venerdì 4 novembre 2011

Il segreto dei classici nel mondo di George Eliot


"Cos'è un classico? mi sono chiesta via via che mi inoltravo, con un godimento che provo ormai raramente, nella lettura delle 621 pagine di Adam Bede, il romanzo di George Eliot (Castelvecchi), che l'autrice scrisse nel 1859 e cui fecero seguito, in poco più di un decennio, capolavori come Il mulino sulla Floss e Middlemarch.
Il classico è ciò che si caratterizza per la sua inattualità o per la sua infinita contemporaneità? Ci svela qualcosa di non reperibile altrove o al contrario trattiene il sedimento universale dell'esperienza umana?
Nel Canone Occidentale, in polemica con le aperture inclusive del multiculturalismo contemporaneo, Harold Bloom colloca la scrittrice inglese George Eliot (nata Mary Ann Evans) nel cuore dell'età democratica, insieme a Dickens e Tolstoj. Ne ammira la forza cognitiva, la capacità di penetrazione psicologica, l'immediatezza come moralista. Prima di lui, l'avevano ammirata Dickens stesso (intuendo per primo che dietro lo pseudonimo virile si nascondeva una donna), e Henry James (per la generosità nel guardare le cose e lo sforzo di illuminare gli spazi bui della coscienza umana). Tutti questi elementi colpiscono in effetti ancora oggi il lettore di Adam Bede. Ma bastano a spiegare il fascino di una prosa così lontana dal gusto attuale? Oggi il semplice sospetto di un autore che moraleggia, pensa e giudica risulta intollerabile; l'accuratezza di una narrazione rigogliosa di descrizioni, personaggi, ambienti, idee, si ritiene quasi un difetto. Di Eliot si celebra più facilmente la biografia non conformista, la scelta coraggiosa di dedicarsi agli studi, la religiosità dissidente, la scandalosa convivenza col filosofo Lewes, il matrimonio con un uomo vent'anni più giovane. Ma è come scrittrice, invece, che Eliot ci stupisce ancora, e di questo voglio parlare. La trama di Adam Bede potrebbe scoraggiare: è la storia di un'infanticida. Crediamo di sapere tutto di questo argomento, di cui la cronaca peraltro si è occupata ossessivamente nell' ultimo decennio. E sull'infanticidio in età moderna, cos'altro si potrebbe aggiungere dopo il magnifico Dare l'anima di Adriano Prosperi? Qualche ricostruzione di un crimine specifico, forse - che ci insegni come la morale cattolica in Italia abbia consentito in tempi più recenti una singolare mitezza nella pena comminata alle infelici che uccidevano i propri figli per (dis)onore. Eppure, chi comincia a leggere Adam Bede non lo abbandona. E scoprirà che le pagine della fuga disperata della giovane donna incinta, il suo vagabondaggio tra locande e campagne per tentare di nascondere e insieme di dimenticare ciò che la angoscia, restano una delle più penetranti descrizioni dello smarrimento della coscienza che siano mai state scritte.
All'origine del romanzo c'è un brutale caso di cronaca nera. Nella città di Nottingham, nel 1802, mentre l' Inghilterra si accinge a firmare la pace di Amiens che mette fine (temporaneamente) alla guerra con la Francia, una giovane donna di nome Mary Voce perde la sua personale battaglia contro la miseria, la paura della società, l'orrore della propria vita. Moglie di un muratore emigrato altrove, Mary avvelena con l'arsenico la figlia di sei settimane. Scoperta, viene processata e - anche se si proclama innocente - viene condannataa morte. In carcere, la visitano pii metodisti, uomini e donne, che tentano di riconciliarla con Dio e con se stessa, ammettendo l'infanticidio e affidandosi al Signore. Le cronache del tempo raccontano che essi riuscirono: la sventurata confessò e si convertì, pianse e benedisse il suo destino. Insomma, fece una "morte felice". Il 16 marzo fu impiccata. Dopo la dissezione, i suoi resti furono esposti al pubblico in modo da dissuadere altre madri sole dall'imitarla. Una delle metodiste che avevano convertito in carcere la madre assassina era la zia di George Eliot. Questa storia vera di morte e redenzione divenne - più di 50 anni dopo - un potente romanzo sull'amore e sul perdono. Eliot mantenne la distanza temporale dagli eventi: il distacco dal presente conferiva alla vicenda un sapore "storico", rendendola esemplare. Trasformò la zia nella soave vergine predicatrice Dinah e l'assassina nell'incantevole, frivola e ingenua Hetty. Ma soprattutto rovesciò la prospettiva. Mise al centro un uomo innamorato, un falegname, Adam Bede. Era una scelta polemica, e artistica. Eliot detestava la letteratura femminile a lei contemporanea - evasiva e consolatoria. Ma non si limitò a distruggerla in un pamphlet (Silly Novels by Lady Novelists). La cancellò scrivendo un romanzo realista, ambientato in un villaggio qualunque della campagna inglese, il cui protagonista era un giovane dalle mani callose su cui le sue lettrici e i suoi lettori non avrebbero mai altrimenti abbassato lo sguardo, un artigiano devoto al suo lavoro e alla fatica: insomma, un anti-eroe. E costruì intorno a lui un mondo intero, popolato di calzolai, maestri di scuola, preti imperfetti e comprensivi, aristocratici sventati, lattaie, fattori, domestiche, giardinieri. Una commedia umana talmente credibile che, pur narrando di una religiosità metodista che ci è estranea, di sentimenti che i cambiamenti morali e sessuali hanno reso obsoleti, ci riguarda ancora. Eliot ti afferra con la bellezza delle parole, con la verità dei personaggi che racconta, e non ti lascia più. Le perdoni le prediche religiose di Dinah, l'innocenza di Seth, le lamentele della signora Bede e le chiacchiere della loquace signora Poyser (peraltro due personaggi perfetti: chi riuscirebbe a ritrarre meglio una madre così odiosa e una moglie così petulante?). Raccontandoti di gente immaginaria e remota, ti sta parlando, in realtà, del mondo in cui vivi - e di te. E conosci benissimo la signora Poyser, la signora Bede, perfino Dinah, anche se non portano il busto e il cappellino da quacchera. Forse la risposta alla domanda sta proprio qui: classico è ciò che diventa contemporaneo. Come scriveva Giuseppe Pontiggia, siamo noi a doverci fare contemporanei dei classici: non li leggiamo per la ricchezza del loro pensiero, ma per la potenza del linguaggio e dello stile, per il piacere dell'autore che si comunica al lettore - perché la lettura di un classico è un'esperienza, radicale, di felicità. Giuseppe Pontiggia, deridendo il vizio del Giudizio Universale dei critici contemporanei, diceva che dal canone ci salverà solo il suo passaggio, ma sui classici ha scritto parole necessarie." (da Melania Mazzucco, Il segreto dei classici nel mondo di George Eliot, "La Repubblica", 04/11/'11)

Perche' leggere i classici

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