo di aver provato sentimenti ambivalenti per quel film, specie verso il finale che considero un pò disonesto, quando il figlio ritrova la madre: non era questo il modo in cui finivano le storie nel lager». Il suo racconto evoca il fruscio di pagine lette, fin da ragazzo ha studiato la letteratura dedicata all'Olocausto. «Ero molto giovane quando presi in mano per la prima volta le pagine autobiografiche di Primo Levi, Elie Wiesel e di altri grandi testimoni. L'emozione fu molto forte, e anche le domande rimaste senza una risposta». Quando presenta il libro ai ragazzi, «in molti fanno un confronto con i pregiudizi e con l'odio che ancora lacerano il mondo». Un gioco di rimandi tra il presente e il passato che Boyne incoraggia, perché in fondo - dice - ha scritto Il bambino anche per svegliare le giovani coscienze.
C'è un vezzo che contraddistingue i suoi racconti: i suoi protagonisti leggono sempre autori classici. Bruno, il figlio del comandante nazista, tenta di mitigare il grigiore di Auschwitz con l'Isola del tesoro, mentre Danny in La sfida si addormenta con David Copperfield. «Da bambino leggevo molto», dice Boyne, «dunque metto sempre dei romanzi in mano ai miei giovani personaggi. Mi addolora vedere quanto poco leggano i bambini di oggi. Sono stato profondamente influenzato da Dickens, da lui ho imparato il meccanismo dell'avventura e dell'esplorazione. Il mio piccolo Danny emula le gesta di Copperfield, un orfano che deve trovare la sua strada nel mondo: Danny non è un orfano, ma è come se lo fosse, e nel corso di una sola estate diventa adulto. In fondo è un Copperfield contemporaneo: riesce a trovare dentro di sé quello spirito eroico che Dickens sa ben rappresentare nei suoi personaggi»." (da Simonetta Fiori, Boyne: 'Stevenson o Dickens, ragazzi, leggete i classici', "La Repubblica", 24/03/'10)

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