mercoledì 27 gennaio 2010

Ci vediamo a casa, subito dopo la guerra di Tami Shem - Tov


"Nell'orrore dell'Olocausto, Ci vediamo a casa, subito dopo la guerra (Piemme), la storia raccontata da Tami Shem-Tov ha un miracoloso lieto fine proprio come lo ebbe, nella realtà, la vicenda di Jacqueline, una bambina ebrea di dieci anni sfuggita alla Shoah grazie alla rete della Resistenza e al coraggio di una famiglia cristiana che la tenne nascosta sotto la falsa identità di Lieneke. Suo padre, veterinario e uomo di scienza dall'innato talento artistico, riuscì in quel periodo buio e traumatico a dialogare con sua figlia attraverso lettere costellate di disegni colorati e d'amore. Si firmava zio Jaap e, con quella corrispondenza segreta, ossigeno e viatico per la bambina, riuscì a farle sentire sempre il suo amore aiutandola a superare il freddo, la paura e la lontananza da casa.
1943, nell'Olanda occupata vigono da tempo le leggi razziali e si va verso la tragedia. Chi può fugge e a Jacqueline e a sua sorella Rachel i genitori spiegano che è necessario separarsi e che, da allora, si dovrà fare "il gioco dei nomi". Lei lascerà il suo, andrà a stare in un'altra famiglia, lontano da Utrecht e non dovrà mai rivelare chi è veramente. Né che suo padre è il vero autore delle lettere che le riempiono il cuore e che lei si beve al riparo da tutti gli sguardi. Nella casa che la ospita, in un villaggio remoto, la piccola Leneke passa il tempo aiutando il dottor Kohly e sua moglie a preparare le medicine nel retro della loro farmacia, ma spesso si sente triste e sola. Manda a memoria le lettere di papà; è l'unico modo per tenerle con sé visto che poi le deve consegnare a "zio" Kohly che è costretto a distruggerle. Nessuno le deve trovare, nessuno si deve insospettire. Chi nasconde un ebreo, viene passato per le armi, senza se e senza ma. Allora lei le legge e rilegge per, infine, mormorare un tenero e consolatorio: "Ci vediamo a, casa, subito dopo la guerra." E così accade davvero. Scampata all'Olocausto, la famiglia si trasferisce in Israele. E, dopo oltre sessant'anni, Tami Shen-Tov, israeliana, giornalista e scrittrice affermata, raccoglie la testimonianza di Jacqueline-Lieneke, vola con lei in Olanda a caccia di memoria e ci regala un romanzo struggente che ricorda la vena poetica di La vita è bella.
La storia di Lieneke è vera, chi era quella bambina?
'Naturalmente ci sono delle differenze tra la protagonista del libro e la ragazzina della vita vera. Ci vediamo a casa subito dopo la guerra è un romanzo e non una biografia ma, quando ho incontrato Lieneke, ho ascoltato le sue memorie e il modo in cui rievocava le sue vicende e ho parlato di lei con altre persone. Ho capito molto velocemente che tipo di ragazzina fosse perché in qualche modo, da ragazza, anch'io ero come lei. E infatti dopo aver letto il libro, Lieneke mi ha detto che io ero stata la prima persona al mondo ad avere davvero capito chi lei fosse stata. Era una "goody goody", una bambina che voleva piacere, con moltissima immaginazione (nella vita come nel libro, tanto che a volte raccontava le storie ai cassetti del comodino e la sorella le diceva "Smettila di parlare con i mobili!") e comunque era una bambina molto riflessiva. Quindi mi sono potuta ritrovare profondamente in lei. Lieneke è molto vicina a come poteva essere Jacqueline ma, ovviamente, il mio è un romanzo e dentro c'è anche un po' di me. E' davvero come se la Lieneke del libro fosse un'emanazione delle nostre due esperienze di vita'.
Quanti bambini/bambine vennero all'epoca esiliati e nascosti all'estero sotto falsa identità?
'Per me è difficile azzardare dati precisi sul fenomeno, non sono una storica né una ricercatrice e ho scelto di affrontare il tema della Shoah partendo da una piccola storia che sta dentro alla "Grande Storia". Tuttavia il fenomeno era piuttosto diffuso in Europa, in Olanda in particolare sono stati migliaia i bambini nascosti sotto falsa identità da famiglie del luogo, prevalentemente di religione cattolica. Queste famiglie correvano peraltro rischi altissimi in quanto la parte del Reich che occupava l'Olanda offriva ricompense economiche a chi denunciava le persone che ospitavano fuggiaschi e, inoltre, se veniva scoperto un ebreo nascosto all'interno di una famiglia, tutti gli abitanti della casa venivano immediatamente e pubblicamente uccisi. Chi decideva di correre questo rischio lo faceva soprattutto per spirito di solidarietà cristiana e accadeva spesso che si creassero legami fortissimi con i piccoli protetti. In alcuni casi è perfino successo che, dopo la guerra, gli ospitanti si rifiutassero di aiutare il bambino a ricongiungersi con le proprie famiglie di origine'.
Nella tragedia della Shoah, un lieto fine ... Perché questa scelta?
'Questa è una storia vera e fortunatamente la vicenda di Lieneke si è davvero risolta positivamente. E sono stata molto felice di poter scrivere un libro sul tema della Shoah che potesse prestarsi a un messaggio positivo. Per me era importante enfatizzare l'eroismo, la solidarietà e la bontà dell'animo umano anche in un periodo buio come quello del regime nazista. Non ho voluto, infatti, affrontare l'argomento attraverso l'orrore dei campi di sterminio, il dolore, le torture. Inoltre io tendo a identificarmi molto con i miei personaggi e non credo sarebbe stato possibile immergermi nella realtà di un campo di concentramento; sarebbe stato un coinvolgimento emotivo troppo forte, per quanto sia stato spesso duro identificarmi nella stessa Lieneke in certi passaggi molto delicati del libro ...'." (da Silvana Mazzocchi, Sogno di una bimba nell'orrore. A casa, dopo l'Olocausto, "La Repubblica", 27/01/'10

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