lunedì 3 marzo 2008

Contro l'etica della verità di Gustavo Zagrebelsky


"Contro l'etica della verità, l'ultimo libro di Gustavo Zagrebelsky (Laterza) pronuncia finalmente una parola chiara sia contro l'etica che discende da una verità assoluta come sono solite proclamarla le religioni compresa la religione cristiana, sia contro lo scettismo radicale tipico dell'atmosfera nichilista che caratterizza il nostro tempo. La tesi è che il dubbio, da cui discende l'etica del dialogo tra posizioni differenti e spesso contrastanti, non è il contrario della verità, ma un omaggio che le si fa a partire dal riconoscimento che la conoscenza umana non è mai una conoscenza perfetta. Come ci ricorda Jaspers nel suo grande libro Sulla verità (che nessun editore ha ancora avuto il coraggio di tradurre in italiano): 'Noi non viviamo nell'immediatezza dell'essere, perciò la verità non è un nostro possesso definitivo. Noi viviamo nell'essere temporale, perciò la verità è la nostra via'. Lungo questa via incontriamo anche il dubbio radicale degli scettici che si astiene dall'affermare di ogni cosa che sia vera o sia falsa. Il dubbio che propone Zagrebelsky lungo il sentiero della verità non ha nulla a che fare con il dubbio scettico, perché, a differenza di quest'ultimo, non si astiene dal giudizio, ma lo promuove attraverso il dialogo, con l'avvertenza che la verità a cui si giunge è suscettibile di essere di continuo riesaminata e riscoperta. Quindi relativismo, contro l'assolutismo delle religioni, e di questi tempi anche della religione cattolica.

Dico di questi tempi perché il pensiero cristiano, nelle sue più alte espressioni teologiche, ha sempre sostenuto una verità mai disgiunta dal dubbio. Agostino, ad esempio, nel De praedestinatione sanctorum scrive che la fede consiste nella volontà di credere'. Secoli dopo Tommaso d'Aquino torna a sottolineare il carattere volontaristico dell'assenso fideistico in cui l'intelletto è 'terminatus ad unum ex estrinseco (ex voluntate)' e non 'ut ad proprium terminum' (ossia dall'evidenza del contenuto). Sempre Tommaso, nel De fide, commentando san Paolo, osserva che la fede conduce 'in captivitatem omnem intellectum' cioè rende l'intelletto prigioniero di un contenuto che non è evidente, e quindi gli è estraneo (alienus), sicché l'intelletto è inquieto di fronte alla fede. Sembra che il magistero di Ratzinger e dei cattolici che lo seguono e lo fanno proprio non soffra più di questa inquietudine. E allora come è possibile una convivenza o un dialogo tra i laici che cercano la verità con la cautela del dubbio e i cattolici che, accolta la verità enunciata dal magistero ecclesiastico, la assumono come assoluta e non tollerano di essere sfiorati dal minimo dubbio? Non è qui in gioco la democrazia come libero confronto di opinioni? E che ne è della tolleranza tanto rivendicata contro il fondamentalismo, quando uno dei dialoganti si arresta ogni volta che si imbatte in una verità di fede? Ma soprattutto che significa una 'verità di fede'? Non è questa una contraddizione in termini? La fede, infatti, crede perché non sa. Tra fede e sapere non c'è quindi compatibilità. Le due cose non possono convivere usurpando l'una le prerogative dell'altro. La verità, in quegli ambiti molto limitati in cui può essere raggiunta, è intollerante, perché non tollera posizioni diverse da quanto è stato accertato, come in matematica, in fisica, in biologia e in generale in ambito scientifico, ma la fede, proprio perché si fonda sulla volontà di credere e non su prove da chiunque verificabili, non può che essere tollerante. Dove per 'tolleranza' non si intende non imprigionare o bruciare chi la pensa diversamente come accadeva una volta, ma ipotizzare che chi la pensa diversamente possa avere un gradiente di verità superiore al proprio. Solo a queste condizioni può incominciare il dialogo e dar vita a quel tipo di convivenza che si chiama democrazia. Su questo tema Zagrebelsky insiste con parole chiare. E da eminente giurista non può evitare di constatare il conflitto tra l'universalità della legge e la storicità delle situazioni concrete, che non è qualcosa di sporadico o di accidentale, ma una costante che ricorre con una frequenza insospettata. Quando ad esempio nella cultura d'Occidente si proclamano i diritti dell'uomo e insieme il rispetto delle differenze culturali, siamo sicuri che il contenuto concreto di questi diritti non siano le consuetudini di noi occidentali, che potrebbero benissimo sgretolarsi a contatto con le differenze culturali di cui pure proclamiamo il rispetto? E allora solo una discussione tra le culture, al termine di una storia ancora a venire, potrà dire quali universali pretesi diventeranno universali riconosciuti. Un altro esempio di conflitto dei doveri può essere desunto dall'etica kantiana a proposito della sollecitudine per la persona e del suo equivalente morale che è il rispetto. Che ne è di quest'etica in ordine alla donna nei primi mesi di gravidanza e in ordine al morente nelle sofferenze della sua agonia? Che ne è della rispettiva angoscia e delle regole morali e giuridiche indifferenti a queste situazioni di angoscia? Che etica deve qui entrare in azione: il rispetto della persona o il rispetto della regola? Kant ci ricorda che la morale è fatta per l'uomo e non l'uomo per la morale. Un'espressione questa che ricalca quella di Gesù là dove dice che il sabato è fatto per l'uomo, non l'uomo per il sabato. Nei casi citati solo l'etica del dubbio invocata da Zagrebelsky si solleva all'altezza della questione, che non consiste nel decidere se abortire o meno, se praticare o meno l'eutanasia, ma nel decidere tra doveri che meritano entrambi rispetto e attenzione, perché ciascuno di essi è confortato da potenti e fondate motivazioni etiche. E siccome non vi è regola per decidere tra le regole, per questo e non per altro occorre un dialogo senza pregiudiziali in cui, tra regole che appaiono entrambe giuste, si cerca di reperire quella equa. Questo oltrepassamento della legge in nome dell'equità è stato teorizzato e discusso da Aristotele in quei numerosi passi dell'Etica a Nicomaco dove si introduce il concetto di saggezza pratica o phrónesis, che è quella forma di saggezza legata all´applicazione della norma in situazione, là dove la situazione si rivela decisamente più complessa della semplicità con cui la norma universale è formulata. Scrive infatti Aristotele: 'Tra i discorsi che riguardano le azioni, quelli universali sono i più vuoti, e quelli che riguardano i casi particolari sono i più veritieri, e, dato che le azioni riguardano i casi particolari, è necessario adeguarsi ad essi'. Qui l'etica del dubbio, che commisura la norma universale con le situazioni particolari, fa un servizio alla verità maggiore di chi, in nome della verità o dei principi, applica la norma prescindendo dalle situazioni concrete che spesso mal si attagliano all'universalità della legge, la cui applicazione sarebbe senz'altro corretta e non soggetta a obiezioni, ma fondamentalmente ingiusta. 'E' necessario, scrive Zagrebelsky, che tutte le convinzioni e le fedi più radicate, cessino di essere verità e si trasformino in opinioni quando diventano pubbliche nel rapporto degli uni con gli altri'. Senza questa capacità di trasformazione non si dà il dialogo, così spesso retoricamente invocato, e tanto meno democrazia. Del resto lo stesso Jacques Maritain, il filosofo cattolico a cui spesso faceva riferimento Paolo VI, distingueva la fede, campo della verità dogmatica, dalla politica che è il campo del possibile. E questo anche in omaggio alla risposta che Gesù rese a Pilato. 'Il mio regno non è di questo mondo'. Ma forse proprio qui si incaglia il cristianesimo che guarda alla 'città celeste', e perciò assegna allo Stato che governa la 'città terrena', non la realizzazione del bene, ma la semplice limitazione delle condizioni che possono ostacolare il destino ultraterreno, dove l'individuo, e non la comunità, trova la sua autorealizzazione. Ma là dove la realizzazione individuale viene distinta dalla realizzazione sociale, etica e politica si separano, al punto che Rousseau può dire: 'Il cristiano non può essere un buon cittadino. Se lo è, lo è di fatto, ma non di principio, perché la patria del cristiano non è di questo mondo'. Quando i cristiani e in generale tutti i detentori di una presunta verità assoluta riusciranno a convincersi che la politica e l'etica civile che ne deriva non sono la semplice applicazione delle proprie radicate fedi o convinzioni, ma mediazione tra fedi, convinzioni, opinioni, norme e concrete situazioni? Per accedere a questa, che è poi la condizione della vita democratica, non c'è altra via se non quella che Zagrebelsky chiama 'etica del dubbio', l'unica che fa onore alla verità che nessuno possiede, perché, di epoca in epoca, la verità si trova sempre per via." (da Umberto Galimberti, Le ragioni del dubbio. Per una morale a misura d'uomo, "La Repubblica", 03/03/'08)

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