lunedì 26 aprile 2010

Il romanzo al tempo del marketing


"Romanziere dalla vena generosa, di quelli intrappolanti e seduttivi, Carlos Ruiz Zafón è un formidabile gigante occhialuto che vive a lavora in equilibrio tra Barcellona, dov'è nato nel '64 e in cui ha immerso i suoi cupi e tumultuosi best-seller, e Los Angeles, dove ha lavorato come sceneggiatore («ma non lo faccio più da dieci anni») e oggi abita «felicemente sposato». Dopo l'esito planetario de L'ombra del vento (2001), oltre dieci milioni di copie vendute (di cui un milione e mezzo in Italia dov'è uscito nel 2004) e del successivo Il gioco dell' angelo, questo re del mercato letterario torna alla ribalta con Il Palazzo della Mezzanotte (Mondadori), da domani nelle nostre librerie: nato nel 1994 in Spagna come libro per ragazzi, è un gioco di scacchi molto alla Zafón, diabolico e incalzante, scandito da enigmi da sbrogliare e reincarnazioni di spiriti infernali. Al centro due gemelli perduti e ritrovati, un club segreto di ragazzi orfani e l' incubo ritornante di una locomotiva infuocata dentro un tunnel. Adolescenze impavide e unitissime per un'apologia dell'amicizia. E anche romanzo d'iniziazione (per il protagonista Ben) e metafora del mistero e dei problemi che incombono sul rapporto padre-figlio. «All'epoca avevo già avuto un certo successo con El principe de la niebla, mio primo libro», spiega lo scrittore, «e volli scrivere un'altra storia per giovani ma più complessa e dark. Fu un passo avanti rispetto all' esordio, così come c'è un progressione da Il Palazzo della Mezzanotte a Las luces de septiembre, mio terzo titolo. Solo dopo aver scritto quei tre libri, e pur avendo trame indipendenti, ho capito che erano connessi per spirito e forma; perciò ho suggerito al mio editore di proporli come trilogia».
Ambientato nella Calcutta d'inizio Novecento, Il Palazzo della Mezzanotte è lontano dalla vivida Barcellona dei suoi libri più noti. Perché tanta distanza dai luoghi familiari? «Il mondo accoglie un'immensità di posti notevoli e di contesti per avventure coinvolgenti anche al di là di casa propria. Le città mi affascinano: tendo a pensarle come creature organiche e grandi metafore della condizione umana. Ho letto molto, in passato, sulla ricchissima storia di Calcutta: Venezia delle tenebre, impressionante orfanotrofio a cielo aperto ... Ho abbandonato l' immaginazione a una rovente vicenda di spettri serpeggianti nelle viscere cittadine».
Non vede rischi nel proporre in Italia solo ora, dopo l'enorme successo di L'ombra del vento, un libro del 1994? «Quei miei romanzi per ragazzi andarono subito bene in Spagna, dove non sono andati mai fuori stampa. Ma per una disputa legale i diritti per la traduzione sono stati bloccati per anni, e quando sono tornato a disporne li ho tenuti in sospeso perché stavo scrivendo Il gioco dell'angelo e non volevo che nel mondo gli editori si affrettassero a pubblicarli per sfruttare la fortuna di L'ombra del vento. Ho voluto che trascorresse almeno un anno dall'uscita di Il gioco dell'angelo prima di tradurre quei lavori anni Novanta, a cui sono affezionato e nei quali continuo a riconoscermi. Mi piace credere che trascendano ogni limite di età».
La prima parte, con la congrega dei ragazzi dell'orfanotrofio St. Patrick's, evoca climi dickensiani, e il libro possiede la felicità narrativa del "vecchio" romanzone alla Dumas, con plot dinamico e fitto di sorprese. Quanto ha contato per Zafón la lettura dei classici? «Molto. Per me, come per ogni scrittore, i classici sono un modello e un'essenza. Geni come Dumas e Dickens danno alla narrazione tocchi magici insuperati. Niente d'interessante nasce se non si è consapevoli di quanto creato prima: la letteratura è un flusso di idee che si sviluppa verso il futuro e nella coscienza del passato. Io cerco un posto nel flusso scrivendo qualcosa di nuovo che al contempo reinventi ciò che mi ha preceduto. Da ragazzo leggevo di tutto: classici, gialli, fiction nera, ogni cosa, dai vittoriani quali Wilkie Collins e Sheridan LeFanu fino a Raymond Chandler. Me ne infischiavo delle divisioni in generi e delle etichette: mi premevano la buona scrittura e i bei racconti».
Lei è anche compositore. Qual è il suo rapporto con la musica? «È la cosa che più amo al mondo. Mi piacciono soprattutto la "La buona letteratura alta o bassa che sia sa sempre trovare la strada per arrivare alla gente" classica e il jazz, ma anche il blues, il soul, l'elettronica, il rock e pop anni Settanta ... Tutta la musica con un cervello e un'anima. Una delle cose che più mi divertono è comporre brani musicali per le mie storie. Lo faccio da autodidatta, ma con passione straordinaria. Forse è la musica che plasma la mia prosa: scrivendo pensoa concetti quali orchestrazione, timbro, dinamica, armonia, densità e ritmo».
Perché è tanto attratto da mistery e gotico? E a cosa attribuisce il successo odierno del soprannaturale e dell' horror? «Sono tinte nella tavolozza del romanziere. Il gotico consente l'uso di elementi atavici e simbolici nella fiction e di esplorare sottotesti psicologici profondi. Quanto all'horror, per me è solo un aspetto del territorio narrativo, non buono o cattivo di per sé. La qualità dipende dalla realizzazione, proprio dalla fattura, non dalle intenzioni o dall' appartenenza a un genere».
Lei si dice entusiasta di certe serie tivù, sostenendo che alcuni autori televisivi di oggi sono i moderni Dickens e Balzac. «In effetti ci sono serie che hanno assunto il ruolo che nell'Ottocento, per la maggioranza del pubblico, avevano i grandi romanzi. Nell'ultima decina d'anni molti scrittori di talento hanno lavorato in ambito televisivo creando prodotti eccellenti come i serial della HBO. Nutro per loro il massimo rispetto: fanno un lavoro di alta qualità conquistando il successo che meritano. Il che non significa che drammi e commedie tivù possano sostituire la letteratura. Ma sono convinto che molti autori classici, se fossero vivi, si farebbero coinvolgere in sceneggiature per la televisione, che nel bene e nel male è il grande palcoscenico del nostro tempo».
Cosa pensa del divario tra letteratura "alta" e "bassa"? Perché i libri più premiati e ben recensiti sono spesso quelli che vendono meno? «La buona scrittura sa sempre trovare una strada per comunicare con la gente. Quanto all'alto, al basso o al medio, sono etichette usate per condizionare le opinioni e servire interessi estranei alla letteratura. Premi, medaglie, critiche, onori, vanità: non sono che forme di marketing. Conta quel che dura nel tempo, e sono i lettori a deciderlo»." (da Leonetta Bentivoglio, Il romanzo al tempo del marketing, "La Repubblica", 26/04/'10)

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