sabato 5 novembre 2011

De Cataldo: “Sono malato di Comédie: merci Balzac”


"Nella casa di Giancarlo De Cataldo, giudice e scrittore, la collocazione dei libri risponde a un criterio geo-politico-familiare. Ci sono due librerie: «Quella nel mio studio, in cui nessun altro mette mano, divisa in due parti: libri volatili e libri che restano, consultati continuamente, dagli studi sul nazismo magico all’antropologia culturale, dalla filosofia alla storia delle religioni. Invece nel soggiorno c’è la libreria di famiglia, con i libri importanti. La gestisce mia moglie, avvocato, secondo il criterio “nome della rosa”, per aree geografiche».
La prima è agitata, la seconda ordinata. L’ultimo libro del padrone di casa, il saggio In giustizia (Rizzoli) potrebbe stare in entrambe. Nella prima per gli «appunti di lavoro presi strada facendo», nella seconda per le riflessioni sui temi di attualità. Una difesa appassionata e ragionata del ruolo del giudice. Tè affumicato e pasticcini al cacao sono posati su pile di libri che occupano l’intero tavolino di fronte al divano in pelle nera. La mattinata romana illumina le copertine. «Ne arrivano tanti, cerco di dare un’occhiata a tutti. Ma non sono mai come quelli comprati. I libri mandati dagli editori non possono sostituire il piacere di andare per librerie, di scoprire i titoli. Io vado dappertutto. Bibli, Rinascita quando c’era, Arion, le Feltrinelli Colonna e Argentina, la Mondadori a Cola di Rienzo. A Trastevere ero un habitué della Minimum Fax. Ho una passione per la piccola meravigliosa libreria artigianale “Il Seme” in via Monte Zebio, dietro piazza Mazzini. Mi piacciono le librerie di provincia, in cui i librai sono ancora un punto di riferimento».
Come seleziona i libri che arrivano? «Ho gusti eclettici. Mi piacciono molto i saggi con una forte valenza narrativa».
Saggistica pura? «Dipende. La speculazione pura mi affascina, i pamphlet non più di tanto, specialmente se a tesi. Basta la recensione».
Gusti stilistici? «Non amo il minimalismo, diffido delle furbizie che ormai riconosco. Il racconto deve essere vasto, abbondante, con conflitti e caratteri forti messi in scena. Mi sono innamorato del Passo del cordaio di Mimmo Gangemi, che considero una mia scoperta e ne vado orgoglioso».
I libri dei colleghi li legge? «Tra i romanzi c’è Carofiglio. Sono stato uno dei primi a leggere in bozze il suo esordio, Testimone inconsapevole. I suoi libri mi piacciono, anche se abbiamo scritture diverse. Siamo diversi. Penso alla visione della vita e dei rapporti uomo-donna. Ci muoviamo in aree narrative differenti».
E i saggi? «Non tutti. Ricordo Diario di un giudice di Dante Troisi, che negli Anni '50 passò guai disciplinari inenarrabili, perché entrava nella camera di consiglio e rompeva una separatezza, raccontando la sottile sofferenza che lega giudice e imputato: può sembrare retorica o buonismo, ma è compassione. Mi è piaciuto Ne valeva la pena di Armando Spataro: emerge una grande forza di difesa democratica. Mi ha fatto pensare che talvolta c’è una dicotomia inaccettabile tra come appari e come sei. A me sembra una persona equilibrata, ma lo attaccano considerandolo un pazzo. Talvolta dipende dal tipo di inchiesta che ti capita tra le mani, che risonanza mediatica ha ...».
I libri a sfondo giudiziario e le trasmissioni tv sui casi di cronaca hanno cambiato il vostro lavoro? «Ogni tanto capita che in camera di consiglio si alzi un giudice popolare dicendo: abbiamo fatto la prova del Dna? E magari in quel caso non serve.
Prezzi ineluttabili da pagare alla democrazia».
La invitano mai in tv? «L’unica volta che sono andato a parlare di giustizia, mi sono ritrovato a discutere di singoli casi con lo psicologo, la criminologa ...
Allora mi sono chiuso sulla difensiva. Fate pure, ma da soli. I delitti che appassionano l’opinione pubblica ci sono sempre stati. Oggi c’è la tv che ce li racconta in modo ossessivo, un secolo fa c’erano i feuilleton. E’ un moto spontaneo che non si può nascondere. Sono un libertario, ciascuno scelga per sé. Io ai plastici
in tv preferisco quella poltrona, un sigaro e un libro».
Ora che cosa sta leggendo? «Indigestione di gialli svedesi. Sto finendo la vecchia serie di Sjöwall e Wahlöö, quella degli Anni 70. Ho una passione particolare per quel modo di raccontare. Poi un saggio sulla storia giudiziaria di Ludwig in uscita
da Dalai, un true crime e l’ultimo romanzo di Scurati, La seconda mezzanotte, che mi è piaciuto moltissimo».
E il prossimo? «Guarda caso: è appena arrivato il nuovo di Carofiglio».
I libri sui casi di cui si occupa come giudice? «Dipende. I libri sulla Magliana
sì, quelli di Lupacchini e Bianconi sono fatti molto bene. I libri sul terrorismo anche. Quelli sul delitto Marta Russo no, non mi hanno incuriosito».
La casa piena di libri testimonia un lungo amore, un’infatuazione recente o una deformazione professionale? «Sono sempre stato un malato di lettura, grazie ai miei genitori professori. In casa si respiravano libri. Mia madre studi classici,
tradizionalista, mio padre appassionato di avventura, mi ha passato Salgari, il mio primo grande amore. E quando ero un po’ snob, mi suggerì Come una bestia feroce di Edward Bunker, che in Italia non era ancora conosciuto, perché dentro quella letteratura aspra, acida, di strada c’era la vita, mi diceva. A mio padre devo anche Balzac, Flaubert, la grande letteratura dell’Ottocento».
E il giovane snob De Cataldo che cosa leggeva? «Avanguardia. Gruppo ‘63. Poeti
americani. E rocker. Questa passione per i testi del rock mi è rimasta. Ho tradotto le poesie di Leonard Cohen».
Poesie, ne ha mai scritte? «No. Lo giuro: mi proclamo innocente».
I pilastri della formazione giuridica? «All’università ero affascinato dal diritto romano, alla Sapienza c’erano le dispense di Riccardo Orestano. Poi le Nozioni di teoria generale del diritto di Francesco Santoro Passarelli, grandi testi che andrebbero scolpiti nella testa degli studenti di giurisprudenza. Più cresce il sapere tecnico tanto meno si studia il senso della norma. Alleviamo giovani tecnicamente preparatissimi, madesolatamente incapaci di fare due più due. Infine la procedura penale di Franco Cordero, che ammiro molto in quanto uomo rinascimentale:
romanziere, giurista, saggista, polemista. Mi piace l’idea di giocare su più tavoli».
Saggi «non volatili»? «Tra le mie fonti irrinunciabili c’è Vita di Giuseppe Garibaldi di Jessie White Mario, seconda edizione del 1891, e una rara edizione
dell’Uomo delinquente di Lombroso con le tavole originali e le statistiche su nasi e tette delle delinquenti».
Non mi dica che consiglia Lombroso a un aspirante magistrato. «Anche per i suoi tempi era per lo meno azzardato. Ma lo consiglierei ugualmente per due ragioni: l’attenzione all’uomo delinquente che non deve mai venire meno e la curiosità di indagare scientificamente».
E i romanzi «non volatili»? «Delitto e castigo, che è uno dei livre de chevet. Porfirij Petrovic era il mio idolo da ragazzo: intelligente, capace di usare il delitto per indagare la complessità umana, qualcosa di maledettamente complesso e affascinante. Dostoevskij passava la vita in tribunale. In Diario di uno scrittore ci sono pagine bellissime. Resurrezione di Tolstoj, che nasce da un fatto vero. E infine il grande dittico di Balzac: Illusioni perdute e Splendori e miserie delle cortigiane con la straordinaria figura del giudice Camusot, contraltare di Lucien de Rubempré. Il fascino dell’imputato: altro che i plastici del delitto in tv. Io sono malato di commedia umana, devo tutto a Balzac. L’idea della coralità dei personaggi che scompaiono e riappaiono, i tipi umani ... per me sono tutto».
Il libro che non è mai riuscito a finire? «La recherche. Rivendico il diritto a non amare Proust: amo Joyce, Kafka, Mann, ma per la miseria! Non sono mai riuscito ad andare oltre la quarantesima volta che lui si rigira tra le lenzuola aspettando il bacio della madre».
Come mai non c’è un Calamandrei al contrario, un giudice che scriva l’elogio degli avvocati? «Buona idea, potrei cominciare a pensarci»." (da Giuseppe Salavaggiulo, “Sono malato di Comédie: merci Balzac”, "La Stampa", "TuttoLibri", 05/11/'11)

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