lunedì 9 novembre 2009

Diario di lettura: Ginevra Bompiani


"A distanza di decenni, Ginevra Bompiani ha conservato la stessa figura sottile, nervosa, come di adolescente in perenne movimento, tra elfo e folletto gioioso ma anche meditabondo che graviti in uno spazio a sua misura, conquistato e difeso con protervia. Dopo aver letto il suo bellissimo romanzo L'orso maggiore - racconto di una ferita infantile rivisitata sul filo dei sentimenti provocati dalla morte della madre - non si può non ritrovare in lei la bambina che costruendo la sua vita di donna ha dimostrato, con i suoi libri, che l'esperienza - come riteneva Proust - è veramente portata a compimento quando diventa materia di scrittura. Cresciuta tra i libri, all’ombra del padre Valentino fondatore di una delle più prestigiose case editrici italiane (oggi, a Milano, si presenta il numero speciale di Panta per gli ottant’anni della Bompiani), ha cominciato a scrivere prestissimo, per «battere» una coetanea inglese di otto anni, ma la sua Storia di un fiammifero si fermò alle prime due pagine: un grande incendio in cui la giovane protagonista perdeva con un sospiro casa e famiglia. Ha studiato e vissuto a Parigi. Ventenne ha esordito come brillante editor per poi dedicarsi alla letteratura inglese e diventare docente universitaria.
Autrice di racconti, saggi e romanzi, dove realtà e invenzione si amalgamano in una scrittura tersa e suggestiva, sette anni fa è tornata all'editoria fondando con altri nottetempo. Vive tra Parigi e Roma dove da trent’anni abita una casa affacciata sull’Orto botanico che - dice - «con i suoi semi volanti ha reso il mio terrazzo una foresta». Anche il suo studio è un po’ la sua foresta di carte e di libri.
Per costruirla, quanto l’ha influenzata la figura di un padre come Valentino Bompiani? «Il rapporto con mio padre si muoveva su due binari. In quanto bambina, con lui il rapporto era di semplice autorità, ma in quanto essere pensante, c'era un dialogo quasi alla pari. Avevo otto anni e mi leggeva il suo teatro che io commentavo. Mi leggeva anche ad alta voce Emily Dickinson, Leopardi, la Ortese.
Li sento ancora con la sua voce. Fino a dodici anni ho letto tutta la produzione per ragazzi della casa editrice, da Il piccolo principe a I ragazzi della via Paal, da Mary Poppins (di cui conobbi bene l'autrice Pamela Travers) a Emilio e i tre gemelli.
Ma leggevo i libri della Scala d'Oro di nascosto. Essendo riscritture per bambini di celebri capolavori, lui le considerava diseducative. Quello che più ho amato è stato I cavalieri della tavola rotonda. Certo, la regina si chiamava come me, e questo mi rendeva molto sensibile a Lancillotto e all’infedeltà».
Audacia, coraggio, sfida, competizione, sono gli stessi sentimenti che caratterizzano i comportamenti infantili dell’io narrante nell’autobiografico L’orso maggiore. «Da bambina non amavo i libri di avventure, ma il collegio svizzero che racconto nell’Orso maggiore mi ha buttato in alto mare e ha fatto di me, tranquillo passeggero, un piccolo capitano di nave in tempesta. Fra
l'altro, L’orso maggiore è solo in parte autobiografico. L'idea è che l'infanzia possa dar luogo a diverse vite, non ne determini una sola, quella che hai poi vissuto. E nel libro ce ne sono due, infatti: narratore e personaggio hanno la stessa infanzia ma due vite diverse».
Quali altri libri sono poi stati formativi? «A tredici anni ho attaccato Dumas, che mi ha svezzato dall’editoria infantile, con la serie de I tre moschettieri. Poi, i russi, soprattutto Cechov e Tolstoj. Cechov mi fece da balia, particolarmente nella scrittura, Tolstoj mi diede il senso dell’inevitabilità. Ricordo, più tardi, a vent’anni, in piedi in un caffè di Parigi, una discussione con Nanni Filippini, in cui sostenevo che non è possibile mancare il proprio destino. In me parlava la voce di Tolstoj, in lui un senso più acuto del possibile, e in qualche modo la vita gli diede ragione. Cechov mi ha insegnato che il narrare è curvo, disegna una parabola: all'apice della curva la linea comincia a scendere (questo succede a partire dall’Ottocento, mentre fino ad allora la narrativa si lanciava come una freccia verso il lieto fine). L'apice, in Cechov, è raggiunto nel momento in cui si profila l'idea che la vita potrebbe essere diversa, ma poi l'apertura si rivela un'illusione e la curva precipita nel non lieto fine. La lettura di Freud, per ragioni sanitarie, e insieme di Cervantes, sono seguite poco dopo».
In Le specie del sonno rivisita temi e figure mitologiche. Una fascinazione che, immagino, risale allo stesso periodo. «Sì, era cominciata al liceo, direi. Poi ho cominciato a leggere sia le fonti che i grandi libri sul mito, da Kerenyi a Walter Otto. Ho amato molto le Metamorfosi di Ovidio e i Caratteri di Teofrasto, di cui mi sono servita anni dopo in un periodo in cui riflettevo sul carattere. Le Specie del sonno sono nate da un primo testo sui Centauri. Lo sguardo sui miti era letterale, o meglio figurativo: mi piaceva immaginare come dormivano e com’era modificata la loro vita dalle posizioni e dalle limitazioni del loro corpo».
Molti suoi testi danno l'impressione di esemplificazioni filosofiche. Da Platone a Deleuze, citazioni esemplari compaiono in esergo a libri e racconti. «Non sono filosofa, ma c'è stato un lungo periodo della mia vita in cui ho frequentato la filosofia. Ho vissuto accanto a un filosofo per molti anni, e mi è capitato di incontrare grandi filosofi del nostro tempo: Heidegger, Derrida, e soprattutto Deleuze. Da quando ho sentito una sua lezione, a quando poi l'ho incontrato, a tutto quello che ho letto di lui, non c'è una sillaba che non mi riempia e non mi insegni. Ho avuto la fortuna di incontrare molti “grandi” nella mia vita, ma di incontrarli nella vita quotidiana, senza aura, e questo, credo, ha fatto sì che quello che erano mi toccasse in modo profondo e struggente, mi raggiungesse, come dire, il cuore prima del cervello: lo sguardo di Heidegger, la voce di Ingeborg Bachmann, la gentilezza di Derrida, l'avvenenza di Calvino, la torva comicità di Manganelli ...
Fra tutti, due mi hanno abitata, non come fantasmi, ma come padroni di casa: José Bergamin e Gilles Deleuze».
Insieme al filosofo di grande valore che ha sposato, Giorgio Agamben, nel 1968 ha creato per Bompiani il «Pesanervi», una magnifica collana di letteratura fantastica. Quale, la scoperta più importante? «Direi Bioy Casares, all'epoca completamente sconosciuto».
Da editrice, ha pubblicato La risata del ’68, un omaggio a un momento
di grande apertura, anche nell'editoria ... «Sì, quarant'anni dopo il ’68, tutti si affannavano a negarne la grande felicità e ricchezza. Ho chiesto ad alcuni protagonisti di raccontare il loro ’68: un momento di “vacche grasse”, checché se ne dica ... Il degrado attuale, o per meglio dire la vergogna, è così profonda che
non si può attribuire a un solo fattore. Anche se ce la mette tutta, la distruzione della cultura non è solo opera del governo. A cambiare la cultura sono, in gran parte, i tre strumenti della solitudine contemporanea: la televisione, Internet
e il cellulare».
Come vede la situazione della piccola editoria? «Difficile. I piccoli editori sono
stretti fra molte morse: grande editoria, grande distribuzione, grandi catene librarie. E' difficile restare indipendenti ... Alcuni recentemente hanno stretto alleanze, e uno dei progetti più ambiziosi è ottenere il prezzo fisso dei libri,
che, pur esistendo teoricamente, viene eluso discriminando l'editoria indipendente. Alla fine il pubblico sceglie lo sconto piuttosto che il libro».
Sconti in cambio di vetrine in affitto, a scapito di libri di qualità? «Esattamente. Solo la legge potrebbe porvi rimedio, e la piccola editoria indipendente si sta muovendo in questa direzione».
Tra i suoi libri d'affezione non ha citato nessun italiano. «Amo moltissimo Anna Maria Ortese, scrittrice straordinaria, ancora misconosciuta dalle antologie e dalla critica del Novecento, come d'altronde Elsa Morante. In Ortese mi affascina il continuo rovesciarsi di miseria e splendore, di realtà e immaginazione. Questa doppia visione c'è anche in Fabrizia Ramondino, altra grande scrittrice di cui abbiamo pubblicato il libro di racconti Il Calore. Tutte e tre, Ortese, Morante, Ramondino, sono legate a Napoli, una città molto narrativa. Forse è una qualità legata anche al suo emblema: Pulcinella che balla e a ogni giro mostra una faccia diversa - la faccia che ride e il volto della morte. In queste scrittrici, le due facce sono sempre presenti, e a ogni giro di danza appare l'una o l'altra».
Perché tanta distrazione? «Perché sono donne! In realtà, verso le donne che scrivono c'è un interesse per così dire “mondano”, ma le istituzioni sono cambiate poco ... Mi piace la narrativa pensante, amo molto Calvino, Caproni, Celati, Manganelli ... E penso sinceramente che Milena Agus sia una delle voci più autentiche della nostra narrativa»." (da Paola Decina Lombardi, Tre donne e Pulcinella ballano per me, "TuttoLibri", "La Stampa", 07/11/'09)

1 commento:

Anonimo ha detto...
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