sabato 10 aprile 2010

Diario di lettura: Alfonso Berardinelli


"Ultime fatiche, professore?. «Professore? Da tempo non più».
Già ... rara avis, l'ex prof romano Alfonso Berardinelli, uno dei pochissimi cattedratici che hanno dato le dimissioni e hanno detto addio alla sine cura universitaria. E non per diventare un San Girolamo amanuense nel deserto (anche se confessa di essere, di recente, passato dal computer alla biro). Ma, al contrario, per coltivare - come spiega lui stesso - le idiosincrasie e le passioni che più lo legano al presente: «Mi ero innamorato dell’idea di andare via dall’università, cambiare contesto voleva dire anche cambiare il punto di vista sulla narrativa e sulla poesia ...». Insegnando la letteratura «non più astrattamente» ma facendone «uno strumento di conoscenza anche politica ...». Ed è proprio questa l’attività che oggi l’ex docente - abbandonati i panni dello studioso - smussa angoli per la spada affilata del critico-combattente - persegue da tempo attraverso i suoi discussi libri, da Casi critici (Quodlibet) a L’eroe che pensa (Einaudi) a Che noia la poesia (Einaudi) scritto con Hans Magnus Enzensberger. «Adorno di Monteverde»: lo ha ribattezzato non senza un pizzico di malizia, il poeta Valentino Zeichen. Berardinelli è infatti oggi il ritrattista-polemista che più mette sotto torchio la diade intellettuali- potere, per lui sinonimo di intellettuali al potere: pronto a prendere in contropiede «le tendenze egemoni», gli scrittori che vanno per la maggiore, da Roberto Calasso e la sua casa editrice Adelphi, a Massimo Cacciari, Alberto Asor Rosa, Cesare Segre, Umberto Eco. Interprete che non si risparmia nessun accanimento, è stato determinato nello smantellare persino il suo stesso habitat, l’humus in cui lui pure ha attecchito: poeta, ha impugnato la penna per restituire un affresco non sempre lusinghiero del mondodella lirica contemporanea nel Pubblico della poesia (antologia a quattro mani con Franco Cordelli). Un altro paradosso lo ha poi concepito e realizzato con Diario, singolare rivista redatta da Berardinelli con il saggista Piergiorgio Bellocchio. E adesso, di questa pubblicazione - che rappresenta un unicum, un artigianato culturale di cui direttori-editori autori sono stati dal 1985 al 1993 solo i due factotum -, arriva la ristampa anastatica (Quodlibet). Così si potranno leggere i saggi dedicati a Baudelaire, Tolstoj, Herzen, Thoreau e le demolizioni indirizzate ad Heidegger, Derrida, Emanuele Severino, Elémire Zolla, Mario Tronti e altri.
Oggi, poi, sta lavorando, tanto per non smentirsi, a un pamphlet sull’Intelligenza degli intellettuali? dove la perfidia è già tutta in quel punto di domanda. Dove nasce la sua inclinazione di critico che vuole sempre sparigliare le carte, cambiare continuamente i giochi? «Forse sui banchi del liceo romano Ennio Quirino Visconti. A 17 anni ho letto di Albert Camus Lo straniero e L’uomo in rivolta. Ero un disadattato, venivo da una famiglia operaia un po’ comunista e un po’ anarchica. Sono stato un universitario appassionato e brillante ma un liceale svogliato. Non sopportavo di dover fare tutti i giorni la stessa cosa. Perfino scrivere lo stesso tema in simultanea con altre 35 persone, era una tortura. Invece di fare i compiti studiavo per conto mio da scrittore, leggevo Tolstoj, Fitzgerald, Eliot, Faulkner e García Lorca».
E così si è trovato in sintonia con i venti di ribellione e di protesta? «Nel ’68 ero un laureando e quegli anni sono stati angoscianti. Quando sono scoppiati i primi movimenti dopo un iniziale entusiasmo mi sono sentito a disagio. Troppa politica. Fin dalla prima occupazione non mi piacevano gli occupanti. Per andar controcorrente mi misi a leggere Operai e capitale di Mario Tronti che aveva poco a che fare con quegli studenti che parlavano di Nuova sinistra americana, di antipsichiatria inglese. Quegli anni alimentarono micidiali illusioni come l’idea dell’attualità di una rivoluzione tra anarchica e neobolscevica in occidente. Ipotesi irrealistica. Intendiamoci, anch’io (non so come) ci ho creduto. Ma anche gli altri ci credevano davvero?».
A suggerire convinzioni errate erano i «cattivi maestri»? «Lo furono gli intellettuali più anziani come Franco Fortini, ex socialista eretico. Gli sono debitore, scrissi una monografia su di lui, sperando nell’attenzione dei giovani del Movimento studentesco. Ma a sinistra chi esibisce le posizioni più estreme sembra sempre più coerente e finisce per averla vinta. Così si arrivò al terrorismo. Fortini ben conosceva tutto quello che negli Anni Trenta era stato detto sulle degenerazioni dello stalinismo. Aveva tradotto La condizione operaia e La prima radice di Simone Weil che aveva elaborato una delle più geniali critiche all’idea marxista di rivoluzione. Poi però dimenticò queste opere. Nutriva anche una spiccata antipatia per George Orwell che, nel corso della guerra di Spagna a cui aveva partecipato in prima persona, aveva capito che il comunismo aveva massacrato tutte le altre culture di sinistra, dai socialisti agli anarchici. Fra i tanti a essere dimenticati ci furono pure Ignazio Silone e Nicola Chiaromonte, un finissimo osservatore del costume e malcostume culturale e politico, capace di rappresentare, per dirla con un suo titolo, il “tarlo delle nostre coscienze”. Negli
Anni Sessanta furono entrambi considerati irrilevanti e sospetti per il loro anticomunismo».
La sua palestra di critico? I «Quaderni Piacentini», vessillo delle università in subbuglio? «Da tempo leggevo quella rivista. Proposi un articolo contro Vogliamo tutto di Nanni Balestrini che non fu mai pubblicato perché
ve n’era un altro sullo stesso argomento di Goffredo Fofi. Questo fu l’inizio della mia collaborazione. In quegli anni, almeno all’università di Roma, si discuteva soprattutto dell’operaismo di Asor Rosa e della filologia marxista di Lucio Colletti. Entrando in contatto con il gruppo dirigente, che andava da Michele Salvati a Cesare Cases, mi sentii in un clima più confacente. Bellocchio poi era il direttore e, in un’epoca in cui tutti volevano diventare leader politici, mostrava di non aver nessuna velleità di leadership. Cosa che mi fece capire che era una persona molto speciale».
Però in un primo momento lei voleva fare il poeta. «Da liceale avevo letto Che cos’è la letteratura? di Jean-Paul Sartre, che metteva al primo posto la definizione rispetto all’invenzione artistica, ed era così intrigante che mi ha portato sulla strada della saggistica. Sono diventato critico per ragioni sociali e politiche. Credo che un critico letterario sia sempre ispirato da un suo demone che non riguarda solo la letteratura ma i rapporti con la vita comune e con le regole sociali. Gli scrittori mi interessano come individui asociali, antisociali. Scrivere critica è diventato il mio modo di fare letteratura».
Da accanito polemista, però. «Se la cultura diventa meno selettiva e di massa è inevitabile pronunciare un maggior numero di giudizi negativi. Mi è poi capitato di essere così antipaticamente critico perché di fatto di critica ce n’è poca».
Una fortunata eccezione è Elsa Morante, sua amica, su cui non ha mai avuto alcuna riserva. «Fu lei che volle conoscermi dopo aver lettoun mio saggio. Io all’epoca
non ero ben documentato su tutta la sua opera. E sul suo romanzo La storia avevo qualche dubbio. Glielo dissi con un nodo alla gola ma lei accettò. Era straordinaria nell’amicizia».
A chi vorrebbe oggi dedicare dei ritratti non al fiele? «A tre recenti classici, chiamiamoli così, della contemporaneità. Raffaele La Capria che con A
cuore aperto
ha scritto uno dei suoi libri più belli, degno di entrare nel Pantheon; a Patrizia Cavalli, in cui vive del tutto naturalmente la tradizione del verso italiano, e ai saggi di Bellocchio, lo Chamfort dei nostri tempi, ovvero l’ultimo dei moralisti»." (da Mirella Serri, “Ma dove sono finiti
i tarli della coscienza?”, da "TuttoLibri", "La Stampa", 10/04/'10)

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