lunedì 30 aprile 2012

Alte tirature

"Duole dirlo, ma l'incipit di Alte tirature - La grande narrativa d'intrattenimento italiana di Vittorio Spinazzola non è incoraggiante. Nella prima pagina compaiono l'una dopo l'altra le seguenti espressioni: «valore emblematico», «immaginario collettivo», «ambiguamente ammiccante» e «segnale forte». Del resto qualche nube di perplessità si addensava già sull'indice dove, in fila dopo Melissa P. e Moccia, compariva Saviano. Gomorra narrativa di intrattenimento? Intrattenimento, entertainment, la camorra di Casal di Principe? Mah ... Duole, dicevamo, e duole in particolar modo perché, superate queste irritazioni epidermiche, al lavoro di Spinazzola va riconosciuto il grande merito di avventurarsi in solitudine e con sprezzo del pericolo sull'accidentato terreno della narrativa di intrattenimento. E lì giunto, di avanzare tranquillamente con i robusti scarponi e il passo cadenzato del professore. Che, fuor di metafora, vuol dire dissezionare con metodicità - come se fossero Le confessioni di un ottuagenario o la Gerusalemme liberata - Fantozzi e Porci con le ali, Un uomo della Fallaci, le opere di Sveva Casati Modignani e le Formiche di Gino e Michele, il Cuore della Tamaro e il Jack frusciante di Brizzi, le opere di Camilleri e Faletti, per chiudere, come si è visto, con Melissa P., Moccia e Saviano. Una compagnia assai eterogenea, si dirà. Non senza ragione. A tenerla insieme, la compagnia, c'è un dato di fatto evidente, il comune successo di vendita, l'essere tutti dei bestseller. Una caratteristica richiamata nel titolo con l'imprudente dizione Alte tirature, che rievoca il bon mot di Luciano Mauri «grazie per le magnifiche rese», rese che sono spesso il corollario delle alte tirature. Meglio alte vendite dunque, ma insomma sempre un riferimento quantitativo. Ora la quantità, anche se non gode di buona stampa, è una cosa seria, molto seria. Non solo perché è concupita apertamente dagli editori e segretamente dagli autori, specie quelli più high brow, ma perché è una categoria aristotelica e deve essere maneggiata con cura. Se si ragiona in termini di quantità bisogna considerare tutte le quantità, non solo quelle dei libri ritenuti in partenza inferiori per confermare così, tautologicamente, l'equazione quantità uguale inferiorità. Quindi, se questo è il criterio, va applicato senza preventive (e assai discutibili, come si e' visto nel caso di Saviano) distinzioni di genere e senza opporre italiani e stranieri. Perché la quantità riflette il giudizio del pubblico, al quale interessa il libro e non il fatto che sia italiano o straniero. E dunque bisognerà includere, anche restando ai soli italiani, Il nome della rosa e soprattutto La Storia di Elsa Morante, capolavoro letterario certamente, ma anche primo caso di marketing davvero aggressivo nella storia libraria d'Italia, quando Einaudi comperò di domenica l'ultima pagina del Corriere e la lasciò tutta bianca salvo in mezzo, piccola, la copertina. E perché non parlare del Gattopardo e del Dottor Zivago? Il punto è che, saltando come il camoscio carducciano sulle vette di vendita per un arco di tempo sufficientemente lungo, si disegna un profilo che è una vera e propria storia del gusto, ricca di sorprese e molto, molto interessante. E si vede anche come la dimensione fisica del successo sia cambiata nel tempo, passando dall'ordine di grandezza delle centomila copie degli anni Ottanta al milione degli anni Duemila. Fenomeno che attende ancora una spiegazione convincente. Tutt'altra musica se si parla di generi e di narrativa di genere. Innanzitutto perché in non pochi casi la collocazione sotto la voce intrattenimento è un gesto - che cela in realtà un giudizio - del critico e non riflette certo l'intenzione dell'autore. Difficile che la Fallaci, la Tamaro, Brizzi e fors'anche Moccia pensassero di fare con i loro romanzi opera di intrattenimento. Per certo non lo pensava Saviano. E poi perché andando a vedere che cosa c'è, secondo Spinazzola, dentro il vasto contenitore dell'intrattenimento si scoprono oggetti disparati. Per cominciare due generi autoctoni, italianissimi. Il primo, da Porci con le ali a Melissa P, è quello che ruota intorno al sesso, meglio se giovanile, meglio ancora se adolescenziale. Genere questo di buone prospettive nel nostro paese cattolico, dove il peccato ha fascino, ma non grandezza e finisce sempre per identificarsi con quella tal cosa. Il secondo è il genere, anch'esso peculiarmente italiano, del grottesco politico e sociale, rappresentato qui da Fantozzi, ma che ha il suo più illustre precedente in Don Camillo. Figli entrambi - Don Camillo e Fantozzi - del geniaccio editoriale di Angelo Rizzoli senior, inventore di una sorta di missile a tre stadi. Il primo dei quali è una svelta rubrichetta tenuta su Candido da Guareschi e sull'Europeo da Villaggio; il secondo è la raccolta in volume delle rubrichette e dunque la loro trasformazione in libro unitario, con immenso successo, anche internazionale (le sofisticatissime Editions du Seuil si fecero in realtà le ossa su Don Camillo); il terzo è il film, sempre dal grand'uomo (in veste qui di Cineriz), prodotto,e anche qui baciato dalla fortuna. Per non dire che con Fantozzi si aggiunse un quarto stadio, quando il cumenda (così era chiamato) dopo il rifiuto di Tognazzi e Manfredi, convinse l'autore stesso, Villaggio, a diventare anche l'attore e a chiudere il cerchio. Trasfigurando così Fantozzi in un archetipo eterno e universale. Ma le dolenti note per la letteratura italiana di intrattenimento vengono dai generi più classici e non tanto da quelli femminili, dove la Sveva Casati Modignani considerata da Spinazzola regge dignitosamente il confronto con le sue simili internazionali dalla Steel, alla Krantz, anche se non forse alla Pilcher. Quanto da quelli maschili. Qui a partire dagli anni Settanta e ad opera principalmente di autori anglosassoni si è verificata una vera e propria rivoluzione. Si è alzato, nettamente, il livello qualitativo (e qui la qualità è un fatto, concreto e misurabile) e soprattutto questi libri, che erano considerati di quarta categoria, sono stati posti editorialmente parlando in prima fila, hanno guadagnato le luci della ribalta. In Italia, dopo lo smacco del Padrino rifiutato da tutti i grandi editori, il profeta dell'intrattenimento alto fu Mario Spagnol, specie nella sua stagione rizzoliana, quando affiancò al capolavoro assoluto - La talpa di John le Carré - gli ottimi L'Azteco, Radici e molti altri. Wilbur Smith l'avrebbe invece scoperto più tardi, nel periodo longanesiano. Ma il primo a cercare la sistematicità in questo settore, alla fine degli anni Settanta fu Vittorio Di Giuro, per Bompiani, presto superato però dall'asso del genere, Giancarlo Bonacina di Mondadori, che in poco più di un decennio allineò nella sua formidabile scuderia quasi tutti gli autori maggiori con i loro libri inaugurali di nuovi sottogeneri: Ken Follett, Scott Turow, Martin Cruz Smith, John Grisham, Thomas Harris, Robert Harris, Peter Hoeg, Patricia Cornwell, oltre allo stesso le Carré, a P. D. James e al preesistente Forsyth. Dei veramente grandi rimasero fuori solo Michael Chrichton e Stephen King. Ora, la peculiarità della produzione italiana è che da noi l'intrattenimento alto non si è in sostanza mai visto. In parte - in gran parte - perché la vocazione (o aspirazione) letteraria ha finito per essere più forte, per esercitare un'invincibile attrazione gravitazionale. Così è stato ed è per Lucarelli, per Carofiglio, per De Cataldo, per Carlotto. Ma persino Il nome della rosa, che per un verso è l'unica vera e grande gloria italiana dell'intrattenimento, l'opera inaugurale di un nuovo e fortunatissimo genere, la detective story di cultura, per un altro è una sperimentazione letteraria estrema. In altra parte perché molta produzione italiana di genere è rimasta legata a modelli più classici, precedenti la rivoluzione dell'intrattenimento alto. Così è per lo stesso Camilleri, dove la macchina narrativa - da lui pazientemente smontata e rimontata più volte nelle sceneggiature televisive - è quella di Maigret, ma il succo dei libri è tutto nell'invenzione di una lingua, un parasiciliano ironico e sorridente. Insomma, l'intrattenimento alto - solido e ben fatto - è forse il termometro che meglio misura la cultura diffusa, quella non degli intellettuali di professione, ma della gente comune, educata e incivilita. Sarà per questo che da noi latita e langue. Sarà per questo che qui noi siamo decisamente meno bravi." (da Gian Arturo Ferrari, L'arte dell'intrattenimento, "La Repubblica", 23/04/'12)

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