lunedì 11 luglio 2011

La prima versione di Emma W.


"Non conosco la brama del collezionista. Sono piuttosto un'artista nell'atto opposto, quello di perdere - nell'arte del perdere sono un fenomeno.
Eppure, mi trovassi nei paraggi, giovedì 14 luglio sarei da Sotheby's, a Londra, a vedere battere all'asta il manoscritto di The Watsons di Jane Austen, sessantotto pagine vergate a mano in una calligrafia squisita, minuta, precisa, dalla scrittrice inglese tra le mie preferite nella top ten. Le prime dodici pagine del medesimo manoscritto si trovano alla Pierpoint Morgan Library di New York, insieme a Lady Susan, un lavoro giovanile. Due capitoli di Persuasion sono presso la British Library. Mentre al King's College, Cambridge, riposa il frammento Sanditon. Ricordo ancora l'emozione di quando anni fa un bibliotecario gentile me lo mostrò. Mi sembrò di avvicinare il mistero della scrittura austeniana: come se la magia della creazione avesse a che fare anche con quei segni - quasi geroglifici, per chi oggi non ricorre al gesto materiale di intingere una penna nell'inchiostro. Dalle cancellature mi pareva di intuire le esitazioni, i ripensamenti, dalle incertezze dello spelling capivo la fretta.
Non sopravvive manoscritto nessun romanzo intero di Jane Austen, ma io mi accontenterei di questo; anzi, tra gli oggetti da collezionare l'oggetto incompiuto mi pare, a dire il vero, il più interessante. Mi potrei mettere a studiare come completarlo. A forza di leggerlo e rileggerlo, tenendolo così in vita, mi dedicherei alla sua resurrezione. E sconfiggerei in tal modo un'interpretazione funerea del collezionismo. Nel gesto del collezionista c'è chi ha visto il tratto anale del possesso, l'avidità, l'egoismo, il gusto perverso del dominio delle cose, la gioia maligna della loro preclusione agli altri.
Lo insegna il maestro dei miei maestri, Mario Praz; il quale insiste sul suo carattere mortifero. Potessi acquistare il manoscritto, io invece lo investirei del mio erotismo e per me diventerebbe non più un oggetto d'uso né di scambio, non una merce, ma una cosa amata. Tanto più amata, perché orfana e incompiuta.
Jane comincia a scrivere il romanzo a Bath nel 1804, in un momento difficile: l'elegante e bella cittadina non le piace, stava meglio a Steventon; ma il padre George Austen ha deciso di lasciare il suo ministero e trasferirsi lì dove s'era sposato con Cassandra Leigh, da cui aveva avuto ben sei figli maschi e due femmine, Cassandra e Jane, e quando il padre decide ... A Bath Jane non scrive, mentre nel rettorato di Steventon s'era sempre molto affaccendata con carta e penna, decisa a diventare un "autore"; a fare della sua passione una professione. Mossa ardita e coraggiosa per una donna, a quei tempi. Ma Jane è ardita, è audace, intelligente, ironica, libera nella mente e nel cuore, e insieme realista, niente affatto romantica. Ha questi tratti l'eroina che affiora dalle pagine di The Watsons, che proprio qui a Bath comincia e poi d'improvviso si interrompe.
Perché? Non si sa perché.
Sappiamo dalla sorella Cassandra come sarebbe andata a finire la trama, e cioè come sempre finiscono le storie di Jane, che sono "comiche", e cioè a lieto fine. Chi salva tutto è sempre una donna che ha senno e sentimento, ragione e sensibilità. Ed è capace di persuasione sugli altri e di persuadere se stessa a cavare il meglio da una condizione che non promette libertà assolute, scelte radicali; ma apre possibilità di sopravvivenza morale; permette azioni di difesa della dignità umana, a patto che si accetti l'enorme fatica della discriminazione, della distinzione. Soprattutto la donna è a rischio nella società in cui Jane vive e che descrive. È a rischio la libertà femminile, che non è questione di quante cose possa o non possa fare una donna, ma che idea debba custodire di sé. È un oggetto di scambio? Una merce? O può emanciparsi, cioè smettere di considerarsi sotto potestà altrui? Del padre, o del marito? Chi sono i Watson? Una famiglia come tante: un padre vedovo, invalido, e quattro figlie femmine di cui una torna a casa da straniera, essendo stata allevata da una zia ricca, la quale però perde il marito, si risposa e a questo punto allontana la nipote, che senza dote né arte né parte si ritrova a pesare su un'economia famigliare assai fragile. Ecco perché in casa non si parla d'altro, se non di matrimonio. Tra le sorelle è l'unico argomento. È anche la ragione di una sotterranea competizione tra di loro. Che Emma - questo il nome della nostra eroina - disprezza, perché lei è differente. Intanto, è più colta. È meno provinciale. È stata esposta a una diversa atmosfera.
È sublime il modo in cui da piccoli tratti Jane Austen fa risaltare come è proprio nell'esperienza della vita quotidiana che si forma il carattere. Non c'è scrittore più materialista, più marxista di lei, che non parla di Napoleone né di scioperi né di schiavitù - tutti eventi reali dei suoi giorni - ma fa emergere in piena evidenza l'ingiustizia strutturale e sovrastrutturale del mondo di salotti e crinoline e carrozze e feste da ballo che descrive con impareggiabile scherno.
In particolare in questo frammento di romanzo. Ecco, ad esempio, uno scambio tra Lord Osborne ed Emma, povera ma bella e intelligente. I due sono seduti uno accanto all'altro e dovrebbero conversare e lui non sa che dire e poi dice qualcosa come: alle donne dona andare a cavallo. E lei prosaicamente risponde: non tutte hanno l'inclinazione o i mezzi per farlo. Ma se ne avessero voglia! ribatte lui, che non sa che cosa significhi «non avere i mezzi». A questo punto con pazienza Emma gli spiega che esiste una female economy, un'economia femminile che non può magicamente trasformare «a small income into a large one », un reddito esiguo in un buon reddito. In una società di classe come quella in cui le eroine di Jane Austen vivono, non d'amore si tratta, ma di patrimoni e matrimoni, che si combinano a seconda del reddito.
Spiritosa e vitale come l'altra Emma, protagonista dell'omonimo romanzo, ma non vanitosa come lei, né bugiarda; più energica di Fanny di Mansfield Park; più dinamica di Anne di Persuasione; la nostra eroina rifiuta il matrimonio per interesse. Non che non ne capisca la logica, non che idealizzi l'amore, ma questa Emma di questo romanzo incompiuto non vuole, non le va,e alla fine, secondo quanto Jane confidò a Cassandra, avrebbe declinato l'offerta dell'aristocratico lord e cercato l'amore altrove. Nel frattempo, appena può, si rifugia nella camera del padre moribondo: «Nella sua stanza, Emma riparava dalle tremende mortificazioni di una società ineguale, e dalla discordia famigliare [...]. Nella sua stanza poteva leggere e pensare».
Nella stanza del padre. Come appunto faceva Jane, che il padre sempre sostenne nella passione e nella carriera letteraria. Poi nel 1805 il padre morì e Jane interruppe il romanzo. Quella appena citata è la penultima pagina del manoscritto incompiuto. Che abbia pensato di averlo ucciso lei, perché così era previsto nel romanzo? Chissà. Comunque a queste pagine non tornò, anche se nel nome e nello spirito l'eroina di queste pagine ricompare in altre eroine e in altre pagine a venire." (da Nadia Fusini, La prima versione di Emma, "La Repubblica", 10/07/'11)

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