lunedì 4 luglio 2011

Scrittura come libertà, scrittura come testimonianza

'Se si escludono istanti prodigiosi e singoli che il destino ci può donare,
l'amare il proprio lavoro (che purtroppo è privilegio di pochi)
costituisce la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra.'
Primo Levi, La chiave a stella (Einaudi)


"'Quanto il Signore ha ordinato, noi lo faremo e lo ascolteremo'. Così assicura il popolo di Israele a Mosè appena sceso dal Sinai con la Torah. Il chiasmo con cui si chiude la frase, quel fare che, contro ogni nostra attesa precede l'ascoltare, non è certo pura figura retorica né frutto di una svista. Secondo la tradizione ebraica, solo facendo, mettendo in pratica gli insegnamenti e i precetti religiosi, diviene possibile ascoltarli, e cioè comprenderli fino in fondo. La religione è dunque azione e non dogma, esercizio quotidiano, prassi che conduce verso il dominio intellettuale. Per due millenni, il giudaismo rabbinico è restato fedele al primato dle fare. 'Fare' i comandamenti, e non semplicemente enunciarli discorsivamente, questa è da sempre la via maestra della pietas ebraica.
Ma se la religione viene meno, o attenua il proprio dominio sociale, cosa rimane di questo pragmatismo? E' possibile trovare tracce dell'inversione tra teoria e azione anche nel giudaismo laico, o nelle identità marginali? E, in particolare, cosa succede in letteratura? Sergio Parussa (Scrittura come libertà, scrittura come testimonianza, Giorgio Pozzi editore) rilegge la parabola creativa di quattro autori italiani di origine ebraica - Umberto Saba, Natalia Ginzburg, Giorgio Bassani e Primo Levi - proprio alla ricerca di una scrittura-gesto, che si compia laicamente come si compiono, in religione, i precetti.
Sono nomi di prima grandezza e tutti, in vario grado, partecipi di una lacerazione esistenziale. Certo, le biografie dei quattro solcano il secolo scorso in maniera molto diversa, ma la cesura delle leggi razziali, della discriminazione, della persecuzione e del nascondimento è per tutti evidente e dolorosa. Allo stesso tempo, in ciascuno vi è molto altro, che non si lascia ridurre a un comune denominatore. Tra Saba, che si avvicinò in tarda età al cattolicesimo, e Primo Levi, testimone di Auschwitz, oppure tra la Ginzburg, col suo impegno nel Pci e Bassani, prima vicino al Psi e poi ai Repubblicani, passano inconciliabili idiosincrasie, politiche, intellettuali, e di stile. Eppure è innegabile che, per tutti, l'ebraicità cositutisca una sorta di reagente, un elemento che genera scrittura, un fermento di inquietudine, di negazione, di spaesamento o, al contrario, di redenzione dal destino individuale e collettivo.
E' celebre la definizione che Levi diede del proprio essere ebreo: 'Sono io l'impurezza che fa reagire lo zinco, sono il granello di sale e di senape'. E proprio questo predicato di 'impurezza', di ibridazione è secondo Parussa, un primo fattore di gestualità letetraria. [...]" (da Giulio Busi, 'Salvati' dalla letteratura, "Il Sole 24 Ore Domenica", 03/07/'11)

1 commento:

Anonimo ha detto...

Interessante citazione