martedì 29 novembre 2011

Che cosa non e' una biblioteca


"La Domenica del Sole 24 ore del 20 novembre si è occupata, sulla carta e on line, di biblioteche. Non a caso, visto che tra il 17 e il 19 novembre si è tenuto a Roma il 57° congresso nazionale della Associazione Italiana Biblioteche con il titolo Il futuro in biblioteca, la biblioteca in futuro. Sul giornale leggiamo dunque una perorazione del Presidente della predetta Associazione in favore degli istituti che rappresenta e, in generale delle altre strutture che hanno a che fare con testimonianze di cultura, come i musei e gli archivi, minacciati nella sopravvivenza dai tagli che, con maggiore o minore virulenza, hanno posto in essere ogni governo e la maggior parte della amministrazioni locali che si sono succeduti negli ultimi e non ultimi anni. Nella generale depressione risultano specialmente colpite le biblioteche, che manifestano i segni di un acuto marasma identitario scatenato in primis dalla rivoluzione digitale, quindi dalla potenza del web e conseguentemente dalla nascita e diffusione degli e book. Insomma, si profilano, a dir la verità non da oggi, i termini di una questione che potrebbe ricadere in una istituenda "filosofia della biblioteca": un pensare su se e come sia possibile una biblioteca oggi.
Dovrebbe essere ovvio considerare il fatto che quando si parla di una biblioteca si allude a un oggetto culturale complesso, molto variabile per storia, forma, contenuto, dimensioni, finalità, ragione sociale, etc.; insomma la biblioteca può essere declinata in molti modi, anche se, per non infrangere del tutto il principio di non contraddizione, dovremmo essere in grado di trovare un elemento comune alle variabili, di modo che parlare del venerando istituto non significhi discutere di un ombrello o di una locomotiva, o di arredamento. Mi viene naturale, a questo punto, citare brevemente i termini di una piccola discussione innescata da Marino Sinibaldi, che ha trascorsi bibliotecari, nel luglio 2009 nelle pagine della versione on line della rivista il Mulino. L'intervento, dal titolo "Che farsene delle biblioteche?", prendeva lo spunto dal libro di Antonella Agnoli Le piazze del sapere. Biblioteche e libertà (Laterza, 2009) per esprimere qualche perplessità sulla tesi che in biblioteca si possa fare di tutto un po', riassunto in epitome dal motto "imparare dai supermercati". «Cosa c'entra tutto questo con le biblioteche e la lettura?», era l'obiezione di Sinibaldi che comunque non sottovalutava l'aspetto relazionale di queste strutture, utili per contrastare, tra l'altro,una certa contrazione della mobilità sociale. Veniva poi accolto dalla rivista un mio intervento, ripreso successivamente nella lista di discussione on line della Associazione Italiana Biblioteche, in cui scherzavo un po' sullo "specifico bibliotecario", come un tempo si faceva per il cinema: mi pareva che la biblioteca potesse essere vista ovviamente come un centro di vita culturale, con tratti peculiari comunque riferibili alla sua storia ai suoi contenuti: nello stesso tempo, rubando l'espressione da una relazione tenuta nel congresso mondiale delle biblioteche di quell'anno proponevo l'espressione inglese "hub", in uso negli aeroporti e in informatica, per indicare uno spazio di scambio e di relazione culturale: hub si può tradurre con "perno" o snodo che si vorrebbero al centro della vita comunitaria, o per usare una espressione adottata da Umberto Eco qualche tempo prima in un discussione sulla paideia contemporanea, un "metanodo", ossia un luogo di convergenza e scambio di conglomerati di saperi.
Chiudeva (provvisoriamente) la discussione, sempre sullo stesso Bollettino AIB. Giovanni Solimine, biblioteconomo e direi filosofo della biblioteca, ritornando sullo "specifico bibliotecario" e richiamando l'esempio del barbiere, già adottato da Agnoli e Sinibaldi (fonte Ray Oldenburg), cioè della bottega dove si va per tagliarsi i capelli ma anche, certo, per conoscere la vita del quartiere, fare pettegolezzi; però «i barbieri hanno un loro "specifico": senza forbici e rasoio chi andrebbe dal Barbiere?». E più avanti, «se la biblioteca è "poco biblioteca" e "molto pub" per quale motivo i giovani dovrebbero venire da noi e non andare in un pub vero?». Concludeva poi con un riferimento agli Idea Stores cioè quelle biblioteche polivalenti di cui il quartiere londinese di Tower Hamlets offre un ottimo esempio, ricordando che lì «c'è innanzi tutto una biblioteca coi fiocchi (per dimensioni e qualità), e poi anche tutto il resto».

Mi immagino, ma forse mi sbaglio, la risposta della Agnoli: con la rete non c'è più bisogno di biblioteche, ossia di luoghi che raccolgano, organizzino, diffondano, studino, discutano, testimonianze di cultura: vedo infatti annunciata una sua conferenza a Campobasso dal titolo Le piazze del sapere: con o senza libri.
La pulsione apparentemente radicale della Agnoli è messa in evidenza proprio nel suo intervento su Domenica del Sole sopra richiamato: sotto il titolo Homeless in biblioteca, l'autrice esordisce evocando il caso della biblioteca comunale di San Diego (California) dove alla chiusura si assiste alla fuoriuscita degli homeless, esempio di come «la biblioteca è diventata un'ancora di salvezza» non solo per la fornitura di tradizionali servizi bibliotecari, di tipo culturale e informativo.
Si conclude, lapidariamente che le «biblioteche non hanno un futuro se non sociale e devono ormai essere viste come parte di un moderno sistema di welfare».
Dire che una biblioteca è un servizio sociale mi pare da una parte una ovvietà, dall'altra una mistificazione in cui non si fa più distinzione tra conoscenza e carità, tra una biblioteca che raccoglie la storia e la tramanda e un'altra che svolge l'utile compito di prestare libri, digitali e non, in vista della loro lettura, magari in un luogo che, proprio perché pubblico, dovrebbe garantire quelle condizioni di tranquillità che rendono possibile la lettura, spesso difficoltosa tra le mura domestiche.
Invece mi viene in mente il racconto di David Lankes, professore nella Università di Syracuse, che riprendo sempre dalle stesse pagine on line del Sole: «in Kenya stanno costruendo biblioteche pubbliche in tutto il Paese, nelle aree rurali come nelle città. Dove le comunità sono troppo distanti perché vengano eretti degli edifici, hanno costruito carri per i libri – 5000 libri in un carretto di legno trainato da asini. In aree ancora più remote nel nord del paese, vengono caricate sul dorso dei cammelli casse e tende. Nei villaggi, i carri vengono aperti, e vengono montate le tende per consentire ai bambini e ai genitori di venire a studiare». Dunque studio, lettura secondo una prospettiva in cui il bibliotecario, oltre ad essere un catalogatore, è un uomo che ha rapporto con la comunità in vista della sua tutela; attraverso la conoscenza, come le donne di Alessandria d'Egitto che formano una catena umana per difendere la rinata mitica biblioteca dai predatori confusi tra la folla della piazza in rivolta nello scorso gennaio.

I bibliotecari, come dice Stefano Parise, una volta che tutto sarà in Internet, «quando la biblioteca di Babele sarà interamente digitalizzata [...] possono diventare i cartografi dell'era dell'informazione in rete» dopo essere stati gli umanisti / amanuensi digitali.
In definitiva, in tanti modi si può dire la biblioteca, e fra questi, credo, quello di essere un luogo di studio e conoscenza, non l'unico, ma si spera, il più libero. E poi, siamo in Italia, dove la memoria è conservata in tante istituzioni ricche di storia e bellezza: non mi pare un particolare insignificante." (da Marcello Di Bella, Che cosa non e' una biblioteca, "Il Sole 24 Ore", 26/11/'11)

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