Biblioteca civica "MINO MILANI" bibliogarlasco@yahoo.it tel. 0382/801009 "Le paradis, à n'en pas douter, n'est qu'une immense bibliothèque" (Gaston Bachelard) SELEZIONE DI ARTICOLI SULL'UNIVERSO-LIBRO
mercoledì 30 dicembre 2009
Lettere a una sconosciuta. L'ultimo amore del Piccolo Principe
"Il Piccolo Principe è stato il compagno immaginario dello scrittore e viaggiatore francese Antoine de Saint-Exupéry e lo ha accompagnato fino all´ultimo anno della sua vita, come si può leggere in Lettere a una sconosciuta. L´ultimo amore del Piccolo Principe (Bompiani). Il libro raccoglie le lettere intrise di sconforto che Saint-Exupéry indirizzava a una giovane donna incontrata sul treno tra Orano ed Algeri, illustrate dagli schizzi ad acquerello che raffigurano l´esile e delicata figura del suo accompagnatore. È l´ultimo anno della sua vita, si trova solo ad Algeri in una strana condizione di attesa e di irrequietezza: la donna che ha incontrato si sottrae alle sue richieste e nello stesso tempo lo scrittore aspetta di essere richiamato in guerra per raggiungere il suo gruppo aereo di ricognizione. La tristezza e il vuoto lo invadono e ricompare ancora una volta il suo specchio immaginario, il Piccolo Principe, con cui si confida ricreando il mondo della favola.
L´irrequietezza è stata una costante nella vita di Antoine de Saint-Exupéry, che forse riusciva a sfuggire mentre volava, fuso con le ali del suo aereo, nei cieli di tutto il mondo sfiorando ripetutamente la morte, come ha recentemente raccontato il pronipote Fredéric d´Agay nell´ambito del "Festival della letteratura di viaggio" a Roma. Ma più che amore per il rischio, il suo era forse un corteggiamento romantico della morte quasi a volerla anticipare per renderla inoffensiva.
Ma accanto a queste imprese e a questi voli disperati, Saint-Exupéry era capace, anche, di viaggiare dentro di sé, come è testimoniato dal suo diario di bordo Il Piccolo Principe. Questa sua capacità di costruire viaggi interiori prese una forma poetica e grafica quando Saint-Exupéry precipitò col suo aereo nel deserto del Sahara e si trovò costretto all´immobilità, con poca acqua a disposizione e in attesa che qualcuno giungesse a salvarlo. Si tratta di una particolare condizione di impotenza e di deprivazione in cui possono riemergere i ricordi dell´infanzia quando il bambino è solo nel suo letto in attesa che la madre venga a lenire la sua sofferenza, come ha raccontato in pagine indimenticabili Marcel Proust. È lo stesso Freud a spiegarci come il bambino piccolo che si trova da solo senza la madre, ossia avendo perso l´oggetto d´amore, riesca a far rivivere la presenza materna dando corpo al suo desiderio tramite l´allucinazione. È una particolare capacità dei bambini di avvertire e di suscitare presenze minacciose o protettive nel buio della notte, come i bambini nei racconti di Stephen King in grado di vedere nel buio della propria stanza i mostri di cui i genitori, al contrario, non sono neppure in grado di sospettare la presenza.
Nel caso di Saint-Exupéry il viaggio interiore avviene con la comparsa di un bambino, il Piccolo Principe, che viene dal lontano pianeta dei suoi primi anni di vita, che normalmente nella vita di ogni persona viene sotterrato dagli anni che passano, dai nuovi ruoli e dalle responsabilità che si assumono, dal diventare adulti. È l´amnesia infantile, che Freud riteneva legata a una rimozione dei desideri sessuali, impossibili e incompatibili per un bambino, ma forse è legata al difficile accesso delle esperienze infantili nel mondo adulto, perché sono costruite su sensazioni e sentimenti delicati e indicibili, che il linguaggio della ragione e dei fatti non riesce a cogliere. Tutto questo si condensa nella figura senza tempo del Piccolo Principe, che si presenta con la sua tristezza e la sua fragilità accattivante e che guarda il mondo degli adulti cogliendone tutti i paradossi. Ai suoi occhi gli adulti sono solo preoccupati di se stessi, come il re che si trova sul pianeta dove giunge il Piccolo Principe che per esistere ha bisogno di comandare, anche se non c´è nessun altro tranne lui, oppure il vanitoso che si accorge degli altri solo se si dichiarano suoi ammiratori. Il mondo infantile del Piccolo Principe è fatto di sensazioni che potrebbero sembrare impalpabili, forse perché sono fatte della "stessa materia dei sogni", come gli acquerelli del libro che ricordano le immagini oniriche anche perché condensano significati diversi, spesso incompatibili. La preoccupazione che tormenta il Piccolo Principe è che il fiore che è cresciuto nel suo pianeta possa sfiorire e addirittura possa essere mangiato dalla pecora. Può sembrare una preoccupazione irrilevante agli occhi di un adulto che non capisce il particolare attaccamento del Piccolo Principe a questo miracolo della natura. L´incontro fra il Piccolo Principe e la volpe è un piccolo trattato sull´importanza dei legami nelle esperienze umane e sicuramente sarebbe piaciuto allo psicoanalista inglese John Bowlby, che è stato il grande teorico dell´attaccamento. Quando il Piccolo Principe incontra la volpe questa gli spiega il valore "di creare dei legami" e aggiunge; «Se tu mi addomestichi - traducendolo in termini psicologici: se avviene un´affiliazione reciproca - noi avremo bisogno l´uno dell´altro». Con un linguaggio poetico la volpe illumina il Piccolo Principe sulla ricchezza dei legami affettivi, «se tu vieni, per esempio, tutti i pomeriggi alle quattro, dalle tre comincerò ad essere felice ... ma se tu vieni non si sa quando, io non saprò mai a che ora preparare il cuore».
Come ogni viaggio anche quello interiore si conclude e si può concludere positivamente, questa è la favola di Saint-Exupéry che ha trasmesso a molte generazioni di lettori, se non solo si è fatto uso degli occhi ma anche del cuore. In quest´ultimo libro, tuttavia, Saint-Exupéry è mestamente consapevole che la favola aiuta a vivere, ad affrontare le delusioni, a rendere meno amara l´attesa, ma poi, come si legge in una sua lettera, «una mattina ti svegli e dici 'Era solo una favola'»." (da Massimo Ammaniti, Il Piccolo Principe spiegato con Freud, "La Repubblica", 29/12/'09)
lunedì 28 dicembre 2009
Angeli. Ebraismo Cristianesimo Islam
"Dio non è solo. Unico, certamente, come proclama la professione di fede biblica da cui si dipanano i tre monoteismi – «Ascolta, Israele, il Signore è Uno» - ma non certo relegato entro quel supremo isolamento che regnava tutt’intorno a Lui prima che il mondo esistesse, quando non c’era altro che un muto e informe caos. Se la creazione ha fors’anche per movente quello di far compagnia al Signore, è pur vero che da quei cruciali sei primi giorni in poi, non Gli resta che girarsi intorno per trovare una confusione di voci e gesti molto diversa da quel vuoto disordinato di prima ch’Egli scandisse il creato. Come recita, infatti, un detto del Profeta, cioè Maometto, «il cielo scricchiola perché non c’è in esso lo spazio di un piede che non sia occupato da un angelo».
Sbarazzatosi di olimpi e totem, l’universo della fede s’è riempito di creature sospese fra terra e cielo, come per un horror vacui esistenziale che attraversa la preghiera e l’immaginario, la metafisica e l’arte, approdando magari a una perfetta «incarnazione» (con licenza parlando, trattandosi di angeli) del Kitsch, come osserva Giorgio Agamben nell’introduzione al monumentale trattato, che ha curato per Neri Pozza con Emanuele Coccia, Angeli. Ebraismo Cristianesimo Islam.
È pur vero che alle origini, del mondo e della storia, gli angeli sono tutto fuorché paffuti putti imbambolati con le alucce spiegate. La parola significa «messi» in greco e ripropone il calco dell’ebraico biblico: insieme alla funzione di «postini» del cielo, gli angeli coprono a volte quella di custodi (ma non in senso personale, piuttosto della collettività). Vanno su e giù tra basso e alto – come racconta splendidamente il sogno di Giacobbe e la sua scala sospesa. Si nascondono anche sotto spoglie umane, come quando, travestiti da viandanti nel deserto, vanno ad annunciare a Sara e Abramo la loro tardiva procreazione (ma se il patriarca fosse stato un poco attento, si sarebbe accorto che fingevano di mangiare le sue prelibate pietanze, perché loro non si nutrono).
L’annunciazione diventerà nel Nuovo Testamento una costante dei doveri angelici. Su questo e altro, ma soprattutto sulla loro presenza nella Bibbia, Catherine Chalier ha scritto un libro interessante e pieno di spunti, Angeli e uomini (La Giuntina). Ma non è tutto oro quello che luccica: gli angeli non sono creature propriamente angeliche. Non dimentichiamo che il più illustre – nel vero senso della parola – tra loro è nientemeno che Lucifero, caduto per troppa ambizione. Non per niente l’accostamento degli opposti in questo caso non stona, anzi, è quasi armonioso: Angeli e demoni (Dan Brown docet) sembra quasi l’accoppiata perfetta.
Insomma, come ben sa l’Eterno, che guarda alle Sue schiere con una certa diffidenza (lo dice Giobbe), gli angeli sono insidiosi. E invidiosi, soprattutto. Dell’uomo, la cui creazione non mancano mai di rinfacciare al Signore - «Che è l’uomo che ti debba preoccupare di lui?», Gli ripetono con l’eco di un salmo. Ma l’uomo ha una marcia in più rispetto a loro: come narra la tradizione ebraica, gli angeli dovettero riconoscere al giovane Adamo la capacità di dare il nome giusto alle cose, e incassare lo smacco di vederlo diventare il prediletto dell’Eterno, in virtù di quel suo talento: «Invidiosi del prestigio della specie umana, fanno di tutto per evitare che l’uomo possa superare la propria condizione e salire nella gerarchia cosmica. In realtà questa invidia sembra una sottile forma di snobismo» (scrive Emanuele Coccia nell’introduzione all’angelologia cristiana).
Ma chi, che cosa e come sono fatti, gli angeli? Difficile saperlo, meglio immaginarlo, come raccontano le migliaia di pagine di questo affascinante repertorio che attraversa fedi, epoche, universi umani. Agamben e Coccia hanno affidato a diversi esperti una analisi del tema (problema?) e una vasta scelta antologica: in parole povere, tutto quello che, forse, avreste voluto sapere di loro e non avete mai osato chiedere.
Gli angeli sono individui, dotati di nome e figura, come gli statuari cherubini raffigurati ai lati dell’Arca Santa o quelli con cui «interagisce» il profeta Ezechiele nelle sue strabilianti visioni. Ma sono anche schiere informi, una innumerevole moltitudine intorno al Signore, pronta a servirLo e inneggiarLo (quando non a spettegolare alle Sue spalle). Non hanno il dono della parola, che è stato assegnato ad Adamo e con lui all’umanità, però si esprimono eccome, oltre a volare. Tanto che a volte, nelle diverse tradizioni religiose, la loro voce inascoltabile sembra un po’ quella della coscienza celeste, una specie di grillo parlante nascosto fra le pieghe del trono divino su cui si reggono le sorti del mondo.
A ogni buono conto, ribelli o servili, fedeli postini o ornamenti fine a se stessi, schiere battagliere o araldi di pace, tutto si può dire degli angeli. Forse perché sono inafferrabili più di ogni altra cosa, in cielo come in terra. Astratti simboli di una metafisica per iniziati, quando non ingenue raffigurazioni di cartapesta, essi ci raccontano soprattutto di quell’ignoto a cui noi umani non riusciamo proprio a rassegnarci. E così, come un bambino di notte al buio, per scacciare la paura di questo universo nero e sconfinato, pieno di dubbi forse più che di stelle, cerchiamo anche noi un po’ di compagnia tra queste sfuggenti creature." (da Elena Loewenthal, Anche gli angeli sono invidiosi, "La Stampa", 28/12/'09)
mercoledì 23 dicembre 2009
La rivoluzione francese: Parigi mette in Rete le biblioteche
"Uno spazio culturale aperto, vivo, in movimento, che per la prima volta sarà accessibile a milioni di persone. L´idea stessa della vecchia biblioteca, polverosa e riservata alle élites intellettuali, sta mutando. «Fino a trent´anni fa venivano da noi poche migliaia di ricercatori. Oggi chiunque può collegarsi attraverso la rete e consultare parte del nostro patrimonio, a qualsiasi ora del giorno, da qualsiasi paese del mondo. E´ una rivoluzione paragonabile a quella della stampa di Gutenberg». Bruno Racine, presidente della Bibliothèque Nationale de France, è un uomo visionario. Ex direttore di Villa Medici, già presidente del museo Beaubourg, siede nel suo ufficio al settimo piano della Tour des Lois, una delle quattro torri del complesso voluto da François Mitterrand negli anni Novanta. Milioni di libri, giornali, nastri sonori e immagini video sono conservati in questa cattedrale moderna del sapere, affacciata sulla Senna. Non un luogo del passato, assicura Racine.
La Biblioteca del Duemila sarà il ponte tra il passato e il futuro della conoscenza. Cominciamo dalle recenti polemiche, la Bibliothèque Nationale de France è stata accusata di voler cedere il suo patrimonio al gigante americano Google. «Si trattava di discussioni esplorative e credo che la polemica sia ormai superata. Lo stato francese ha deciso di consentire uno sforzo senza precedenti per la digitalizzazione del patrimonio culturale. Il presidente Nicolas Sarkozy ha annunciato lo stanziamento di 750 milioni di euro: è un somma che non ha equivalenti in Europa e nel mondo. D´altra parte, è stata istituita una commissione che dovrà studiare le condizioni per i partenariati tra pubblico e privato in questo ambito. Il dialogo con Google, o con altre società, si farà d´ora in poi da questa nuova posizione di forza».
Quali sono i criteri con cui svilupperete il vostro portale di documenti digitali Gallica? «Per i libri vorremmo associarci ad altre biblioteche francesi in modo da fare una digitalizzazione collettiva. Considero anche urgente salvare la nostra immensa raccolta di giornali antichi: se non faremo in fretta gli esemplari andranno distrutti. Ci sono poi le collezioni di opere rare e preziose. Infine, i documenti sonori e video, che pure sono minacciati dal tempo. Abbiamo per esempio la più grande raccolta di registrazioni di canzoni francesi a partire dall´Ottocento».
Il lavoro di digitalizzazione delle opere è lungo e costoso. Come siete riusciti finora ad affrontarlo? «La digitalizzazione si è concentrata sulle opere in lingua francese e che non sono più protette dal diritto d´autore. Il programma Gallica ha un costo di 7 milioni di euro ogni anno, comprensivo del costo dell´infrastruttura informatica per la conservazione dei dati. Attualmente abbiamo 150.000 libri in formato digitale, ovvero 3% delle opere di dominio pubblico. Procediamo a un ritmo di 100.000 nuovi documenti digitali all´anno. Vorremmo arrivare al 10% del patrimonio librario nel corso dei prossimi cinque anni».
Perché Google fa paura? «E´ diventato uno strumento indispensabile alla nostra vita quotidiana e penso che sia proprio la sua potenza a scatenare qualche preoccupazione. In Francia, la reazione è stata più forte che altrove perché Google ha digitalizzato opere ancora protette dal diritto d´autore senza avere l´autorizzazione. E´ un elemento che ha senz´altro contribuito ad alzare i toni».
Il tribunale di Parigi ha appena condannato la società americana a risarcire il gruppo editoriale La Martinière. «Una pacificazione tra Google e gli editori francesi è necessaria. Sarà un condizione per poter andare avanti con una discussione più pacata e serena».
I nuovi fondi pubblici che la Bibliothèque Nationale riceverà rischiano comunque di non bastare. La digitalizzazione del patrimonio appare impossibile senza la collaborazione dei privati. «E´ vero. Sul lungo periodo il ricorso ad accordi con i privati appare inevitabile. Proprio per questo è importante la riflessione che la commissione ha avviato sui partenariati pubblico/privato e sulla definizione di regole che garantiscano la libertà di accesso al nostro patrimonio».
I milioni di libri che sono custoditi in questa sede rischiano di diventare delle reliquie. Ci abitueremo tutti a leggere sullo schermo?
«Non possiamo far finta di niente. Attraversiamo una fase di grande incertezza. C´è un problema normativo, ovvero definire un prezzo per le edizioni online che permetta a editori e autori di continuare la creazione di opere. E su questo punto, l´ideale sarebbe raggiungere perlomeno un quadro di regole al livello europeo. Penso inoltre che le pratiche di lettura cambieranno, ci saranno forme ibride. Conosco dei professori che leggono testi accademici sul loro Iphone ma continuano a comprare romanzi. Insomma no, non credo che il libro stampato morirà. Forse, soltanto, non avrà più la stessa posizione di privilegio».
Con la digitalizzazione delle opere nessuno avrà più bisogno di entrare in una biblioteca? «La biblioteca continuerà a lungo ad essere un luogo fisico. Tutto non sarà digitalizzato e penso anche che il contatto con l´opera originale rimane in molti casi insostituibile. La biblioteca del ventunesimo secolo sarà un´istituzione che avrà un pubblico molto più vasto. E´ una grande opportunità. Noi responsabili dobbiamo preoccuparci di creare un nuovo rapporto alla conoscenza. Prima c´erano studiosi di alto livello che sapevano maneggiare le banche dati. Oggi dobbiamo offrire servizi a un pubblico diversificato. Non possiamo più accontentarci di mettere semplicemente in rete le opere. C´è da fare un lavoro di elaborazione intellettuale e culturale dei contenuti».
La vostra missione è cambiata? «La Bibliothèque Nationale ha aperto le porte nel 1998, l´anno in cui è nato anche Google. In questi anni le cose sono andate molto veloci. Oggi vogliamo svolgere anche un´azione culturale attraverso esposizioni, conferenze, dibattiti. A volte nella nostra sede, altre volte attraverso la rete. Questo non è soltanto il luogo dove vengono conservati manoscritti del Medioevo o opere rilegate dell´Ancien Régime. Cerchiamo di stare al centro dell´attualità, di riflettere sulle sfide del mondo contemporaneo. A primavera, per esempio, inaugureremo due mostre molto diverse. Da una parte, avremo un´esposizione sui manoscritti del Mar Morto, risalendo alle radici spirituali dell´Europa. A cinquanta metri, ci sarà invece una mostra sulle innovazioni tecnologiche più recenti che hanno un impatto sulla lettura. Ecco come intendiamo la Biblioteca del Duemila»." (da Anais Ginori, La rivoluzione francese: Parigi mette in Rete le biblioteche, "La Repubblica", 23/12/'09)
lunedì 21 dicembre 2009
Gli editori dei miracoli: così i piccoli salvano i grandi autori
"Dopo Richard Yates, Donald Barthelme, James Purdy e altri piccoli capolavori, la collana Classics di Minimum Fax cala un altro sasso, ripubblicando l'opera omnia di un maestro della letteratura americana: Bernard Malamud. Corredando di eccellenti introduzioni - imperdibile quella di Philip Roth a Il migliore - e di una veste grafica ad hoc, con copertine facili da riconoscere, sebbene un pochino meste. Ma per chi compra conta la familiarità più dell'azzardo, un abito che sia una divisa, una garanzia di appartenenza. E' uscito in questi giorni Le vite di Dubin, romanzo che Malamud riteneva il più riuscito fra i suoi. Lo individuiamo al volo e lo compriamo, così come abbiamo comprato i precedenti. La gioia della serialità! E' così riposante non dover scegliere ogni volta. Poco importa che, anche nella bibliografia degli immensi, non tutti i libri siano capolavori. Non sono solo le eccellenze a insegnare, anzi. A volte anche i fallimenti, specie i fallimenti degli altri, indicano la strada con più esattezza. O seducono, come ogni imperfezione. E le case editrici fanno un lavoro santo quando si accollano il bellissimo ma anche il così così, pur sapendo che faticheranno a sbolognarlo. E' una specie di manutenzione dell'autore che permette a noi lettori di intonarci piano piano a uno stile, comprenderlo più profondamente. Ma soprattutto di disintossicarci dalla terribile malattia dell'evento. Abbandonando l'idea che un libro sia una epifania irripetibile, un'esplosione di senso intorno alla quale rimangono solo macerie. Un libro, mi pare, è piuttosto un epifenomeno, una manifestazione secondaria di una carriera dell'intelligenza e dell'immaginazione, riconoscibile solo con un po' di pazienza. A cosa serve aver letto Il giovane Holden se non si ha sentore delle avventure della famiglia Glass, indimenticabile protagonista di tutto il resto della produzione di Salinger? Aver cura di un autore, aver cura di qualsiasi cosa, è il compito più difficile del mondo. Non è da tutti. Occorre, per esempio, non dover vincere ogni volta, come sono costrette a fare le grandi case editrici. Se invece puoi accontentarti di mille o duemila copie, puoi rischiare di più, azzardare autori raffinati, o controversi, comunque non ecumenici. Come Edmund White, del quale la casa editrice Playground pubblica adesso, dopo My Lives e Hotel de Dream, una raccolta di racconti, Caos. White, docente all'Università di Princeton, considerato autore di culto in Francia e negli Sati Uniti, era già arrivato in Italia. [...]" (da Elena Stancanelli, Gli editori dei miracoli: così i piccoli salvano i grandi autori, "La Repubblica", 21/12/'09)
sabato 19 dicembre 2009
Siamo poeti maledetti, la top ten ci è proibita
"Davanti alle indicazioni di sei esperti, scelti per segnalare i dieci migliori libri del decennio, sorge spontanea una domanda: perché non c'è neppure un libro di poesia? Se in un elenco simile non compare una raccolta di versi, dov'è che dovremmo cercarla? Dove sono finiti i suoi cultori? la situazione non è semplice, e bisogna prendere atto dello stato di cose: la poesia si è sottratta alla lettura. Altrimenti detto, essa si colloca altrove rispetto ai tempi e alle modalità di un lettore 'normale', in uno spazio differente e parallelo. Con un certo cinismo, Edoardo Sanguineti ha suggerito di rassegnarsi al dato di fatto che i versi, come la filatelia o gli scacchi, sono ormai condannati a un'esistenza di nicchia e di macchia, votati a una fruizione circoscritta, paragonabili a un intrattenimento per pochi appassionati. Gli studi sociologici non sono mancati, né le interpretazioni più specificamente letterarie. Basti soltanto ricordare uno studio di Guido Mazzoni - Sulla poesia moderna - e consacrato alla fine del mandato sociale del poeta, sostituito dla cantante rock. Autoreferenziale e solipsistica, la lirica moderna avrebbe cioè ceduto alla musica giovanile il peso 'politico' di raffigurare l'esperienza comunitaria. Quanto a me, resto dell'idea che alla base di tutto stia una questione legata al puro sforzo. Qualche anno fa, sfogliando un fortunato stupidario, mi imbattei in questa impagabile confessione: 'La televisione non fa fatica, perché ti scorre sempre sotto gli occhi. Invece, con i libri, gli occhi li devi muovere tu'. Certo, un saggio o un romanzo non sono la tv, ma il discorso non cambia poi troppo. Infatti, tanto l'analisi quanto la narrazione immergono il lettore in un flusso potente e continuo, in una corrente di senso che lo trascina via quasi suo malgrado. Con la poesia, invece, accade il contrario. Qui, sta al lettore mettere in moto il testo. Sta a lui e soltanto a lui farsi forza, sospingerlo, azionarlo. E' un tipo di lettura diverso, impegnativo e energetico, in quanto esclude ogni forma di passività. Sanguineti ha ragione; un hobby del genere rimane appannaggio di pochi. Chi affronta una poesia, fa eserciizo fisico. Noi siamo i bodybuilder della lettura." (da Valerio Magrelli, Siamo poeti maledetti, la top ten ci è proibita, 19/12/'09)
Non basta un bel pacco per fare un buon libro
John Steinbeck, l’autore di Furore e Uomini e topi, scrisse a inizio Anni '50 questi Appunti sparsi e ribaldi sui libri inediti per l’Italia, che si rivelano oggi più che mai attuali. Uscirono nel 1951 in The Author Looks at Format, a cura di Ray Freiman, American Institute of Graphic Art. Li pubblica ora l’editrice Alet, nella traduzione di Fabio Zucchella, in una plaquette fuori commercio offerta ai librai come dono natalizio. Ne anticipiamo qui alcuni passi.
"Questa è l'era del packaging. Tutto ha un packaging, una confezione: dagli animaletti impagliati e vestiti alle locomotive. E attraverso un processo lento e costante, l'involucro sta diventando più importante del contenuto. Cosa inevitabile, visto che l'acquirente moderno compra merce confezionata.
I libri americani sono delle confezioni, e immagino che le stesse regole usate per le pillole e per il cibo in scatola debbano applicarsi anche ai libri. Pare ormai assodato che se tu metti delle pillole identiche in due scatole di diverso colore, una gialla e una bianca, la gente comprerà quella gialla.
Abbiamo tre tipi di confezione per i libri: quella che attrae come un fiore attira gli insetti, quella che sancisce la loro profondità con copertine austere e noiose (perché in genere la profondità viene ritenuta noiosa) e infine quelle che grazie all'illustrazione in copertina indicano o mentono a loro riguardo. In ogni caso, si tratta dello stesso meccanismo utilizzato per catturare le mosche.
In generale gli editori pensano che se a un libro di mezzo chilo ne viene accostato uno di un chilo, l'articolo più pesante è quello più desiderabile. È il medesimo istinto grazie al quale ogni ragazzino prima o poi scambia il suo dieci cent d'argento per un nichelino da cinque. I libri spessi e pesanti sono più richiesti di quelli leggeri e sottili, indipendentemente dal contenuto.
Questo fatto una volta mi ha spinto a dare un paio di consigli ai miei editori, i quali stupidamente non li hanno seguiti. Se venissero usate copertine di piombo, il problema del peso sarebbe risolto. E se i libri venissero stampati su fette di pane di segale, sarebbero molto più spessi. Inoltre, un libro fatto di pane risolverebbe due problemi. Il lettore non perderebbe mai il segno perché mangerebbe le pagine man mano che le finisce; si ovvierebbe anche all'inconveniente del mancato guadagno per un libro dato in prestito. Perché alla gente piace davvero mangiare mentre legge. Qualche anno fa, in una biblioteca pubblica di Birmingham, in Inghilterra, venne calorosamente richiesto a tutti gli iscritti di non usare come segnalibri il bacon o l'aringa affumicata, perché il grasso avrebbe impregnato le pagine e l'odore avrebbe potuto essere repellente per i futuri lettori. Ho la sensazione che l'arte della rilegatura non sia stata adeguatamente sfruttata... per esempio incollando sul retro della copertina delle bustine di cellophane ripiene di marmellata di arance o di pâté di fegato d'oca. [...]
Il libro in quanto tale ha assunto il proprio carattere magico, sacrale e di autorevolezza in un'epoca in cui c'erano pochissimi libri, e quei pochi erano posseduti da persone estremamente ricche o colte. Allora il libro era l'unico modo che aveva la mente di abbandonarsi a luoghi lontani e a pensieri elevati. Si poteva uscire da se stessi soltanto tramite il talismano del libro. Ed è una cosa meravigliosa il fatto che anche oggigiorno, con la concorrenza dei dischi, della radio, della televisione e del cinema, il libro abbia mantenuto la propria natura preziosa. Un libro è qualcosa di sacro. Un dittatore può uccidere e massacrare la gente, può sprofondare ai peggiori livelli di tirannia e per questo essere odiato, ma quando vengono bruciati i libri assistiamo alla forma suprema di tirannia. E questo non possiamo perdonarlo. L'uso del libro come mezzo di propaganda è più potente ed efficace di qualsiasi altro medium. Una trasmissione ha una certa autorevolezza, ma un libro non mente. La gente non si fida automaticamente dei giornali. Ma automaticamente crede ai libri. È strano, ma è così. Da quelle parti del mondo sottoposte a rigidi controlli e a censura ci arrivano messaggi con i quali non si chiedono radio, giornali o opuscoli. Invariabilmente chiedono libri. Credono nei libri pur non credendo a nient'altro. Ed essendo tutto ciò vero, mi domando come mai i governi non usino i libri più spesso di quanto non facciano. Un libro viene protetto e fatto circolare. È rarissimo che un uomo distrugga un libro, a meno che non lo odi veramente. La distruzione di un libro è una sorta di omicidio. E vista la tendenza sempre maggiore a censurare e a controllare la gente per il suo bene, i libri sono l'unica forma di espressione che ancora vi sfugge. Un quadro può essere tagliato a strisce, ma una qualunque forma di restrizione imposta a un libro viene combattuta fino alla morte. [...]
Mi interrogo continuamente sul futuro dei libri. Possono continuare a competere con forme espressive rapide, economiche e facili che non richiedono la lettura o il pensiero? Io devo dire di sì, o che alcuni di essi tentano di fare proprio quello. Al giorno d'oggi ci sono tantissimi libri che vengono scritti avendo in mente il cinema. Si dice che certi editori non stampino libri che non abbiano la potenzialità di essere venduti al mondo del cinema. In molti casi anche lo scrittore viene considerato in parte scrittore e in parte venditore. Dovrebbe starsene in una libreria a etichettare il suo prodotto con il proprio nome. Dovrebbe partecipare agli spettacoli televisivi e diventare una scimmia ammaestrata. Dovrebbe esporre la propria vita privata, sessuale e i propri muscoli, perfino i peli del proprio corpo, agli sguardi adenoidei dei suoi potenziali lettori. Si dice che deve lasciar perdere la scrittura, se non intende fare questo genere di cose. Che è un asociale, se si rifiuta di far pubblicare sulle pagine patinate di una rivista illustrata le fotografie che lo ritraggono quando fa colazione, o quelle della moglie (o delle mogli).
Io non credo che un libro possa competere con i suoi rivali sul loro terreno d'azione. D'altra parte, neppure loro possono competere con il libro nel suo specifico terreno d'azione. All'infuori della musica, nessun'altra forma espressiva è in grado di «incoraggiare la mente e le emozioni». Non si può pensare a un film come a qualcosa di così personale come un libro che si ama. Nessuno spettacolo televisivo è un amico così come è un amico un libro. E nessun'altra forma espressiva, sempre all'infuori della musica, stimola la partecipazione del destinatario come un libro." (da John Steinbeck, Non basta un bel pacco per fare un buon libro, "La Stampa", 19/12/'09)
"Questa è l'era del packaging. Tutto ha un packaging, una confezione: dagli animaletti impagliati e vestiti alle locomotive. E attraverso un processo lento e costante, l'involucro sta diventando più importante del contenuto. Cosa inevitabile, visto che l'acquirente moderno compra merce confezionata.
I libri americani sono delle confezioni, e immagino che le stesse regole usate per le pillole e per il cibo in scatola debbano applicarsi anche ai libri. Pare ormai assodato che se tu metti delle pillole identiche in due scatole di diverso colore, una gialla e una bianca, la gente comprerà quella gialla.
Abbiamo tre tipi di confezione per i libri: quella che attrae come un fiore attira gli insetti, quella che sancisce la loro profondità con copertine austere e noiose (perché in genere la profondità viene ritenuta noiosa) e infine quelle che grazie all'illustrazione in copertina indicano o mentono a loro riguardo. In ogni caso, si tratta dello stesso meccanismo utilizzato per catturare le mosche.
In generale gli editori pensano che se a un libro di mezzo chilo ne viene accostato uno di un chilo, l'articolo più pesante è quello più desiderabile. È il medesimo istinto grazie al quale ogni ragazzino prima o poi scambia il suo dieci cent d'argento per un nichelino da cinque. I libri spessi e pesanti sono più richiesti di quelli leggeri e sottili, indipendentemente dal contenuto.
Questo fatto una volta mi ha spinto a dare un paio di consigli ai miei editori, i quali stupidamente non li hanno seguiti. Se venissero usate copertine di piombo, il problema del peso sarebbe risolto. E se i libri venissero stampati su fette di pane di segale, sarebbero molto più spessi. Inoltre, un libro fatto di pane risolverebbe due problemi. Il lettore non perderebbe mai il segno perché mangerebbe le pagine man mano che le finisce; si ovvierebbe anche all'inconveniente del mancato guadagno per un libro dato in prestito. Perché alla gente piace davvero mangiare mentre legge. Qualche anno fa, in una biblioteca pubblica di Birmingham, in Inghilterra, venne calorosamente richiesto a tutti gli iscritti di non usare come segnalibri il bacon o l'aringa affumicata, perché il grasso avrebbe impregnato le pagine e l'odore avrebbe potuto essere repellente per i futuri lettori. Ho la sensazione che l'arte della rilegatura non sia stata adeguatamente sfruttata... per esempio incollando sul retro della copertina delle bustine di cellophane ripiene di marmellata di arance o di pâté di fegato d'oca. [...]
Il libro in quanto tale ha assunto il proprio carattere magico, sacrale e di autorevolezza in un'epoca in cui c'erano pochissimi libri, e quei pochi erano posseduti da persone estremamente ricche o colte. Allora il libro era l'unico modo che aveva la mente di abbandonarsi a luoghi lontani e a pensieri elevati. Si poteva uscire da se stessi soltanto tramite il talismano del libro. Ed è una cosa meravigliosa il fatto che anche oggigiorno, con la concorrenza dei dischi, della radio, della televisione e del cinema, il libro abbia mantenuto la propria natura preziosa. Un libro è qualcosa di sacro. Un dittatore può uccidere e massacrare la gente, può sprofondare ai peggiori livelli di tirannia e per questo essere odiato, ma quando vengono bruciati i libri assistiamo alla forma suprema di tirannia. E questo non possiamo perdonarlo. L'uso del libro come mezzo di propaganda è più potente ed efficace di qualsiasi altro medium. Una trasmissione ha una certa autorevolezza, ma un libro non mente. La gente non si fida automaticamente dei giornali. Ma automaticamente crede ai libri. È strano, ma è così. Da quelle parti del mondo sottoposte a rigidi controlli e a censura ci arrivano messaggi con i quali non si chiedono radio, giornali o opuscoli. Invariabilmente chiedono libri. Credono nei libri pur non credendo a nient'altro. Ed essendo tutto ciò vero, mi domando come mai i governi non usino i libri più spesso di quanto non facciano. Un libro viene protetto e fatto circolare. È rarissimo che un uomo distrugga un libro, a meno che non lo odi veramente. La distruzione di un libro è una sorta di omicidio. E vista la tendenza sempre maggiore a censurare e a controllare la gente per il suo bene, i libri sono l'unica forma di espressione che ancora vi sfugge. Un quadro può essere tagliato a strisce, ma una qualunque forma di restrizione imposta a un libro viene combattuta fino alla morte. [...]
Mi interrogo continuamente sul futuro dei libri. Possono continuare a competere con forme espressive rapide, economiche e facili che non richiedono la lettura o il pensiero? Io devo dire di sì, o che alcuni di essi tentano di fare proprio quello. Al giorno d'oggi ci sono tantissimi libri che vengono scritti avendo in mente il cinema. Si dice che certi editori non stampino libri che non abbiano la potenzialità di essere venduti al mondo del cinema. In molti casi anche lo scrittore viene considerato in parte scrittore e in parte venditore. Dovrebbe starsene in una libreria a etichettare il suo prodotto con il proprio nome. Dovrebbe partecipare agli spettacoli televisivi e diventare una scimmia ammaestrata. Dovrebbe esporre la propria vita privata, sessuale e i propri muscoli, perfino i peli del proprio corpo, agli sguardi adenoidei dei suoi potenziali lettori. Si dice che deve lasciar perdere la scrittura, se non intende fare questo genere di cose. Che è un asociale, se si rifiuta di far pubblicare sulle pagine patinate di una rivista illustrata le fotografie che lo ritraggono quando fa colazione, o quelle della moglie (o delle mogli).
Io non credo che un libro possa competere con i suoi rivali sul loro terreno d'azione. D'altra parte, neppure loro possono competere con il libro nel suo specifico terreno d'azione. All'infuori della musica, nessun'altra forma espressiva è in grado di «incoraggiare la mente e le emozioni». Non si può pensare a un film come a qualcosa di così personale come un libro che si ama. Nessuno spettacolo televisivo è un amico così come è un amico un libro. E nessun'altra forma espressiva, sempre all'infuori della musica, stimola la partecipazione del destinatario come un libro." (da John Steinbeck, Non basta un bel pacco per fare un buon libro, "La Stampa", 19/12/'09)
Daniel Mendelsohn: "Perché i buoni film devono tradire i libri"
"Daniel Mendelsohn ama in egual misura la letteratura ed il cinema, e nei saggi che pubblica su The New York Review of Books, analizza sempre con profondità, e a volte con grand eironia, la relazione tra i romanzi ed i rispettivi adattamenti letterari. La pubblicazione di una biografia di Patricia Highsmith, The Talented Miss Highsmith (chiaro riferimento al titolo originale di Il talento di mr. Ripley), e la notizia che otto film di successo su venti sono tratti da libri, offrono l'occasione di riflettere sul rapporto tra la parola scritta e l'immagine, che ha prodotto spesso risultati deludenti, e quasi sempre opposti alla qualità dell'opera originale: sono stati realizzati film di alto livello da libri di scarsa qualità narrativa, e pellicole a volte imbarazzanti da capolavori letterari. Ovviamente non mancano alcune eccezioni, a cominciare da Il Gattopardo, ma chiunque abbia mai lavorato ad un adattamento sa che nella matrice letteraria sono da cercare gli elementi prettamente cinematografici in termine di sviluppo della storia e del carattere: personaggi forti e un plot avvincente e ben strutturato. L'evoluzione psicologica interna interessa se dà luogo ad azioni che hanno una valenza visiva, ed è questo il motivo per cui Il padrino che certamente non è un capolavoro letterario, è stato il terreno fertile per un grandissimo film, mentre non si ricordano adattamenti indimenticabili tratti da Dostoevskij. Ed è lo stesso motivo per cui diventano inevitabili tradimenti e tagli che possono turbare ed offendere gli autori originali. Se non si opta per una semplice illustrazione, è necessario apportare dei cambiamenti che favoriscano la struttura drammaturgica di un film: cambiare tutto affinché non cambi niente: 'E' una condizione salutare e inevitabile - racconta Mendelsohn in preparazione per un lungo viaggio in Italia. Nel momento in cui il film è buono, ha una propria autonomia, e quindi deve tradire la fonte originaria: si tratta di un medium diverso, e i migliori adattamenti provengono dai racconti o dalle commedie. I film usano le parole in maniera diversa'.
Jean Luc Godard adatterà per lo schermo il suo libro Gli scomparsi. 'Ho chiesto specificamente di non essere coinvolto. Ed è giusto che sia così, che mi tradisca'.
Quali sono gli adattamenti che preferisce? 'Oltre a Il Gattopardo, mi viene in mente I morti: è straordinario quanto ha fatto John Huston con il racconto di Joyce: un film che vive autonomamente e nello stesso rende omaggio ad un grandissimo testo. Ma voglio sorprendere: ritengo che Il paziente inglese sia tutto tranne che un bel film, tuttavia è un adattamento interessante, per il modo in cui mescola fedeltà e libertà rispetto al testo. Amo anche Quel che resta del giorno e due adattamenti da Moravia: Il conformista e Il disprezzo. I film non devono trascrivere gli eventi, ma trasmettere l'atmosfera e il senso ultimo del libro. L'errore più grave è quello di telegrafare tematicamente tutti gli eventi del testo, invece di concentrarsi sul cuore. Mi vengono in mente altri buoni esempi: il vecchio David Copperfield e Il mago di Oz. La Hollywood classica ci ha regalato molti prodotti eccellenti. Più recentemente ho apprezzato Ragione e sentimento mentre, per rimanere nel mondo di Jane Austen, ho detestato Orgoglio e Pregiudizio'. [...]" (da Antonio Monda, Cinema e letteratura: 'Perché i buoni film devono tradire i libri', "La Repubblica", 17/12/'09)
venerdì 18 dicembre 2009
Com'è british la biblioteca nella cabina telefonica
"Da mesi il furgone della biblioteca circolante della contea aveva smesso di far tappa a Westbury-sub-Mendip, un piccolo villaggio del Somerset, nel sudovest dell'Inghilterra. Quando British Telecom ha comunicato che avrebbe rimosso l'unica cabina pubblica in funzione, gli ottocento abitanti di Westbury si sono riuniti in assemblea e hanno deciso: avrebbero acquistato la cabina per trasformarla in biblioteca autogestita. Pochi giorni fa l'inaugurazione: circa duecento volumi sono stati sistemati sugli scaffali di elgno collocati sulle pareti della inconfondibile cabina rossa disegnata nel 1935 dall'architetto Gilles Gilbert Scott, mentre sul pavimento scatole che contengono libri in stoffa per bambini. La spesa complessiva, ha rivelato in un'intervista Bob Dolby, dirigente amministrativo del Comune, è stata assai modesta: appena trenta sterline. 'British Telecom ci ha chiesto solo una sterlina a titolo simbolico, il resto lo abbiamo investito nei materiali necessari a realizzare la mini-biblioteca, mentre i volumi sono stati donati dalle famiglie del villaggio'. L'iniziativa, racconta la stampa locale, sta ottenendo un grande successo e spesso nel tardo pomeriggio si creano file di fronte alla singolare biblioteca per restituire o prendere in prestito i volumi. Un dirigente di British Telecom ha spiegato che la Compagnia nel corso degli ultimi mesi ha ricevuto oltre 700 richieste da parte di piccole comunità di 'adottare una cabina dismessa' e destinarla a uso pubblico, aggiungendo che oltre la metà è stata già accolta." (da Roberto Bertinetti, Com'è British la biblioteca nella cabina telefonica, "Il Venerdì di Repubblica", 18/12/'09)
Sos per la lettura: qualcuno salvi le biblioteche italiane
"Se è vero che l´identità di un paese si rispecchia nelle sue biblioteche, la fotografia nazionale appena prodotta dal ministero dei Beni Culturali ci restituisce il ritratto di un´Italia smarrita, priva di memoria, che volge le spalle alla sua stessa tradizione. Nell´arco di cinque anni, le risorse finanziarie per l´attività delle biblioteche pubbliche statali - quarantasei istituti, tra cui la Braidense, la Laurenziana, la Malatestiana, l´Angelica e la Casanatense - sono state ridotte della metà (da trenta milioni a sedici milioni di euro), con un depauperamento ancora più marcato per le due Biblioteche Nazionali Centrali di Roma e di Firenze, custodi delle stesse fonti dell´identità nazionale italiana. Dall´acquisizione dei libri alla valorizzazione, dalla prevenzione alla tutela, dai servizi per il pubblico all´informatizzazione, non c´è passaggio nell´attività delle biblioteche che oggi non mostri limiti e disfunzioni. Il confronto con la British Library di Londra o la Bibliothèque Nationale de France finisce per essere mortificante. E per l´istituto romano di viale Castro Pretorio, si rischia la chiusura.
Il merito di aver prodotto un quadro aggiornato del "costume bibliotecario degli italiani" è della stessa Direzione generale per le Biblioteche. «Mi auguro che sia lo strumento per ottenere maggiore attenzione politica e soprattutto un incremento di fondi», spiega il direttore Maurizio Fallace. Il rapporto redatto da una commissione di esperti non è sospettabile di ambiguità: la situazione appare molto critica, quasi disperata. Diminuisce la qualità dei servizi, decresce di conseguenza anche la domanda, ossia il numero dei prestiti e delle persone ammesse al servizio. «Se non si aggiornano le collezioni librarie e se non si ha la possibilità di catalogare tempestivamente il materiale acquisito, anche l´utenza è scoraggiata», recita il rapporto del ministero. Per inquadrare il malessere, basterà qualche cifra. Se nel 2005 si spendeva per il patrimonio bibliografico 8.263.311 euro, la previsione per il 2010 è di 3.605.877. La spesa per il funzionamento del servizio bibliotecario informatico passa da cinque milioni a meno di quattro milioni di euro, mentre per la tutela dei libri e dei documenti la perdita è ancora più secca: da 3.525.966 a 650.000 euro (consentita appena la manutenzione degli impianti di sicurezza, antifurto o antincendio, mentre mancano le risorse per i lavori di spolveratura, rilegatura, disinfestazione). Anche la catalogazione nel Servizio Bibliotecario Nazionale mostra una vera emorragia: dagli 823.821 euro del 2005 agli 84.645 euro previsti per il prossimo anno. Cifra del tutto inadeguata: solo per il materiale del Novecento, sono almeno cinque milioni i volumi non ancora catalogati (il loro recupero costerebbe circa venti milioni di euro).
Emblema del grave declino è rappresentato dalle due Biblioteche Centrali, di Roma e Firenze. Quella romana risulta oggi la più sacrificata, con una dotazione di 1.590.423 euro (rispetto al 2001 la decurtazione è pari al 50 per cento): per un buon funzionamento occorrerebbero almeno trenta milioni di euro. Il paragone con le sorelle europee è schiacciante: la dotazione annua della Bibliothèque Nationale de France è 254 milioni di euro, quella della British Library supera i 159 milioni. Se riferiti al personale, i dati sono ancora più clamorosi. Anche in questo caso, la comparazione può essere utile: alla Bibliothèque Nationale lavorano 2.651 persone, in quella inglese 2.011, a Firenze 205, a Roma 264: complessivamente le due biblioteche nazionali italiane hanno un patrimonio librario equivalente a quello parigino - circa 14 milioni di volumi - ma vi lavora meno di un quinto del personale impiegato a Parigi.
Le conclusioni del rapporto non fanno presagire niente di buono. Per la Biblioteca Nazionale di Roma, «le risorse attualmente disponibili non bastano a garantire neppure la pura e semplice sopravvivenza dell´istituto». Come distruggere la propria carta d´identità, quella in cui siamo venuti meglio." (da Simonetta Fiori, Sos per la lettura: qualcuno salvi le biblioteche italiane, "La Repubblica", 18/12/'09)
lunedì 14 dicembre 2009
Figlia d'arte di Guido Davico Bonino
"All'inizio della Montagna incantata di Thomas Mann un'infermiera dice al protagonista, Hans Castorp, che si è recato a trovare il cugino malato e comincia a sentire la seduzione del sanatorio, di misurarsi la temperatura. Sorpreso, egli risponde di essere abituato a misurarsi solo quando ha la febbre, al che lei replica che ci si misura per sapere se si ha o no la febbre. Entrambi i comportamenti hanno una loro logica. Quella di Castorp è la logica del pre-giudizio; come nel caso della febbre proclamata prima di essere accertata, spesso si decide a priori in quale categoria rientra un fenomeno, per poi valutarlo secondo le regole di quella categoria. Un giorno di molti anni fa, ad esempio, nella famosa galleria d'arte di Leo Castelli a New York, culla di tante grandi avanguardie contemporanee, tutti i quadri erano parati a lutto, coperti da drappi neri, per protesta contro la condanna inflitta a un artista. La galleria era vuota ma, come ho già raccontato, ad un tratto è entrata una giovane donna che, ignara di quella protesta e credendo si trattasse di una mostra di una nuova corrente o di un nuovo artista, si è soffermata a lungo dinnanzi a ogni quadro coperto, prendendo pure appunti. Non so se quei quadri invisibili le piacessero o no; comunque lei valutava quei panni secondo criteri estetici mentre, se avesse saputo che si trattava di una protesta, i suoi metri di giudizio e dunque i suoi giudizi sarebbero stati diversi. Questa consapevole o inconsapevole decisione preliminare di come porsi dinnanzi a un fenomeno è un pre-giudizio che condiziona la valutazione. Ineliminabile, spesso pericoloso e fuorviante, il pregiudizio è anche necessario perché, offrendo inquadrature e orizzonti, ancorché discutibili, in cui collocare le cose, difende dalla vertigine che ci coglie quando le cose ci arrivano addosso senza etichetta e senza cornice, in un vortice caotico perché ci manca un angolo prospettico da cui guardarlo e ordinarlo. L'arte e la letteratura, che pure dovrebbero infrangere ogni gerarchia e ogni classificazione prestabilita, soggiacciono spesso a tale preconcetto, oggi in modo particolare. Si decide a priori - o viene suggerito e imposto a priori dal meccanismo editoriale e mediatico - quali libri sono importanti, prima che siano stati letti; quali sono i libri che si devono leggere. Non è l'opera che, letta, giustifica il suo autore; bensì è l'autore, se famoso, a giustificare una sua opera anche eventualmente priva di qualità o estranea alla letteratura. Come nel Pendolo di Foucault di Umberto Eco, una banale lista viene scambiata per un pericoloso documento segreto perché la si ritiene a priori tale, così la più banale frase di Kafka che annoti, poniamo, il ritardo di un treno può venir letta come una parabola metafisica, grazie alla grandezza di ben altri testi di Kafka. Talvolta lo stesso successo in un campo preclude il riconoscimento di risultati che si conseguono in un altro settore, perché tutto viene valutato secondo i criteri che si è abituati ad applicare a quell'autore. Anni fa notavo come il giusto successo di Michele Serra quale giornalista e autore delle acute, godibili - talora fatalmente pure stantie - amache satiriche avesse ostacolato la consapevolezza dell'originale, alta qualità narrativa di un suo libro come Cerimonie, perché il suo autore era già etichettato quale stimato esponente di un altro ramo. O, per fare un altro esempio, il ruolo così rilevante di Alberto Asor Rosa nella critica letteraria e nel dibattito ideologico ha frenato il riconoscimento della forza poetica delle sue Storie di animali e altri viventi, che valgono più di molti testi di autori da lui studiati e magari celebrati. Così dubito che ora un breve racconto di Guido Davico Bonino, Figlia d'arte (Manni) - un racconto perfetto che tocca con evidenza poetica e possente concisione alcune corde essenziali del vivere - venga considerato, come merita, uno dei testi narrativi più incisivi di questo momento. Davico Bonino è universalmente riconosciuto nel suo valore di editore che ha contribuito per anni a dare il tono, con Bollati e Pochiroli, alla casa editrice Einaudi, di studioso di letteratura italiana e di critico teatrale, accademico e militante. Paradossalmente, temo che tutto ciò possa rendere più difficile accorgersi che questo testo non è l'elegante capriccio di un letterato, ma un racconto che parla della vecchiaia, del rapporto fra la genialità e la violenta sopraffazione della seduzione e della colpa della vitalità. Si potrebbero fare altri esempi. Michelstaedter aveva colto anche tutto questo, quando parlava della retorica, dell'organizzazione del sapere che classifica, ordina, schematizza la vita. La retorica è un farmaco e ogni farmaco, come dicono le istruzioni che la pubblicità è obbligata a invitare a leggere, è ambivalente; aiuta a sopportare la vita altrimenti spesso insostenibile ma la ottunde, la imbalsama come, in un museo di storia naturale, un animale da preda che non può più mordere." (da Claudio Magris, Lettura e pregiudizio. Gli schemi mentali impediscono di riconoscere i valori autentici, "Corriere della Sera", 12/12/'09)
sabato 12 dicembre 2009
aNobii, il tarlo della lettura
"Quali sono i cento libri più conosciuti e più votati dai lettori di Internet (o, per meglio dire, da quella ampia parte di lettori presente sulla libreria virtuale di aNobii)? Per ovvie ragioni numeriche, ci sono i best- seller, sia pure fra loro diversissimi: Gomorra e Il cacciatore di aquiloni, Harry Potter e L’eleganza del riccio, Il nome della rosa e Novecento. Qualche sorpresa in più viene dai classici, il cui criterio di scelta farebbe probabilmente perdere il sonno ai letterati: Il giovane Holden e Siddharta, accanto a Il signore degli anelli e a Fahrenheit 451. E a Italo Calvino, presente con non poche opere: Il barone rampante, Il visconte dimezzato, Se una notte d’inverno un viaggiatore, Il sentiero dei nidi di ragno, Le città invisibili. E come mai è in ottima posizione un titolo disdegnato dall’accademia come Guida galattica per gli autostoppisti di Douglas Adams? Perché, fra i romanzi di Niccolò Ammaniti, Ti prendo e ti porto via è diciassettesimo, mentre il best-seller Io non ho paura è venticinquesimo e Come Dio comanda, con cui lo scrittore vinse il Premio Strega, è sessantatreesimo? E che dire di Q di Luther Blissett che precede Tre metri sopra il cielo di Moccia?
Impossibile chiedere un criterio unico ad una platea così vasta come quella degli aNobiani, le cui recensioni sono state raccolte in un’antologia curata dalla giornalista e blogger Barbara Sgarzi, aNobii, il tarlo della lettura (Rizzoli, con le illustrazioni di Chiara Rapaccini). L’intenzione è quella di rendere omaggio alla “critica democratica” dei lettori che hanno scelto di aprire una libreria su Internet. Sono tantissimi: dal 2005, anno in cui il coreano Greg Sung decise di fondare il primo social network dedicato ai libri, a oggi, gli iscritti superano i cinquecentomila e i libri sono quasi quindici milioni. Libri di ogni genere: romanzi e saggi, raccolte poetiche e fumetti, best-seller e pubblicazioni fai-da-te. La bellezza del social network, infatti, non sta tanto nella recensione “dal basso” di titoli notissimi: ma nel mettere in comune con migliaia di potenziali visitatori i contenuti dei propri scaffali virtuali.
L’importanza della nicchia si intuisce solo parzialmente dall’antologia: che giocoforza ha selezionato i cento libri più letti e le cinque recensioni più votate per ogni opera, offrendo come “bonus track” altri cento titoli selezionati dalle librerie dei singoli recensori per tentare di restituire su carta la complessità di quel che si trova in rete: e qui gli accostamenti diventano davvero impensabili, con L’ora segreta di Scott Westerfeld accanto a Ieri di Agota Kristof, e l’autrice del graphic novel Persepolis, Marjane Satrapi, recensita insieme a William Faulkner.
In tutto, le recensioni raccolte fra gli aNobiani sono seicento e sono assolutamente dissimili: ingenue, coltissime, approfondite, superficiali, fulminee, lunghe, corte. Si va dalla battuta astiosa al saggio breve, ci si divide fra quelli che vorrebbero arrostire Il gabbiano Jonathan Livingston e quelli che lo amano come un maestro di vita. L’invito, per chi non conoscesse aNobii, è quello di leggere tutte le critiche, di leggerle bene e possibilmente di tornare a leggerle in rete: perché non è vero che il recensore del web è sempre “urticante”, spiritoso e cattivello, e non di rado le sue valutazioni non hanno nulla da invidiare a chi scrive su carta. I 333 anobiani prescelti si sono comunque prestati al gioco, concedendo il permesso di pubblicare gratuitamente il proprio testo (i proventi del libro saranno devoluti al centro chirurgico di Kabul di Emergency)." (da Loredana Lipperini, Moccia o Hesse i cento libri più votati dai lettori sul web, "La Repubblica", 09/12/'09)
venerdì 11 dicembre 2009
Grandi classici letti da grandi attori, viaggio letterario per la penisola
"Nel Paese dei reality show e dei cinepanettoni, la cultura non ha nessuna intenzione di sparire. Anzi, scende in campo con alcuni tra gli attori più rappresentativi del cinema e del teatro italiano, da Toni Servillo a Anna Bonaiuto, per recitare i classici della nostra letteratura. L'idea è di Francesco De Sanctis jr, pronipote dell'omonimo critico, che sul finire dell'Ottocento scrisse la Storia della letteratura italiana e ricostruì lo sfondo storico e culturale di questi capolavori.
'Vogliamo ridare vitalità alle opere che si studiano a scuola, come ha fatto Benigni recitando Dante', spiega il giovane De Sanctis. L'eredità del suo avo è un viaggio letterario e nei grandi teatri della penisola: partita oggi al Carignano di Torino con Laura Morante e i versi di Eugenio Montale, si concluderà il 3 maggio al Teatro Massimo di Palermo, con Luigi Lo Cascio che legge Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa.
In mezzo, altri grandi interpreti: Fabrizio Bentivoglio che dà voce alle Lezioni americane di Italo Calvino (Roma, Teatro dell'Opera, 2 marzo), Alessandro Preziosi con Il Principe di Macchiavelli (Napoli, Teatro San Carlo, 12 aprile), Toni Servillo che fa rivivere Il Saggio sul costume degli italiani di Giacomo Leopardi (Venezia, Teatro la Fenice, 21 dicembre). E poi Pierfrancesco Favino che legge Carlo Emilio Gadda (Bologna, Teatro comunale, 11 gennaio), Massimiliano Finazzer Flory con I promessi sposi (Milano, Teatro alla Scala, 25 gennaio), mentre Anna Bonaiuto recita La Gerusalemme liberata (Bari, Teatro Petruzzelli, 22 aprile). Otto reading in tutto, otto autori a cui il De Sanctis diede rilievo, ma anche scrittori a lui successivi che ne hanno portato avanti l'eredità. "Sono passi famosi che si studiano nelle antologie, ma che danno altre sensazioni quando li si sente recitare da grandi attori", assicura De Sanctis jr.
A introdurre ogni serata, ci sono critici ed esponenti della cultura, come Giorgio Ficara, Massimo Cacciari, Sergio Romano e altri ancora. Il progetto è alla seconda edizione, dopo il successo della primavera scorsa quando alcune sedi istituzionali romane hanno aperto al pubblico per ospitare i reading, ed è "figlio" della Fondazione De Sanctis, creata due anni fa dal De Sanctis jr che ha ereditato la biblioteca e l'archivio personale del suo trisavolo. Destinario è il grande pubblico (l'ingresso è gratuito, su prenotazione), però la manifestazione strizza l'occhio ai ragazzi dei licei e delle università, che magari questi autori li hanno un po' subiti. Ma impareranno ad amarli perché, come sostiene l'ideatore, 'la lettura ad alta voce amplifica la bellezza dei classici'." (da Chiara Brusa Gallina, Grandi classici letti da grandi attori, viaggio letterario per la penisola, "La Repubblica", 10/12/'09)
Fabio Volo, trionfo del non scrittore
"Nell'ultimo weekend il romanzo di Fabio Volo, Il tempo che vorrei, ha venduto più di tre volte del Simbolo perduto di Dan Brown. Guerra totale in casa Mondadori. Non ce n'è per nessuno, nelle graduatorie, né per le Donne di cuori di Bruno Vespa né per Ammaniti, De Luca o Camilleri. In sé e per sé il successo di Volo è spiegabile soltanto su base empirica. Le classifiche sono classifiche. I tabulati sono tabulati. L'ex Iena, partner di Simona Ventura, ha accumulato negli ultimi sette anni centinaia di migliaia di copie di vendita. Il giorno in più, il suo libro precedente (2007) era arrivato al milione, comprendendo la pubblicazione in paperback e le edizioni Club del libro. Tutti gli altri volumi, fra le 650 e le 800 mila copie. Una decina di traduzioni all'estero, Spagna, Germania, Russia, Francia, comprese anche Turchia e Albania, più altre annunciate per la prossima primavera.
Più fenomeno di così si muore. Spiegabile, inspiegabile, impagabile, invidiabile. Trentasette anni, bergamasco di nascita e bresciano di elezione, ex panettiere ed ex barista, insidiosa calvizie incipiente, barba corta e compensativa: 'Sono un non scrittore', si autodefinisce. 'Sfogo in ogni modo una sorta di creatività, una ricerca di equilibrio, un bisogno di benessere'. Aldo Grasso ha detto di lui che qualsiasi cosa faccia 'se sent la vanga, la provincia che avanza'. Se è per questo Fabio Volo è stato anche un non cantante, un non presentatore, un non attore, un non protagonista televisivo: 'Non sono originale, ma sono autentico, senza filtri'. [...] Non è neppure un Moccia, non cammina tre metri sopra il cielo, non è oracolar-sentimentale. Sembrerebbe piuttosto uno baciato da una sorte glocal, dal genio della provincia abissale che entra nell'economia mondo, dotato di un carisma indefinibile ma che si sovrappone con immediatezza al gusto del pubblico. Fra chi lo frequenta, il giudizio è semplificatorio: 'Piace alle donne perché le fa ridere'. Le rassicura. E gli uomini? Misterio glorioso, come tutti i carismi autentici. Come non scrittore ha avuto l'audacia di mettere in exergo a Il tempo che vorrei una citazione di Cortazar e una di Borges ('Ho commesso il peggiore dei peccati che possa commettere un uomo. Non sono stato felice'). E poi di esordire così: 'Sono nato in una famiglia povera. Se dovessi riassumere in poche parole che cosa significhi per me essere povero, direi che è come vivere in un corpo senza braccia davanti a una tavola apparecchiata'. Si potrebbe facilmente parlare di trash letterario o di grado zero della scrittura, se non fosse che invece funziona alla perfezione un 'effetto specchio' verso il pubblico: qualsiasi lettore, completato il romanzo di Fabio Volo, si convince che quel libro avrebbe potuto scriverlo lui, provando le stesse sensazioni, avendo letto gli stessi libri, visto gli stessi film, amate più o meno le stesse donne, combattuto battaglie maschili con gli stessi amici della sera. Con qualche incursione nell'immaginario soul meno prevedibile: 'I'll trade all my tomorrows for a single yesterday ...', come canta Janis Joplin. O per rifugiarsi in menù da cena perfetta, secondo la penultima moda della seduzione a sfondo gastronomico: 'insalata, riso basmati e un'orata nel forno, con patate e pomodorini Pachino'. Il suo romanzo è diviso sostanzialmente in tre parti. Uno, la vita erotica del protagonista, Lorenzo. Due, la sua vita di lavoro. Tre, il ricordo della vita familiare, con il padre infilato ogni volta in iniziative commerciali fallimentari, bar troppo costosi, cambiali nel cassetto, creditori alle porte, e sempre in attesa di un responso su una malattia grave, un adenocarcinoma, ma forse operabile; non ci dovrebbe essere dramma nell'universo Fabio Volo. [...] E poi aforismi a iosa, 'L'amore è come la morte: non si sa quando ci colpirà'. Scene di ordinaria vita quotidiana e di fastidi reciproci con la morosa: 'Il rumore che faceva quando deglutiva. Al mattino quando aveva freddo e tirava su con il naso. Quando lasciava aperto il frigorifero. Quando masticava le fette biscottate. Quando con il dito pigiava le briciole a tavola e poi infilarsele in bocca ...'. Naturale che poi lei sposa un altro, anche se come in una canzone di Lucio Battisti viene da lui al mattino per un'ultima inferocita sessione d'amore. Mentre lui nel frattempo è diventato un genio della pubblicità e ha creduto di poter leggere l'Ulisse di Joyce 'perché ritenevo che, avendo studiato l'Odissea alle medie, sarei partito avvantaggiato' (poi il suo mentore lo fa ripiegare su On the Road di Kerouac. 'L'ho letto in due giorni e quando ho incontrato Roberto gli ho detto. "Ma questo non è un libro, questa è vita"'). Pura vitalità anche l'esistenza di Fabio Volo? 'Vado a Barcellona come a New York perché l'Italia mi sembra un Paese immobile: poltici vecchi, telespettatori vecchi, imprenditori vecchi. E' più facile diventare una rockstar che aprire un'impresina'. Ecco forse il segreto. Fabio Volo, da pronunciare e scrivere sempre con nome e cognome: uno qualunque. Il volto, di uno qualunque. Il talento, di uno qualunque. Lo stile, idem. E il suo libro, il manifesto inesorabile dell'Italia qualunque." (da Edmondo Berselli, Fabio Volo, trionfo del non scrittore, "La Repubblica", 03/12/'09)
giovedì 10 dicembre 2009
Is Poetry still Possible?
"Il pubblico della poesia e della critica, in Italia, è scomparso. Poeti e critici vagano nel nostro Paese come sonnambuli che la gente scansa, incredula. A che serve la poesia? Come potrebbe sopravvivere nel mondo dell’informazione? Le stesse domande che Montale poneva urbi et orbi nel discorso del Nobel (1975) trovano oggi una risposta chiara nei «niente» e «in nessun modo» che echeggiano da un ministero a un’aula di scuola a un programma tv. Il sogno di De Sanctis - una società progredita o progressiva in un grande racconto di sé - che è stato, pur traumaticamente, lo stesso sogno di Montale, è oggi infranto. E la poesia, anche quella dei poeti laureati, si è nascosta nelle catacombe, in attesa che qualcosa cambi.
Ma che cosa è accaduto? Perché la poesia è diventata un gesto che non ci riguarda? Montale, già all’epoca degli Ossi, in uno dei suoi Sarcofaghi ci dice che il fuoco nel caminetto «verdeggia» in «un’aria oscura»: cioè l’umanità si raffredda, l’«uomo umano» patisce e intristisce nel mondo «meccanico» dell’informazione. Difensore ironico, ma anche intransigente, della continuità umanistica di fronte alla disumanizzazione dell’arte e al male sociale che ne consegue, Montale oppone i suoi no all’ingranaggio globale.
L’individuo pensante e poetante è per lui la sola alternativa all’indecisione, poi allo spegnimento di quel focherello nel camino e in definitiva alla tenebra. Il poeta «soleil couchant» di Baudelaire è per lui l’artefice che umanamente, con il suo calore residuo e insufficiente, disegna figure angeliche «sullo sfondo di una guerra cosmica e terrestre, senza scopo e senza ragione»: l’irrequieta Clizia della Bufera, la cui fronte «si confonde con l’alba». Oppure è il dandy-utopista che protesta contro la disarmonia storica e il cui gesto «implica sfiducia e insieme ottimismo, disperazione e fede nel destino individuale».
Ma soprattutto, poeta è per Montale chi, pur attratto verso l’oscurità e l’aria che «grava», presta le sue cure al mondo: il viandante che aggiunge all’esigua e indecisa fiamma di quel focolare un ramo o una pigna, e riprende poi il suo cammino. La poesia stessa è essenzialmente pietà e comprensione: lo sanno il giovanissimo Montale spiritualista e contingentista del Quaderno genovese e degli Ossi di seppia (lettore di Boutroux, di Sestov) e il vecchio Montale scettico del Quaderno dei quattro anni.
Se la vita umana è stupida come il «sonno dell’abbandonato», priva di segni, segreti, miracoli, fini ultimi, smagliature nella rete che ci stringe, se è esattamente l’idiozia di cui parla l’amato Flaubert, la poesia è il paradosso che rende intelligente la vita. Nonostante il suo leggendario understatement, Montale parla chiaro: la vita da sola, da sé, senza i poeti (e il loro antico ruolo sociale) è simile a quella del vecchio «abbandonato» accanto al focolare freddo: un doloroso, sordo non senso. E quando, nel discorso del Nobel, si chiede: «è ancora possibile la poesia?», la risposta, dalla logica stringente, è affermativa: «Inutile chiedersi quale sarà il suo destino. È come chiedersi se l’uomo di domani, di un domani magari lontanissimo, potrà risolvere le tragiche contraddizioni in cui si dibatte dal primo giorno della Creazione». Come dire: la poesia durerà finché durerà la pena degli uomini. (D’altra parte, se la pena non ci fosse, non sarebbe possibile la poesia).
Questa cosa che non ci riguarda più, in quanto collettività e nazione, per Montale è inscindibilmente legata al concetto stesso di umanità. Nell’Epigramma dedicato a Camillo Sbarbaro, vediamo una barchetta di carta che un bambino «affida alla fanghiglia mobile d’un rigagno»: il bambino è il poeta che scrive i suoi versi-barchette e li consegna al mondo-ruscello: il bastone di un «galantuomo che passa» deve poi guidarli al sicuro, a un «porticello di sassi». La poesia, dunque, è un bene di tutti, cui tutti contribuiscono. È una nota che deve centuplicarsi in noi con reti di risonanze ed echi «che rappresentano la sostanza dell’arte stessa». È il principio di qualcosa che si compie nella lettura, e non si compie mai del tutto in una sola lettura. Noi stessi siamo o dovremmo essere la sua dimora, il suo «porticello di sassi». Il punto è indovinare se ci siano o ci saranno, magari tra i nostri governanti, ancora galantuomini come quello che passa, o passava, nell’Epigramma di Montale." (da Giorgio Ficara, Se il poeta finisce nella catacomba, "La Stampa", 10/12/'09)
Montale nel catalogo Mondadori
mercoledì 9 dicembre 2009
Javier Marias: "Quei ragazzi convinti che il sapere è irrilevante"
"Una reginetta di bellezza ha detto che Colombo ha scoperto l´America nel 1780
Avrà saputo che cos´è un secolo? Se avesse detto «1789» avremmo potuto pensare che avesse confuso una data famosa con un´altra. Ma il 1780? Un mistero veramente. La notizia aggiungeva qualcos´altro, forse ancora più rivelatore e sintomatico: in un programma della televisione Tve avevano provato a svergognarla per la sua gaffe, ma lei si è difesa con disinvoltura, affermando che «è irrilevante sapere questa cosa».
È facile giudicarlo un evento trascurabile e consolarsi con la fondata idea che tutte le miss e aspiranti tali sono ignoranti per definizione e irrimediabilmente sceme. I loro gridolini, i loro pianti e le loro ovvietà sono stati parodiati fino allo sfinimento in film e programmi umoristici. Che ci si può aspettare da una miss? La cosa è nota. Però la giovane in questione probabilmente fino a quattro giorni fa era una ragazza normale. Sarà andata al liceo come tutte, e chissà, forse sarà arrivata anche a prendersi il diploma. Sarà arrivata ai diciotto-vent´anni con una qualche istruzione, e ne è prova il fatto che le sia venuta in mente la parola «irrilevante», che ai tempi nostri non è alla portata di tutti. Ho paura che le sue due risposte, quella del 1780 e quella dell´irrilevanza, le avrebbero potute dare parecchi giovani che non hanno mai avuto nulla a che fare con i concorsi di bellezza, e un numero non trascurabile di adulti, fra i quali, senza dubbio, alcuni di quei giornalisti televisivi che hanno voluto metterla alla berlina, solo che a loro non fanno queste domande difficili con le telecamere davanti.
«È irrilevante sapere questa cosa». Da un certo punto di vista la candidata al titolo di "Reina" non ha tutti i torti, perché la stessa cosa devono aver pensato certamente tutti i professori che ha avuto in vita sua, e i responsabili della Pubblica istruzione - nazionali e regionali - degli ultimi due o tre decenni, che hanno fatto tutto il possibile per trasformare la Spagna in una società di illetterati, di ignoranti fieri della loro ignoranza, di primitivi esperti in tecnologia; e come loro un buon numero di genitori, che si sono affannati a pretendere dai docenti che insegnassero ai loro virgulti «cose pratiche», che possano servire per guadagnarsi da vivere in futuro, senza perdere tempo con l´«irrilevante». Serve a qualcosa il latino, una lingua cadavere? A che serve la matematica, quando abbiamo le calcolatrici che ci forniscono il risultato di qualsiasi operazione lì, sul momento? A che servono la grammatica, la sintassi e l´ortografia se come si parla e come si scrive è lo stesso? A che serve conoscere la storia se basta cercare su Internet per appurare istantaneamente chi fu il tale personaggio e che cosa successe il tale anno? A che serve la geografia, se prendiamo aerei che ci portano in qualunque posto nel giro di poche ore e non ci importa nulla del tragitto? C´è qualcosa che serve a qualcosa? E che cosa sono, poi, le cose «pratiche»? Forse solo imparare a maneggiare il computer e la calcolatrice. In fin dei conti, perché è necessario andare a scuola? Per avere un´idea del mondo, del passato dell´umanità, della storia dell´arte e delle religioni, dell´evoluzione delle scienze, della nostra anatomia, dei testi che sono stati scritti, della moltiplicazione, della divisione, della somma e della sottrazione, del cerchio e del triangolo? Niente di tutto questo è «pratico» né aiuta a guadagnarsi da vivere, tanto meno a diventare Reina Hispanomericana. Eppure ...
L´istruzione non è solo conoscenza e dati. È un elemento essenziale di quella che un tempo si chiamava «formazione», cioè la trasformazione degli individui in persone, non esseri animaleschi che cadono nel mondo senza avere nozione alcuna di quello che c´è stato prima di loro, incapaci di associare due fatti, di distinguere fra causa ed effetto, di articolare due frasi intelligibili, di pensare e ragionare, di comprendere un testo semplice. Questo è il genere di esseri che abbonda ogni giorno di più nella nostra società intellettualmente rudimentale. Il problema è che, per qualche mistero, alla fine questi esseri non escono fuori né «pratici» né in grado di guadagnarsi da vivere, la vecchia aspirazione dei loro già abbrutiti genitori. Non è raro vedere in televisione giovani e non tanto giovani che dicono, in questi tempi di crisi: «Io non voglio studiare, quello che voglio è che mi diano un lavoro per guadagnare soldi». Spesso hanno un´aria talmente da scemi che mi scopro a pensare con pena: «Ma santo cielo, come può qualcuno darti un lavoro se è evidente che non ti hanno insegnato nulla e che non servi neppure per appiccicare un francobollo? Se io fossi un imprenditore, non ti assumerei». Temo che gli imprenditori veri pensino la stessa cosa: «Non ho bisogno di un animale tecnologico, che sa battere i tasti come gli viene ordinato ma senza avere la minima idea di quello che sta facendo. Non ho bisogno di una persona incompleta. Portatemi qualcuno civilizzato, con conoscenze irrilevanti, di quelle che ti permettono di cavartela nel mondo»." (da Javier Marias, Quei ragazzi convinti che il sapere è irrilevante,
"La Repubblica", 08/12/'09)
Javier Marias nel catalogo Einaudi
mercoledì 2 dicembre 2009
A cuore aperto di Raffaele La Capria
"Circondati come siamo da scrittori irreali, o falsi (e probabilmente incolpevoli: la realtà è più irreale di loro), quando ne leggiamo uno vero abbiamo l'impressione che un errore si commetta sotto i nostri occhi. Che la sua stessa «verità» sia un errore: la letteratura, dicono e hanno detto in molti (da Praz a Steiner ad Arbasino) si è fermata come un'automobile in panne e noi oggi non possiamo che girarle attorno. Praz addirittura estendeva la clausola a un'intera porzione di modernità ... Eppure no: l'errore di dire la verità - nel nostro stesso mondo, perfino in Italia - si commette ancora. Ecco ciò che pensavo leggendo A cuore aperto di La Capria (Mondadori). Vero scrittore in ogni suo libro, dal capolavoro Ferito a morte ai saggi di Letteratura e salti mortali a quelli dell'Armonia perduta, La Capria ha sempre teso l'orecchio al «suono della verità»: da uomo innamorato dell'umano e della vita, della «noncuranza della natura» - il mare e il fondo del mare di Capri, gli alberi, i cani, gli asini, le «belle giornate» - ha invariabilmente cercato nella vita stessa quella sottile musica essenziale.
Una musica di sottofondo cui si accompagna «un'idea profonda e una percezione radicata di ciò che è umano e di ciò che non lo è, di ciò che è vero e di ciò che è falso». S'intende, per raggiungere questo fine non è necessario scrivere romanzi. La Capria racconta della sua famosa spigola, «ombra grigia profilata nell'azzurro», nella prima pagina del suo romanzo Ferito a morte e qui, a distanza di quarantotto anni, nelle pagine eccentriche insieme saggistiche, diaristiche, narrative - di A cuore aperto. Inavvertito, come se nulla fosse, lo stesso pesce guizza da un genere all'altro, dal romanzo-romanzo alla prosa flessuosa e aperta del saggio: «Ora quando penso a quel pesce intelligente e al mio affannare dietro di lui, a quell'ostinato desiderio, io penso al Dio Irraggiungibile». Per La Capria tutto sommato i generi non esistono oppure sono mari contigui in cui nuotano gli stessi pesci: l'ambigua chimera del romanzo italiano novecentesco, che ha prodotto capolavori d'incompiutezza - la Cognizione di Gadda, ad esempio - o sublimi e sottili frammenti di prosa d'arte, non lo ha indotto mai alla stretta osservanza del precetto narrativo.
La Capria è uno scrittore vero in un Paese di romanzieri irreali: indifferenti alla sua religione dell'arte, alla sua pazienza e ironia, e ai suoi stessi fini civili: «ogni volta che riesco a comporre una frase ben concepita, ben calibrata e precisa in ogni sua parte - ha scritto - una frase salda e tranquilla nella bella lingua che abito, e che è la mia patria, mi sembra di rifare l'Unità d'Italia». Il libro che La Capria continua a scrivere non è né un romanzo, né un racconto, né un saggio critico e probabilmente delude i cultori dell'entertainment a tutti i costi. Ma è «letteratura», nel senso lato e adorniano di resistenza all'informazione (e alla falsa letteratura), anzi, secondo il suo aggiornamento più morbido, «distrazione» dall'informazione. «Posso chiedere il permesso di non registrare un discorso di D'Alema o di Berlusconi? Di cancellarlo subito come una gomma che non ne lascia traccia?» Civile in quanto distratta, la scrittura di La Capria qui e altrove interroga la realtà anche più degradata del nostro Paese. E' essenzialmente estranea ai sofismi che la rappresentano. Ritrova il fuoco dell'immagine. Napoli, ad esempio, è un luogo «irrisolvibile» che si trasforma
definitivamente in tristezza o «sentimento di continua frustrazione», senza altri o diversi velami nostalgici: il cantore del mito della «bella giornata» - dai primi romanzi alla trascrizione della remota fiaba di Colapesce alle prose anche minime e quotidiane - è qui alle prese con il peggio della civilizzazione, una mutazione urbanistica divenuta «mutazione morale», un degrado politico non reversibile, come quello che De Sanctis vedeva nell'Italia del Machiavelli: il Paese «meno serio del mondo».
Questo dandy, dunque, che abbiamo incontrato con il cane Guappo per le stradicciole di Capri, come ogni vero scrittore (e ogni vero dandy, da Baudelaire a Montale) è innanzitutto un critico del suo tempo. Ma in questo libro, come già con chiari avvertimenti ne L'estro quotidiano (2005), è un inquieto scrittore metafisico. A cuore aperto è una specie di catalogo di ciò che si lascerà nel mondo: un albero fiorito «bianco come dopo una nevicata»; una terrazza sul mare immersa nel mistero - il suo «piccolo Tibet» - a un passo dall'eternità; il mare che «incurva le spiagge» e, come in Ferito a morte, non lascia in pace la Storia, sgretola le pietre dei palazzi, finché un giorno «i pesci nuoteranno nelle stanze irriconoscibili»; e poi i fili d'erba, il rumore lontano d'una barca, la musica di Mozart: «Non sentirò mai più la musica di Mozart? Com'è possibile?» Visto dall'eternità, il mondo, si sa, è appena «un punto di luce nebulosa», è quasi nulla. Ma che altro può fare, che altro ha uno scrittore? Parlare d'angeli, o del confine fra visibile e invisibile, come fanno i poeti (anche il vecchio Montale del Quaderno), non può. Parlare di ciò che non si sa e non si vede, non può. Gli basta lo spicchio di Terra che conosce, sempre lo stesso, il «quasi nulla» amato come se fosse un «quasi tutto».
La metafisica di A cuore aperto non si spinge oltre: è il risultato di un eccesso di amore che rende il mondo più visibile e intelligibile. (Rimane il sospetto che, privo d'un tale «eccesso» d'interpretazione o letteratura, il mondo stesso esisterebbe un po' meno)." (da Giorgio Ficara, Un dandy orfano della bella giornata, "TuttoLibri", "La Stampa", 28/11/'09)
sabato 28 novembre 2009
Diario di lettura: Antonella Agnoli
"Quando nel 1999 l'ex manager dei Sex Pistols Malcolm McLaren si candidò per scherzo ma non troppo a sindaco di Londra, dichiarò che se mai fosse stato eletto avrebbe aperto bordelli per deputati e nuove biblioteche provviste di bar: «E' bello poter bere una Guinness mentre stai leggendo Dickens». Antonella Agnoli, storica bibliotecaria di Pesaro da poco passata alla libera professione, si occupa della seconda parte del programma elettorale del vecchio provocatore punk. E ha da poco pubblicato un libro assai interessante, Le piazze del sapere (Laterza), in cui propone di ripensare gli spazi urbani proprio a partire dalle nuove biblioteche, viste come luoghi della possibile rinascita di un Paese sempre più ignorante, alle prese ormai da anni con l'analfabetismo di ritorno, e in cui le università organizzano corsi di sostegno di italiano non per gli studenti stranieri ma per i nostri diciottenni, «incapaci di scrivere due paragrafi senza strafalcioni».
Signora Agnoli, in Italia come è noto si legge poco: quanto a lettori, siamo agli ultimi posti in Europa. E ci si rincuora se per caso il numero di chi compra almeno un libro all'anno cresce anche solo dello 0,1%. Eppure dal suo Le piazze del sapere traspare non solo un progetto, ma addirittura una speranza. Non le sembra di esagerare? «Il libro nasce da riflessioni che sto facendo da tempo: in biblioteca ho lavorato 33 anni. Di recente mi sono dedicata alla progettazione di luoghi e servizi con l'idea di ripensare la biblioteca. E volevo scrivere un libro che facesse capire che cosa è una biblioteca per una città anche da un punto di vista politico. In quella di Pesaro c'è questo mix di scelte architettoniche / orari / accoglienza. E' un luogo facile. E funziona. Direi che è un libro che i bibliotecari possono usare per dialogare con gli amministratori, che in genere non capiscono perché mai dovrebbero investire in una biblioteca.
Io non metto in discussione le biblioteche storiche, di conservazione. Oltre al fatto che in Italia si legge poco, dobbiamo tener presente che oggi la gente vuole tutto e subito: perché andare in biblioteca al tempo di Internet? Inoltre ci sono i tascabili, e almeno al Centro-Nord da noi le librerie non mancano. Tuttavia in un Paese come la Danimarca si è riscontrato un calo nel numero di prestiti ma un aumento di presenze: la biblioteca vissuta come piazza, alternativa al modello commerciale. Ecco perché la biblioteca può inserirsi in un progetto urbanistico. Il libro diventa un oggetto economico a causa dell’intrecciarsi di cose come la tecnologia, l’ignoranza e l’invivibilità delle nostre città. Io sono convinta che agganciare i giovani e invertire la tendenza sia possibile. Occorre dare loro luoghi e oggetti che abbiano attinenza con la loro vita, e dunque anche musica, cinema, fumetti. In realtà questo Paese ha deciso di non investire nell’istruzione: ma la biblioteca è un servizio trasversale a tutti i servizi della città. Fa da doposcuola al tempo dei tagli e da ritrovo per gli anziani sprovvisti di computer, e serve anche all'integrazione di chi arriva da fuori».
Dopo la sua esperienza a Pesaro è stata chiamata a Londra per collaborare al restyling degli Idea Store. Ci racconta qual è stato il suo percorso? «Ho iniziato a lavorare in biblioteca nel 1976, a Spinea, in provincia di Venezia. Non avevo studiato biblioteconomia e non avevo esperienze precedenti. La biblioteca era in una bella villa veneta con un grande parco. Mi sono detta che dovevo cominciare dai bambini. Ho scelto quelli della Emme, all’epoca all'avanguardia, e alcuni titoli di Munari. Sono stati i bambini a portarmi le mamme. Loro entravano ingobbite, timide. Ho capito che dovevamo tenere anche la narrativa rosa, compresi gli Harmony. In poco tempo un terzo della popolazione era iscritta alla biblioteca. Se avessi puntato sulla Treccani quelle mamme non le avrei più riviste. Dai bambini ho imparato tanto. Non puoi dirgli che non si possono prendere in prestito più di tre libri. La quantità è proporzionale al tempo che uno dedica alla lettura. Vale lo stesso per i film o per la musica».
Questo però è un Paese che i lettori bambini li perde per strada: se ne dolgono spesso anche i librai. «Io sono un'ottimista, o se vuole una militante. Bisogna
lottare, non arrendersi mai. Certo è faticoso perché abbiamo tutto contro: il tempo che manca, i tagli di ogni governo, la tivù, la mancanza di visione da parte della politica. Di recente hanno aperto una biblioteca a Bogotà, decidendo di investire in quella struttura per il recupero della città. Pare che funzioni, voglio andare a vederla. Per tornare ai bambini, spesso per quelli degli immigrati la cultura è ancora un valore. Per loro andare bene a scuola significa come per noi negli Anni Sessanta cercare un riscatto sociale».
Come è nato in lei l'amore per i libri? «Non so se amo i libri. Amo le persone, e certo mi piace che le persone leggano». Da ex commesso di libreria che se l'è sentita fare spesso, mi permetta una domanda ingenua: leggeva molto quando lavorava in biblioteca? «Non sono una grande lettrice. Oddio, non vorrei entrare nello stereotipo dei bibliotecari che non leggono. Ma vede, faccio tante cose, non posseggo una tivù e ascolto molta musica classica. Bach, Sciostakovic, i Quartetti di Beethoven, i Lieder».
Quali sono stati i suoi maestri? «Premesso che sono un'autodidatta, Luigi Crocetti è stato per me un grande bibliotecario. Lui non ci dava mai la soluzione di un problema, ci invitava a ragionare. A Venezia, quando lavoravo per la Biennale Cile, ho conosciuto tra gli altri Franco Basaglia e Luigi Nono. Si andava a cena fuori ed era facile conoscere persone così. Sono stati anni formativi. Prima, a Belluno, frequentavo le osterie e ascoltavo i racconti degli anziani».
E i suoi autori di riferimento? «Ogni periodo ha i suoi. Da ragazza, Mann, La montagna incantata. Ma ora? Le persone cambiano, si trasformano. Oggi leggo molti polar. Certi autori, penso per esempio a Jean-Claude Izzo, hanno saputo anticipare i fenomeni urbani, raccontandoci le periferie prima dei giornali».
Che cosa vuol fare da grande? «Vorrei mettere su un servizio, SOS Biblioteche, a cui ci si possa rivolgere per trasformare i luoghi: rendere accogliente e attraente una biblioteca costa meno che farne una nuova. La biblioteca si porta dietro un sacco di pregiudizi. Come scardinarli? Occorre pensarci»." (da Giuseppe Culicchia, In ogni città ci vuole una piazza del sapere, "TuttoLibri", "La Stampa", 28/11/'09)
mercoledì 25 novembre 2009
I Tir dei libri lungo l'Italia per conquistare lettori
"Libri con le ruote. Per inseguire il lettore che fugge, le autostrade reali sono più utili di quelle informatiche. 'Da gennaio saremo la prima casa editrice on the road', annuncia Fiorenza Mursia tra gli scaffali della sua (ancora sedentaria) libreria milanese. Tutto il catalogo della cinquantenne e prestigiosa sigla dell'editoria italiana sarà caricato su quattro Tir: 3.800 titoli, 9 mila volumi per camion. Freccia a sinistra e via per lo Stivale, ventiquattro le 'piazze' già prenotate per la prima tournée, nomadi come un circo, a vender libri nei piccoli centri dove le librerie muoiono come le farfalle d'inverno.
Papà Ugo, che fondò il marchio, sarebbe contento: era un appassionato di Salgari e di Verne, cioè di viaggi e di avventure. E questa è un'avventura viaggiante che sa di moderno e di antico assieme. 'Cercavamo idee per uscire dalla morsa di un mercato editoriale sempre più rigido - spiega Fiorenza - ci aspettavamo proposte di negozi online e cose così'. Invece i guru del marketing hanno soppesato tutte le possibilità offerte dalla tecnologia e hanno concluso che il futuro sta nell'antico. In strada. Come i colporteur, venditori ambulanti di Bibbie e fogli volanti nella Francia dell'Ottocento: andare nelle piazze, con i libri veri, da far vedere e toccare.
Certo, Internet funziona, eccome. Le vendite di libri in rete sono aumentate quest'anno del 22%, più del prevedibile. Ma cosa compra il lettore in rete? Solo i titoli che già cerca. Non è lì che si farà sedurre da un libro sconosciuto. Ma ormai neanche nelle librerie di catena, dove spadroneggiano le novità (il tempo di permanenza in scaffale è sceso a tre mesi). E le librerie tradizionali, quelle col libraio che dà consigli? Perdono clienti (meno 7%). L'insieme è letale per editori che, come Mursia, vivono di un enorme catalogo di long-seller. Come proporlo al lettore-massa? Sbarcare negli ipermercati? Anche lì, a sorpresa, le vendite calano nonostante i supersconti (meno 2,5%). In queste condizioni, l'incontro tra i libri non-da-classifica e il lettore si fa difficile. Bisogna sparigliare. Inventare. Copiare da altri settori, per esempio la moda, che con i temporary shop approfitta dei negozi provvisoriamente sfitti. Anche Mursia aveva carezzato l'idea: ma l'ha scartata. "Siamo una casa editrice con una tradizione, non ci piace dare l'idea del mordi-e-fuggi". Più suggestivo il modello alimentare: sbarchi, apri, cucini e servi ben caldo. Non c'è solo la porchetta: raffinati ristoranti sushi su ruote spopolano negli Usa. Ed è questo che farà Passapartù, il progetto Mursia.
Per ora i camion sono due, ma la flotta dovrebbe raddoppiare entro il 2010. Ciascuno porta un container lungo nove metri, che una volta posato a terra si apre da solo come un carillon e in pochi minuti diventa uno stand di cento metri quadri, design firmato da due giovani architette milanesi, Valeria Manzini e Yuri Mastromattei, scaffali colmi di novemila volumi, saletta conferenze da 30 posti, computer, video e angolo cocktail. Tre settimane stanziali e una di viaggio ogni mese. Piazze scelte con cura per setacciare la provincia italiana. Sindaci entusiasti di ospitare un'animazione culturale a costo zero: 'Nessuna difficoltà a ottenere i permessi'.
Come ogni buona idea, ha precursori. Un altro grande editore italiano, Valentino Bompiani, ci pensò nel 1955. Il suo 'Librimobile', furgoncino-libreria-salotto con grandi finestre-vetrine, lo fece carrozzare da un designer prestigioso, Enzo Mari (che apparteneva, non a caso, al movimento dell'"arte cinetica"). Anche gli editori di opere a fascicoli, come Fratelli Fabbri, disponevano di un proprio parco-mezzi motorizzato. E sempre negli anni Cinquanta i servizi di pubblica lettura di alcune province raggiungevano con camioncini i paesi più sperduti per prestare e ritirare libri, tradizione rifiorita qua e là con i 'bibliobus'. Albe Steiner propose perfino scompartimenti-libreria sui treni. Ma allora non c'era Internet. La sfida era far arrivare il libro dove altrimenti non sarebbe arrivato. Oggi la gara è fra libreria reale e libreria virtuale? 'Non sono mercati in competizione' per Giovanni Peresson dell'ufficio studi dell'Associazione italiana editori. 'Il lettore di oggi - spiega - è multi-canale, compra in rete ma ama anche frugare sulle bancarelle'. Ma è proprio la stessa cosa? 'Internet è velocità - ammette Fiorenza Mursia - ma il libro è pensiero lento, cioè ascolto, maturazione, scambio: il lettore ha bisogno di tempo e spazio per innamorarsi, noi proviamo a regalarglieli'." (da Michele Smargiassi, I Tir dei libri lungo l'Italia per conquistare lettori, "La Repubblica", 24/11/'09)
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