Biblioteca civica "MINO MILANI" bibliogarlasco@yahoo.it tel. 0382/801009 "Le paradis, à n'en pas douter, n'est qu'une immense bibliothèque" (Gaston Bachelard) SELEZIONE DI ARTICOLI SULL'UNIVERSO-LIBRO
domenica 24 luglio 2011
Non sparate sui romanzi
"Arrivato alla mia tarda età ho collezionato una serie sesquipedale di ricordi che riguardano la fine del romanzo. Trascurando gli anni in cui non sapevo ancora leggere, sono circa 74 anni che a ogni volgere di ferragosto vedo un articolo, un' intervista, una inchiesta, una discussione che coinvolge molte degne persone, sulla crisi, scomparsa, tracollo, apocalisse del romanzo (negli anni sessanta circolava la battuta "anche Pasolini pensa che il romanzo sia morto ma non lo dice per non fare dispiacere alla sua mamma"). Quindi la fine del romanzo è un poco come il mostro del Loch Ness o il tormentone "sarà l' estate più calda degli ultimi cento anni". Coloro che annunciano la fine del romanzo appartengono a quattro categorie: (I) quelli che devono sfornare una inchiesta entro il giorno dopo e vanno a cercare un'idea nelle vecchie annate del loro giornale, sapendo che non c'è nulla di più inedito del pubblicato; (II) quelli che di romanzi non sono riusciti mai a scriverne e sono stanchi di parlare solo dei romanzi degli altri; (III) quelli che romanzi ne hanno scritti, e di bellissimi (vedi il caso di Roth) e lasciano intendere che alla frase "non si scrivono più romanzi come una volta" debba seguire "... tranne i miei"; (IV) quelli che di romanzi non riescono più a scriverne, per ragioni di età o di depressione.
Per intanto bisogna capire se si sta parlando male del romanzo o della narratività in genere (Cappuccetto rosso è una narrazione e non è un romanzo). È verissimo che il romanzo nella forma in cui lo conosciamo nasce in quanto novel nel XVIII secolo, e come è nato potrebbe scomparire, ma erano testi narrativi, e svolgevano la funzione che svolgono per noi i romanzi, i poemi di Ariosto o di Tasso, i racconti cavallereschi medievali (detti appunto romance in opposizione alla novel borghese), e se oltre al romanzo pensiamo alla novella (che non è la novel, ma una short story), da Boccaccio in avanti ce n'era per tutti i gusti e vedete quanto ci ha fantasmato Shakespeare. E prima esistevano il romanzo romano e greco (pensate solo a Luciano e ad Apuleio) e prima di Apuleio scriveva bellissime storie Ovidio (spero ricorderete con tenerezza Filemone e Bauci) e prima ancora erano bellissimi romanzi i poemi come l'Odissea, e prima prima ancora, la sera sotto l'albero del villaggio, gli anziani analfabeti raccontavano i miti, e tutti a commuoversi sulla sorte di Edipo, a odiare Medea, a fremere su Proserpina, a orripilare su Saturno, come tante madame Bovary dell'epoca.
Insomma, stiamo celebrando la fine del romanzo nella forma inventata da Richardson e Defoe? E può anche darsi, ma allora il romanzo è finito dai tempi di Joyce e persino Roth è come un patetico reazionario che si ostini oggi a scrivere un poema cavalleresco in ottave. O stiamo parlando della pulsione narrativa (bisogno di narrare e di ascoltare narrazioni) e allora la "funzione fabulatrice" è fondamentale nell'essere umano almeno quanto l'istinto sessuale, salvo che può assumere le forme più varie, persino quella del film o della telenovela. È possibile che il bisogno di narratività venga soddisfatto da infiniti nuovi mezzi elettronici ma mi chiedo da dove vengano allora quei milioni di persone che ancora acquistano romanzi. Certo, si può rispondere che tutti sono pessimi romanzi e che la gente li legge per gli stessi motivi per cui guarda L'Isola dei famosi, ma non ci credo. Personalmente trovo noiosi e illeggibili molti romanzi molto lodati dalla critica e, come Roth, mi diverto di più con una bella biografia, che so, di Garibaldi o di Gilles de Rais, oppure mi rileggo romanzi di cento o cinquanta anni fa. Ma poi accade che ne leggo con gusto anche dei nuovi. Insomma, la vita è così complicata, e rifiuta talmente le divisioni tra bianco e nero, che mi viene in mente quel detto non ricordo più di chi: "Per ogni problema complesso esiste sempre una soluzione semplice. Ed è sbagliata." (da Umberto Eco, Non sparate sui romanzi, "La Repubblica", 23/07/'11)
Eco nel catalogo Bompiani
Quell'odio profetico dei noir scandinavi
"Gli indizi che annunciavano l'imminenza di un massacro erano sotto gli occhi di tutti. Non nella realtà, ma nella sua alternativa più tollerabile: la letteratura. Da alcuni anni le librerie di tutto il mondo sono state invase da noir scandinavi. Dopo il clamoroso successo del primo volume della trilogia di Stieg Larsson, Uomini che odiano le donne, c'è stato il boom dei thriller svedesi, norvegesi, perfino islandesi: tutto funziona purché si svolga sotto il sole di mezzanotte, per almeno quattrocento pagine, evocando (attenzione) un oscuro passato ideologico che passato non è mai. Accadeva nel primo volume di Millenium. Accade in molti gialli dell'islandese Arnaldur Indridason. La preparazione di un attentato di matrice neonazista è al centro di Falso bersaglio dello svedese Dahl Arne. L'elenco potrebbe continuare. Ma il punto non è completarlo né individuare il romanzo nordico che più di ogni altro aveva prefigurato la tragedia di Oslo e Utoya. È, in generale, la vocazione rabdomantica della letteratura a uscirne confermata e rafforzata. Restiamo al caso particolare: la Norvegia, Oslo. L'ultima volta che ci sono stato mi ha impresso un ricordo idilliaco: in un giorno di sole sfolgorante si prendeva la metropolitana, come era solito fare perfino il re, per andare (al capolinea) a sciare di fondo. La gente era riservata e cortese, tutto appariva costoso eppure accessibile per chiunque, o quasi. Tolleranza, integrazione, libertà di comportamenti parevano cose talmente assimilate da non dover più essere esibite o sostenute. Eppure. Eppure bastava abbassare gli occhi sulle pagine di uno dei libri ambientati proprio lì per trovarsi in un mondo completamente diverso. La Norvegia è probabilmente l'unico Paese al mondo ad aver avuto un ministro della Giustizia autore di noir di successo: Anne Holt, che scriveva già prima, ma dopo aver lasciato la carica ha firmato il best seller Quello che ti meriti. Quando si cerca di individuare l'ingrediente chiave del trionfo globale ottenuto dal suo e dagli altri libri simili non è tanto all'originalità dei personaggi o delle trame che si fa riferimento. Ricorre, piuttosto, una parola: atmosfera. A renderla efficace è il contrasto. La superficie è bianca; quel che si muove sotto è nero. Il presente è socialdemocratico, multiculturalista, assistenzialista; il passato è filonazista, nazionalista, classista. Il Museo dei Nobel per la pace è una pietra sull' universale istinto di violenza. Il lettore prova un brivido di rassicurazione: nessuno ha saputo costruire ripari. Neppure i compassionevoli e attenti legislatori e pubblici amministratori norvegesi. La funzione della letteratura noir è spesso questa: sporcare le illusioni. Se possibile, ammazzarle. Ne sono state vittime le decadenti democrazie d'Europa e il sogno americano. Un accorgimento non secondario dei totalitarismi è evitare la proliferazione di un simile genere romanzesco che rivela malesseri individuali e sociali, scheletri negli armadi e follie nei cassetti, malattie non curate pronte alla recidiva. Nel liberalismo scandinavo questo è stato ampiamente raccontato: sono state rivelate città sotterranee dove giacciono gli orridi residui di falliti esperimenti genetici, messe a nudo le dinamiche incestuose e omicidiarie di quel primo nucleo sociale che è la famiglia, accertato che non soltanto il re, anche il popolo è nudo, con un coltello in mano. Per le strade di città semideserte si aggirano alla ricerca di verità devastanti investigatori carichi di malinconia, entrando e uscendo da posti puliti poco e illuminati peggio. Riga dopo riga quel che stanno componendo è una straordinaria profezia collettiva destinata ad autoavverarsi. La coppia di detective di Anne Holt, il Gruppo A di Dahl Arne, il giornalista di Larsson (suo alter ego) puntano tutti nella stessa direzione. L'isola in cui quest'ultimo affronta il suo primo caso è l'equivalente letterario della Utoya insanguinata della cronaca. L'ombra dei gruppi nazisti che Larsson aveva tanto studiato da giornalista e contro cui ha invano messo in guardia è onnipresente. Non come ripetizione di un cliché letterario, come avvertimento. C' è un romanzo norvegese, non noir ma cupo, intitolato La modella (Guanda), scritto da Saabye Lars Christensen. A un certo punto della storia l'irascibile protagonista va in teatro, dove la moglie sta curando l'allestimento scenografico di un lavoro di Ibsen. Lei è molto fiera di una sua trovata: ha fatto dipingere di rosso il muro alle spalle degli attori sul palco. Lui osserva perplesso, poi dice: «Non è eccessivo? Manca solo che tu appenda un cartello con su scritto: qui sta per accadere qualcosa di terribile». Ecco: la letteratura nordica degli ultimi anni è stata quel muro rosso. Ma abbiamo continuato a pensare che fosse il fondale di un palco dove si recitava e poi tutti tornavano a casa, felici e assistiti." (da Gabriele romagnoli, Quell'odio profetico dei noir scandinavi, "La Repubblica", 24/07/'11)
mercoledì 13 luglio 2011
Is a Bookless Library Still a Library?
"Shhh ... silenzio! L'atmosfera è quella delle biblioteche di ogni paese. Grandi tavoli, luci soffuse, gli studenti impegnati nella lettura. Solo che qui, nella biblioteca della Drexel University, l'università privata di Filadelfia che il Times ha messo tra le 200 migliori del mondo, non c'è l'ombra di un volume rilegato. Avete capito bene. Drexel è la prima università al mondo book-free: senza libri. Per carità, la collezione della storica università, fondata nel 1891, conta migliaia di volumi. Solo che nella nuova sede, quella Library Learning Terrace progettata dall'architetto Scott Erdy come spazio flessibile - arredamento mobile e pareti come lavagne bianche su cui prendere appunti - non ci sono scaffali, cataloghi né bibliotecari. Solo computer che offrono accesso immediato a un archivio di 170 milioni di prodotti culturali digitalizzati, e-book, riviste, film e file musicali. L'intero catalogo universitario di Filadelfia immagazzinato su un server e scaricabile con un clic. 'Qui si ospita conoscenza' ha affermato il direttore della nuova biblioteca, Danuata Mitecki.
Sarà. Ma una biblioteca può ancora chiamarsi così? A sollevare la questione è il settimanale Time con un articolo rilanciato proprio sul sito della Drexel che tra favorevoli e contrari sta già scaldando gli animi. 'La biblioteca è da sempre un luogo di ispirazione' ha commentato un autore di bestseller come Michael Connelly, rammentando come la sua stessa carriera sia nata dal piacere fisico di maneggiare libri: 'Dubito che in una biblioteca senza volumi accada la stessa cosa'.
Già l'anno scorso un'università famosa come Stanford ha ridimensionato la biblioteca della sua facoltà di ingegneria, tagliando l'85 per cento dei titoli cartacei. Ne ha eliminati 50 mila sostituendoli con gli stessi volumi digitalizzati. L'Università di San Antonio in Texas, permette di accedere online a 450 mila titoli. E perfino una piccola biblioteca come quella di Newport Beach, California, ha trasformato la sua collezione in 35 mila file. Salvo potersi ancora procurare un libro "vero", chiamando attraverso un chiosco elettronico le altre biblioteche cittadine. Che provvedono a far recapitarea casa il volume richiesto. Una rivoluzione? Il fatto è che la digitalizzazione delle biblioteche non dipende solo dalla voglia di innovazione tecnologica delle università. Piuttosto del sovraffolla mento. Prendete Stanford: prima della digitalizzazione comprava 273 libri al giorno, che finivano in un magazzino fuori città. Come accade alla Duke di Durham, che ha costruito un apposito magazzino con scaffali alti 10 metri dove conserva 15 milioni di volumi. Mentre il deposito di Harvard è a 60 chilometri dal campus. I libri, insomma, non sono obsoleti: sono fisicamente invadenti. E quelli collezionati dalle università sono così tanti da ricoprire, potenzialmente, interi stati. Il dibattito è anche architettonico. E se un purista come Steven Holl sostiene che il carattere dei libri è un elemento architettonico insostituibile in uno spazio di studio, l'olandese Rem Khoolhaas, progettista della biblioteca di Seattle, sembra essere stato ispirato proprio dall'idea di un mondo senza libri. Una spirale, cuore dell'edificio, raccoglie fino a un milione di volumi. Ma si contrappone all'immenso piano terra interamente multimediale. «Il libro non è morto» dice, Robert Darnton, direttore della biblioteca di Harvard e autore di Il futuro del libro. «Sta vivendo una nuova, più democratica vita». Il sogno della biblioteca di Alessandria, insomma, è destinato a proseguire. Magari in quella superbiblioteca universale digitalizzata da Google. O nelle applicazioni che - dalla British Library alla New York Public Library - portano secoli di cultura nell'iPhone. Il futuro del libro, insomma, è ancora tutto da scrivere: magari al computer, nel silenzio di una biblioteca senza volumi come quella di Filadelfia." (da Anna Lombardi, Benvenuti a Filadelfia, nella biblioteca senza libri, "La Repubblica", 13/07/'11)
Biblioteche senza libri e senza bibliotecari?
martedì 12 luglio 2011
Cosa resta del padre?
"Dove sono finiti i padri? In quale mare si sono persi? Film e libri sembrano rilanciare, di fronte a questa assenza inquietante, una inedita domanda di padre: non casualmente ne parlano, tra gli altri, l'ultimo cinema di Clint Eastwood, gli ultimi romanzi di due tra i più grandi scrittori viventi: La strada di Cormac McCarthy, Einaudi (da cui il film The Road) e Nemesi di Philip Roth, Einaudi. Ma anche i film Biutiful di Alejandro González Iñárritu e, sebbene in modi diversi, Tree of life di Terrence Malick. La difficoltà dei padri a sostenere la propria funzione educativa e il conflitto tra le generazioni che ne deriva, è nota da tempo e non solo agli psicoanalisti. I padri latitano, si sono eclissati o sono divenuti compagni di giochi dei loro figli. Ma il bisogno e il desiderio di riferimenti restano. Per interpretare questa nuova atmosfera possiamo evocare la figura omerica di Telemaco come il rovescio di quella di Edipo. Se il complesso edipico di Freud ruotava attorno alla dinamica del conflitto tra le generazioni, tra padri e figli, quello che potremmo chiamare il complesso di Telemaco definisce l'attesa dei figli nei confronti dei padri, la speranza che qualcosa possa ancora fare ed essere "padre". Edipo viveva il proprio padre come un rivale, come un ostacolo sulla propria strada. I suoi crimini sono i peggiori dell'umanità: uccidere il proprio padre e possedere sessualmente la propria madre. L'ombra della colpa cadrà su di lui e lo spingerà al gesto estremo di cavarsi gli occhi. Telemaco, invece, coi suoi occhi, guarda il mare, scruta l'orizzonte. Aspetta che la nave di suo padre - che non ha mai conosciuto - ritorni per riportare la Legge nella sua isola dominata dai Proci che gli hanno occupato la casa e che godono impunemente e senza ritegno delle sue proprietà. Telemaco si emancipa dalla violenza parricida di Edipo; egli cerca il padre non come un rivale con il quale battersi, ma come un augurio, una speranza, come la possibilità di riportare la Legge sulla propria terra. Se Edipo è la tragedia della trasgressione della Legge, Telemaco incarna l'invocazione della Legge; egli prega affinché il padre ritorni dal mare e pone in questo ritorno la speranza che vi sia ancora giustizia per Itaca. Mentre lo sguardo di Edipo finisce per spegnersi nella furia dell'auto-accecamento, come marchio della colpa, quello di Telemaco si rivolge all'orizzonte per vedere se qualcosa torna dal mare. Certo, il rischio di Telemaco è la malinconia, la nostalgia per il padre glorioso, per il grande re di Itaca che ha espugnato Troia. La domanda di padre, come Nietzsche aveva intuito bene, nasconde sempre l'insidia di coltivare un'attesa infinita e melanconica di qualcuno che non arriverà mai. È il rischio di confondersi con uno dei due vagabondi protagonisti di Aspettando Godot di Samuel Beckett. Lo sappiamo: Godot è il nome di un'assenza. Eppure, con Telemaco, sappiamo anche che qualcosa torna sempre dal mare, come racconta con forza e poesia rare l'ultimo recente spettacolo teatrale di Mario Perrotta (Odissea) imperniato proprio sulla figura di Telemaco. Noi siamo nell'epoca dell'evaporazione del padre, ma siamo anche nell'epoca di Telemaco; le nuove generazioni guardano il mare aspettando che qualcosa del padre ritorni. Certo, Telemaco si aspetta di vedere le vele gloriose della flotta vincitrice del padre-eroe. Ma Telemaco potrà ritrovare il proprio padre solo nelle spoglie di un migrante senza patria. In gioco non è affatto una domanda di restaurazione della sovranità smarrita del padre-padrone. Non è una domanda di potere e di disciplina, ma di testimonianza. Sulla scena non ci sono più padri-padroni, ma solo la necessità di padri-testimoni. Se il balcone di San Pietro, come mostra bene Habemus papam di Nanni Moretti, resta vuoto, se l'afonia che colpisce il padre-papa risulta inguaribile, resta altrettanto urgente la domanda che qualcuno possa assumere la responsabilità pubblica della parola e tutte le sue conseguenze. La domanda di padre non è più domanda di modelli ideali, di dogmi, di eroi leggendari e invincibili, di gerarchie immodificabili, di una autorità repressiva, ma di atti, di scelte, di passioni capaci di testimoniare, appunto, come si possa stare in questo mondo con desiderio e, al tempo stesso, con responsabilità. Il padre che oggi viene invocato non può più essere il padre che ha l'ultima parola sulla vita e sulla morte, sul senso del bene e del male, ma solo un padre radicalmente umanizzato e vulnerabile, incapace di dire qual è il senso ultimo della vita ma capace di mostrare, attraverso la testimonianza della propria vita, che la vita può avere un senso. La psicoanalisi insegna che la paternità autentica è una responsabilità senza pretese di proprietà. Questo significa, per esempio, non avere progetti sui propri figli, non esigere che diventino ciò che le nostre aspettative narcisistiche si attendono, ma significa anche trasmettere alle nuove generazioni la fede nei confronti dell'avvenire, la fede verso la loro capacità di progettare il futuro. Sappiamo che nel nostro tempo questa nozione di responsabilità è stravolta. Non solo la crisi della famiglia, ma anche la crisi della cosiddetta etica pubblica rivelano uno scivolamento pericoloso verso un pervertimento della responsabilità, ovvero verso una proprietà senza responsabilità. Nelle ultime tornate elettorali l'indignazione civile verso il berlusconismo, come espressione culturale paradigmatica della degenerazione ipermoderna della funzione paterna, si è manifestata in modo elettivo attraverso il voto delle nuove generazioni le quali, come Telemaco, non vogliono rinunciare a guardare il mare, ad avere un orizzonte per le proprie vite. Certo la nostalgia del padre eroe è una malattia ed è sempre in agguato, ma il tempo del ritorno glorioso del padre è per sempre alle nostre spalle. L'afonia del padre papa resta inguaribile; dal mare non tornano monumenti, flotte invincibili, capi-partito, leader autoritari e carismatici, uomini-dei, ma solo frammenti, pezzi staccati, padri fragili, vulnerabili, nuovi sindaci dal sorriso gentile, poeti, registi, insegnanti precari, migranti, lavoratori, semplici testimoni di come si possa trasmettere ai propri figli e alle nuove generazioni la fede nell'avvenire, il senso dell'orizzonte, una responsabilità che non rivendica alcuna proprietà." (da Massimo Recalcati, Nel nome del figlio, "La Repubblica", 12/07/'11)
Le brave ragazze non leggono romanzi
"Chi ha letto quel capolavoro di umorismo e lieve perfidia che è l'Abbazia di Northanger di Jane Austen sicuramente si ricorderà bene della protagonista del romanzo. Giovane e bella, e per nulla cattiva, Catherine è un'adorabile imbecille, incapace di distinguere realtà e fantasie. La causa di questa fragilità non è un difetto innato, ma un vizio acquisito vero e proprio, ovvero la lettura compulsiva di quei romanzi che venivano definiti "gotici" (una Catherine dei nostri giorni, per intenderci, divorerebbe le saghe di vampiri e licantropi di Stephenie Meyer). In fin dei conti, si potrebbe trattare di un'abitudine perdonabile. Il guaio è che Catherine, degna nipotina del più illustre Don Chisciotte, finisce per credere di viverci davvero, in quel mondo di torrioni medievali, passaggi segreti, manoscritti ritrovati, crudelissimi rapitori di fanciulle innocenti, padri e figli che si riconoscono in punto di morte, fughe al chiaro di luna, sinistri rintocchi di mezzanotte. Mentre il mondo, ahimè, è molto più banale di quello che Catherine si ostina a credere, e non cerca (questa è la suprema ironia della Austen) che di farla felice, come finirà per accadere grazie a un ottimo matrimonio. Jane Austen portò a termine L'Abbazia di Northanger nel 1803. Se la sua eroina discende da Don Chisciotte, è pure un'antenata diretta di Madame Bovary.
Che abbia esiti tragici o comici, la patologia di questi personaggi è legata alla lettura dei romanzi, e discende da un eccesso di impressionabilità che, nonostante Don Chisciotte, è sistematicamente attribuito alle donne. Non si potranno nutrire dubbi al riguardo dopo aver terminato il saggio brillante ed erudito di Francesca Serra, Le brave ragazze non leggono romanzi (Bollati Boringhieri). I libri più utili da meditare, forse, sono quelli che, una volta finiti, non sappiamo proprio in che scaffale sistemare. Quello di Francesca Serra potrebbe essere rubricato sotto l'etichetta della teoria letteraria e della storia dei generi. Eppure, nel corso dell'esposizione, la medicina e la psicologia svolgono un compito per nulla secondario. E non manca all'appello la sociologia, quando si tratterà, dopo aver stabilito un sorprendente parallelo fra romanzi e vibratori, di collocare entrambi questi potentissimi oggetti del desiderio nella sfera dei consumi - e del consumismo.
Possiamo iniziare a dipanare questa matassa, imbarazzante o attraente a seconda dei punti di vista, dicendo che il titolo del saggio di Francesca Serra fa il verso a una celebre affermazione di Jean-Jacques Rousseau, «jamais fille chaste n'a lu des romans», ovvero: mai una fanciulla casta ha letto dei romanzi. Quel genio della malafede che era Rousseau mette questo avvertimento in testa alla prefazione del più celebre romanzo del suo tempo, La Nouvelle Héloïse, uscito nel 1761. Ma è proprio nel secolo di Rousseau, in quel Settecento che se non inventa il romanzo ne fa un'industria e un consumo di massa, che i sottili ma tenacissimi legami che tengono unite la lettura dei romanzie la masturbazione iniziano ad ossessionare la mente di medici, filosofi, letterati e pedagoghi. Francesca Serra ci fa entrare in un mondo psicologico e in un tempo storico nel quale nessuna «civiltà dell'immagine» ha ancora minimamente eroso l'incontrollabile potenza della lettura. Mentre gli occhi, che da sempre sono la porta delle più pericolose suggestioni, scorrono sui caratteri stampati sulla pagina, la mente accoglie i fantasmi suscitati dalle parole lette, e facilmente ne finisce soggiogata. L'ipnotizzatore e il romanziere fanno, in pratica, lo stesso mestiere, con la differenza che il primo ha bisogno di essere lì, di fronte al soggetto da soggiogare, mentre il secondo, col mezzo dei libri, è dovunque e in nessun luogo. Con la sua continua proliferazione di immagini di voluttà, il romanzo finisce per intaccare e demolire il principio di realtà, accampandosi come un irresistibile conquistatore nelle menti di donne incapaci di resistere al richiamo del piacere. Genitori, mariti, istitutori sono alle prese con il più subdolo dei nemici: un immaginario che finisce sempre per svalutare il mondo così com'è, con la sua cronica avarizia o mancanza di soddisfazioni. Resta da capire come mai questa storia di frustrazione e riparazione fantastica, che può apparirci come una storia generalmente umana, veda le donne come protagoniste indiscusse: ancora oggi, a parere di Francesca Serra, che alla fine del suo libro azzarda delle considerazioni molto acute su come, all'inizio del terzo millennio, quello della lettrice sia ancora «un congegno» capace di degradare «la lettura in vizio». Tutto sommato, il capostipite e il modello supremo dei malati di romanzi è pur sempre Don Chisciotte, un maschio. Si tratta, a mio modo di vedere, del punto più delicato e problematico dell'intera ricerca, anche perché quell'eccitabilità nervosa, quell'eccessiva reattività al potere della parola scritta, è un limite, ma anche un potere, una possibile sorgente di forza interiore. E probabilmente, riguardo a questo tema e a molti altri, bisognerà iniziare a considerare quali quantità di "maschio" e di "femmina" si agitano in ognuno di noi, alla ricerca di un difficile equilibrio, senza più dare troppo peso alla biologia e all'anagrafe. In fin dei conti, ciò che siamo alla nascita dovrebbe contare molto meno di quello che, di giorno in giorno, decidiamo, o ci tocca in sorte, di essere." (da Emanuele Trevi, Quei cattivi romanzi seduttori di ragazze, "La Repubblica", 12/07/'11)
Lettrici in libera uscita (da "Il Sole 24 ore")
lunedì 11 luglio 2011
La prima versione di Emma W.
"Non conosco la brama del collezionista. Sono piuttosto un'artista nell'atto opposto, quello di perdere - nell'arte del perdere sono un fenomeno.
Eppure, mi trovassi nei paraggi, giovedì 14 luglio sarei da Sotheby's, a Londra, a vedere battere all'asta il manoscritto di The Watsons di Jane Austen, sessantotto pagine vergate a mano in una calligrafia squisita, minuta, precisa, dalla scrittrice inglese tra le mie preferite nella top ten. Le prime dodici pagine del medesimo manoscritto si trovano alla Pierpoint Morgan Library di New York, insieme a Lady Susan, un lavoro giovanile. Due capitoli di Persuasion sono presso la British Library. Mentre al King's College, Cambridge, riposa il frammento Sanditon. Ricordo ancora l'emozione di quando anni fa un bibliotecario gentile me lo mostrò. Mi sembrò di avvicinare il mistero della scrittura austeniana: come se la magia della creazione avesse a che fare anche con quei segni - quasi geroglifici, per chi oggi non ricorre al gesto materiale di intingere una penna nell'inchiostro. Dalle cancellature mi pareva di intuire le esitazioni, i ripensamenti, dalle incertezze dello spelling capivo la fretta.
Non sopravvive manoscritto nessun romanzo intero di Jane Austen, ma io mi accontenterei di questo; anzi, tra gli oggetti da collezionare l'oggetto incompiuto mi pare, a dire il vero, il più interessante. Mi potrei mettere a studiare come completarlo. A forza di leggerlo e rileggerlo, tenendolo così in vita, mi dedicherei alla sua resurrezione. E sconfiggerei in tal modo un'interpretazione funerea del collezionismo. Nel gesto del collezionista c'è chi ha visto il tratto anale del possesso, l'avidità, l'egoismo, il gusto perverso del dominio delle cose, la gioia maligna della loro preclusione agli altri.
Lo insegna il maestro dei miei maestri, Mario Praz; il quale insiste sul suo carattere mortifero. Potessi acquistare il manoscritto, io invece lo investirei del mio erotismo e per me diventerebbe non più un oggetto d'uso né di scambio, non una merce, ma una cosa amata. Tanto più amata, perché orfana e incompiuta.
Jane comincia a scrivere il romanzo a Bath nel 1804, in un momento difficile: l'elegante e bella cittadina non le piace, stava meglio a Steventon; ma il padre George Austen ha deciso di lasciare il suo ministero e trasferirsi lì dove s'era sposato con Cassandra Leigh, da cui aveva avuto ben sei figli maschi e due femmine, Cassandra e Jane, e quando il padre decide ... A Bath Jane non scrive, mentre nel rettorato di Steventon s'era sempre molto affaccendata con carta e penna, decisa a diventare un "autore"; a fare della sua passione una professione. Mossa ardita e coraggiosa per una donna, a quei tempi. Ma Jane è ardita, è audace, intelligente, ironica, libera nella mente e nel cuore, e insieme realista, niente affatto romantica. Ha questi tratti l'eroina che affiora dalle pagine di The Watsons, che proprio qui a Bath comincia e poi d'improvviso si interrompe.
Perché? Non si sa perché.
Sappiamo dalla sorella Cassandra come sarebbe andata a finire la trama, e cioè come sempre finiscono le storie di Jane, che sono "comiche", e cioè a lieto fine. Chi salva tutto è sempre una donna che ha senno e sentimento, ragione e sensibilità. Ed è capace di persuasione sugli altri e di persuadere se stessa a cavare il meglio da una condizione che non promette libertà assolute, scelte radicali; ma apre possibilità di sopravvivenza morale; permette azioni di difesa della dignità umana, a patto che si accetti l'enorme fatica della discriminazione, della distinzione. Soprattutto la donna è a rischio nella società in cui Jane vive e che descrive. È a rischio la libertà femminile, che non è questione di quante cose possa o non possa fare una donna, ma che idea debba custodire di sé. È un oggetto di scambio? Una merce? O può emanciparsi, cioè smettere di considerarsi sotto potestà altrui? Del padre, o del marito? Chi sono i Watson? Una famiglia come tante: un padre vedovo, invalido, e quattro figlie femmine di cui una torna a casa da straniera, essendo stata allevata da una zia ricca, la quale però perde il marito, si risposa e a questo punto allontana la nipote, che senza dote né arte né parte si ritrova a pesare su un'economia famigliare assai fragile. Ecco perché in casa non si parla d'altro, se non di matrimonio. Tra le sorelle è l'unico argomento. È anche la ragione di una sotterranea competizione tra di loro. Che Emma - questo il nome della nostra eroina - disprezza, perché lei è differente. Intanto, è più colta. È meno provinciale. È stata esposta a una diversa atmosfera.
È sublime il modo in cui da piccoli tratti Jane Austen fa risaltare come è proprio nell'esperienza della vita quotidiana che si forma il carattere. Non c'è scrittore più materialista, più marxista di lei, che non parla di Napoleone né di scioperi né di schiavitù - tutti eventi reali dei suoi giorni - ma fa emergere in piena evidenza l'ingiustizia strutturale e sovrastrutturale del mondo di salotti e crinoline e carrozze e feste da ballo che descrive con impareggiabile scherno.
In particolare in questo frammento di romanzo. Ecco, ad esempio, uno scambio tra Lord Osborne ed Emma, povera ma bella e intelligente. I due sono seduti uno accanto all'altro e dovrebbero conversare e lui non sa che dire e poi dice qualcosa come: alle donne dona andare a cavallo. E lei prosaicamente risponde: non tutte hanno l'inclinazione o i mezzi per farlo. Ma se ne avessero voglia! ribatte lui, che non sa che cosa significhi «non avere i mezzi». A questo punto con pazienza Emma gli spiega che esiste una female economy, un'economia femminile che non può magicamente trasformare «a small income into a large one », un reddito esiguo in un buon reddito. In una società di classe come quella in cui le eroine di Jane Austen vivono, non d'amore si tratta, ma di patrimoni e matrimoni, che si combinano a seconda del reddito.
Spiritosa e vitale come l'altra Emma, protagonista dell'omonimo romanzo, ma non vanitosa come lei, né bugiarda; più energica di Fanny di Mansfield Park; più dinamica di Anne di Persuasione; la nostra eroina rifiuta il matrimonio per interesse. Non che non ne capisca la logica, non che idealizzi l'amore, ma questa Emma di questo romanzo incompiuto non vuole, non le va,e alla fine, secondo quanto Jane confidò a Cassandra, avrebbe declinato l'offerta dell'aristocratico lord e cercato l'amore altrove. Nel frattempo, appena può, si rifugia nella camera del padre moribondo: «Nella sua stanza, Emma riparava dalle tremende mortificazioni di una società ineguale, e dalla discordia famigliare [...]. Nella sua stanza poteva leggere e pensare».
Nella stanza del padre. Come appunto faceva Jane, che il padre sempre sostenne nella passione e nella carriera letteraria. Poi nel 1805 il padre morì e Jane interruppe il romanzo. Quella appena citata è la penultima pagina del manoscritto incompiuto. Che abbia pensato di averlo ucciso lei, perché così era previsto nel romanzo? Chissà. Comunque a queste pagine non tornò, anche se nel nome e nello spirito l'eroina di queste pagine ricompare in altre eroine e in altre pagine a venire." (da Nadia Fusini, La prima versione di Emma, "La Repubblica", 10/07/'11)
lunedì 4 luglio 2011
Scrittura come libertà, scrittura come testimonianza
'Se si escludono istanti prodigiosi e singoli che il destino ci può donare,
l'amare il proprio lavoro (che purtroppo è privilegio di pochi)
costituisce la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra.'
Primo Levi, La chiave a stella (Einaudi)
"'Quanto il Signore ha ordinato, noi lo faremo e lo ascolteremo'. Così assicura il popolo di Israele a Mosè appena sceso dal Sinai con la Torah. Il chiasmo con cui si chiude la frase, quel fare che, contro ogni nostra attesa precede l'ascoltare, non è certo pura figura retorica né frutto di una svista. Secondo la tradizione ebraica, solo facendo, mettendo in pratica gli insegnamenti e i precetti religiosi, diviene possibile ascoltarli, e cioè comprenderli fino in fondo. La religione è dunque azione e non dogma, esercizio quotidiano, prassi che conduce verso il dominio intellettuale. Per due millenni, il giudaismo rabbinico è restato fedele al primato dle fare. 'Fare' i comandamenti, e non semplicemente enunciarli discorsivamente, questa è da sempre la via maestra della pietas ebraica.
Ma se la religione viene meno, o attenua il proprio dominio sociale, cosa rimane di questo pragmatismo? E' possibile trovare tracce dell'inversione tra teoria e azione anche nel giudaismo laico, o nelle identità marginali? E, in particolare, cosa succede in letteratura? Sergio Parussa (Scrittura come libertà, scrittura come testimonianza, Giorgio Pozzi editore) rilegge la parabola creativa di quattro autori italiani di origine ebraica - Umberto Saba, Natalia Ginzburg, Giorgio Bassani e Primo Levi - proprio alla ricerca di una scrittura-gesto, che si compia laicamente come si compiono, in religione, i precetti.
Sono nomi di prima grandezza e tutti, in vario grado, partecipi di una lacerazione esistenziale. Certo, le biografie dei quattro solcano il secolo scorso in maniera molto diversa, ma la cesura delle leggi razziali, della discriminazione, della persecuzione e del nascondimento è per tutti evidente e dolorosa. Allo stesso tempo, in ciascuno vi è molto altro, che non si lascia ridurre a un comune denominatore. Tra Saba, che si avvicinò in tarda età al cattolicesimo, e Primo Levi, testimone di Auschwitz, oppure tra la Ginzburg, col suo impegno nel Pci e Bassani, prima vicino al Psi e poi ai Repubblicani, passano inconciliabili idiosincrasie, politiche, intellettuali, e di stile. Eppure è innegabile che, per tutti, l'ebraicità cositutisca una sorta di reagente, un elemento che genera scrittura, un fermento di inquietudine, di negazione, di spaesamento o, al contrario, di redenzione dal destino individuale e collettivo.
E' celebre la definizione che Levi diede del proprio essere ebreo: 'Sono io l'impurezza che fa reagire lo zinco, sono il granello di sale e di senape'. E proprio questo predicato di 'impurezza', di ibridazione è secondo Parussa, un primo fattore di gestualità letetraria. [...]" (da Giulio Busi, 'Salvati' dalla letteratura, "Il Sole 24 Ore Domenica", 03/07/'11)
l'amare il proprio lavoro (che purtroppo è privilegio di pochi)
costituisce la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra.'
Primo Levi, La chiave a stella (Einaudi)
"'Quanto il Signore ha ordinato, noi lo faremo e lo ascolteremo'. Così assicura il popolo di Israele a Mosè appena sceso dal Sinai con la Torah. Il chiasmo con cui si chiude la frase, quel fare che, contro ogni nostra attesa precede l'ascoltare, non è certo pura figura retorica né frutto di una svista. Secondo la tradizione ebraica, solo facendo, mettendo in pratica gli insegnamenti e i precetti religiosi, diviene possibile ascoltarli, e cioè comprenderli fino in fondo. La religione è dunque azione e non dogma, esercizio quotidiano, prassi che conduce verso il dominio intellettuale. Per due millenni, il giudaismo rabbinico è restato fedele al primato dle fare. 'Fare' i comandamenti, e non semplicemente enunciarli discorsivamente, questa è da sempre la via maestra della pietas ebraica.
Ma se la religione viene meno, o attenua il proprio dominio sociale, cosa rimane di questo pragmatismo? E' possibile trovare tracce dell'inversione tra teoria e azione anche nel giudaismo laico, o nelle identità marginali? E, in particolare, cosa succede in letteratura? Sergio Parussa (Scrittura come libertà, scrittura come testimonianza, Giorgio Pozzi editore) rilegge la parabola creativa di quattro autori italiani di origine ebraica - Umberto Saba, Natalia Ginzburg, Giorgio Bassani e Primo Levi - proprio alla ricerca di una scrittura-gesto, che si compia laicamente come si compiono, in religione, i precetti.
Sono nomi di prima grandezza e tutti, in vario grado, partecipi di una lacerazione esistenziale. Certo, le biografie dei quattro solcano il secolo scorso in maniera molto diversa, ma la cesura delle leggi razziali, della discriminazione, della persecuzione e del nascondimento è per tutti evidente e dolorosa. Allo stesso tempo, in ciascuno vi è molto altro, che non si lascia ridurre a un comune denominatore. Tra Saba, che si avvicinò in tarda età al cattolicesimo, e Primo Levi, testimone di Auschwitz, oppure tra la Ginzburg, col suo impegno nel Pci e Bassani, prima vicino al Psi e poi ai Repubblicani, passano inconciliabili idiosincrasie, politiche, intellettuali, e di stile. Eppure è innegabile che, per tutti, l'ebraicità cositutisca una sorta di reagente, un elemento che genera scrittura, un fermento di inquietudine, di negazione, di spaesamento o, al contrario, di redenzione dal destino individuale e collettivo.
E' celebre la definizione che Levi diede del proprio essere ebreo: 'Sono io l'impurezza che fa reagire lo zinco, sono il granello di sale e di senape'. E proprio questo predicato di 'impurezza', di ibridazione è secondo Parussa, un primo fattore di gestualità letetraria. [...]" (da Giulio Busi, 'Salvati' dalla letteratura, "Il Sole 24 Ore Domenica", 03/07/'11)
Politiche dell'irrealtà
"Il primo è stato Truman Capote, un capostipite contemporaneo. Il suo A sangue freddo (1966) è la prima fiction non-fiction, un modello insuperato di scrittura narrativa non più fondata sulla finzione.
Capote, che restò poi bruciato da questa esperienza, per l'intensità emotiva e per la ineguagliabile soluzione letteraria raggiunta, anni dopo, raccontando come aveva scritto il suo libro dedicato ai due efferati assassini, scriveva che lì «tutto era irreale perché troppo reale, come tendono a essere i riflessi della realtà».
Il rapporto tra letteratura e realtà è complesso, se non addirittura problematico, come aveva intuito lo scrittore americano o come, su un altro versante, poteva affermare Primo Levi per cui la vocazione letteraria faceva a pugni con la sua esigenza di testimone.
E il testimone non è solo colui che assiste agli avvenimenti, ma soprattutto chi li riferisce, come sottolinea all'inizio del suo saggio, Politiche dell’irrealtà, Arturo Mazzarella (Bollati Boringhieri).
Cosa sia oggi la realtà, e ancor di più il suo racconto, è assai problematico. A rendere incerto questo passaggio dagli avvenimenti al loro racconto (o descrizione o trasmissione fotografica) è il tema stesso della finzione che Mazzarella prende di petto nel suo libro.
Se con Guy Debord de La società dello spettacolo noi possiamo dire che «nel mondo realmente rovesciato, il vero è un momento del falso», ci si impone, anche sulla scorta della lezione etica di Levi e degli altri testimoni-scrittori dei massacri del XX secolo, come Vasilij Grossman, il problema di restituire un luogo allaVerità, di ricavarlo dal susseguirsi dei fatti, e perciò di ritrovarla all'interno della loro narrazione, o rappresentazione.
Che cosa trasforma la non fiction in fiction, si chiede a un certo punto del suo ragionamento Mazzarella, che nella prima parte è un corpo a corpo con Gomorra?
Come il racconto divora la realtà stessa e ce la restituisce dilatata, alterata, aumentata, in una parola, straordinaria?
Tutti problemi che romanzi come Kaputt e La pelle di Malaparte
(ristampati di recente da Adelphi) avevano già posto dinanzi agli occhi del lettore, opere in cui la realtà non rinuncia alla letteratura, ma anche la letteratura non rinuncia alla realtà.
Capote che era un uomo attento allo «spettacolo», ovvero uno scrittore americano, aveva ben presente il problema della comunicazione di ciò che scriveva, sino al punto da includerlo nel suo scrivere stesso, quando affermava, ricapitolando le ragioni del suo romanzo non fiction: «Volevo presentare un romanzo giornalistico, qualcosa di ampio respiro che avesse la profondità del fatto reale, l'immediatezza del film, la profondità e la libertà della prosa e la precisione della poesia».
Mazzarella ha il merito di mettere bene in luce come la soggettività in questi scrittori della realtà deformi la conoscenza stessa sino al punto da divenire «il prodotto di una verifica operata dal soggetto», e perciò di accrescere la conoscenza.
Detto altrimenti, nell’opera di Saviano, come di Capote, c'è un «vero e proprio straripamento dell'io narrante». Il modello di Gomorra, come ha messo in luce Andrea Cortellessa, è senza dubbio Pasolini, l'ultimo Pasolini degli Scritti corsari.
Il problema della rappresentazione della realtà si pone a diversi livelli dal momento che nella medesima personalità sono compresenti lo scrittore ma anche il narratore e il protagonista.
Così è il caso di Gomorra, il libro più significativo degli ultimi anni, quello che mescola insieme letteratura e vita, «alla Pasolini»: in modo manierista.
La Verità, cui si richiama Mazzarella nel suo acuto saggio, diventa un terreno assai scivoloso proprio per il trionfo progressivo della finzione: oggi il reale copia la finzione; perciò la letteratura e il cinema sono costretti a copiare la finzione stessa del reale. Qual è il risultato?
Mazzarella indica un punto centrale della poetica di questi scrittori-di-realtà: l'opera funziona là dove la rete dei fatti presenta una smagliatura, dove si manifestano buchi evidenti.
Così è Anatomia di un istante di Javier Cercas (Guanda), una delle opere che sembrano aver risolto quei dilemmi che Mazzarella mette ben in luce, dandoci al tempo stesso uno dei lavori letterari più belli delle ultime stagioni." (da Marco Belpoliti, Da Capote a Saviano, la vita fa letteratura, "TuttoLibri", "La Stampa", 02/07/'11)
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