Biblioteca civica "MINO MILANI" bibliogarlasco@yahoo.it tel. 0382/801009 "Le paradis, à n'en pas douter, n'est qu'une immense bibliothèque" (Gaston Bachelard) SELEZIONE DI ARTICOLI SULL'UNIVERSO-LIBRO
sabato 21 aprile 2012
I Sillabari di Nanni Moretti
"A leggerli oggi sembra incredibile ma nei primi anni Settanta i Sillabari di Goffredo Parise furono al centro di furibonde polemiche. Le storie contenute nel libro e il suo autore furono accusati di disimpegno, forse anche di diserzione, addirittura di frivolezza, peccato capitale nell’Italia engagé che aveva preso il posto dell’Italia yéyé del decennio precedente. E Parise rinfocolò il dibattito dichiarando provocatoriamente che lui amava lo stile di vita rappresentato dal Ritz, il glorioso albergo parigino. Gli dettero del venduto alla borghesia.
Chi allora polemizzava aveva torto (sempre chi polemizza ha torto). Quei racconti (ma la loro definizione migliore è di Cesare Garboli: «romanzi virtuali»), scritti a partire dal 1971 sul «Corriere della Sera» in ordine alfabetico (dalla A di Amore alla S di Solitudine, la lettera che segnò di colpo la fine dell’ispirazione), erano solo e soltanto dei capolavori, storie che raccontavano, una alla volta, un sentimento e rifuggivano dai tempi che correvano per cercare un altro tempo.
I grandi libri sono grandi perché hanno una voce, la voce inconfondibile e unica di chi sta raccontando. Può essere la voce di un american boy che ha problemi di crescita (come l’Holden di Salinger) o quella di Dio (nella Bibbia o nel Corano, certo, ma anche — non fatevi fuorviare dal forte accento russo — in Guerra e pace). La voce dei Sillabari pensavo che fosse la voce (a volte quasi una vocetta, a causa della dolce pronuncia veneta) di un uomo ormai cinquantenne, molto poeta e vagamente teppista (per posa ma anche per istinto di ribellione). La voce di «un uomo che amava la sua vita e quella degli altri, comunque fosse, ma non si guardava mai allo specchio», però un giorno «uscendo dal bagno si vide un attimo e gli bastò quell’attimo per capire tutto». La voce, cioè, di Goffredo Parise (nato a Vicenza, morto a Treviso nel 1986 ad appena 57 anni).
Mi sbagliavo. L’abbecedario parisiano ha anche un’altra voce. Una voce di ragazzo che sembra sempre sul punto di spezzarsi, con una leggera velatura di isteria adolescenziale. La voce di Nanni Moretti. Il regista ha infatti inciso (credo che sia la parola giusta, perché ogni capitolo dei Sillabari è come una canzone) un audiolibro con il capolavoro di Parise. E questa sua lettura, pur nella estrema umiltà con cui la prestazione è stata fornita, ha dato molto al libro (così come credo, da quanto ho avvertito nella sua dizione, che Parise abbia dato molto a lui).
Finito di ascoltare (una decina di ore) Parise letto da Moretti, mi sono sentito commosso e incuriosito. La commozione l’ho tenuta per me. La curiosità l’ho girata a Nanni Moretti per chiedergli un po’ di cose intorno a questo singolare (ed eccellente) audiolibro. Il regista, reduce da «giornate un po’ faticose», appena tornato a Roma, negli uffici della Sacher, la sua casa cinematografica, dopo un soggiorno newyorkese, ha accettato pur mettendo le mani avanti per timore di usurpare lo spazio che è di Parise. «Va bene, ma sarò telegrafico».
La prima curiosità riguarda come è nata l’idea. Nelmodo più normale: «La casa editrice Emons mi ha chiesto se volevo leggere un libro e io ho subito pensato ai Sillabari di Parise».
Tutto qui? Tutto qui. Tale è l’intensità e la confidenza (familiarità, starei per dire) con cui il regista legge i Sillabari da far presupporre una frequentazione, una conoscenza con l’autore. «Parise non l’ho mai conosciuto di persona». Però un rapporto tra i due c’è stato. «Qualche anno fa mi è capitato di rileggere con stupore un pezzo che Parise scrisse per il “Corriere della Sera” su Ecce Bombo (c’era ancora la “terza pagina”). A quei tempi, parlo del ’78, non gli avevo dato la giusta importanza, ero stato un po’ distratto, forse ero troppo abituato a leggere cose positive sul mio film».
L’articolo di cui parla Moretti fu pubblicato il 15 aprile con il titolo «”Ecce Bombo” e l’aria del ’68». Ed è un bellissimo articolo (ma questa non è una notizia: Parise scriveva solo pezzi bellissimi), molto lusinghiero nei confronti del giovane Moretti, allora agli esordi (aveva girato solo Io sono un autarchico e una parodia dei Promessi sposi). Parise paragona Moretti a Moravia, a Ermanno Olmi (Il posto «è il fratello più vecchio di Ecce Bombo»), a Buñuel. E gli riconosce una dote inedita in Italia: «L’humour che, come tutti sanno, è il contrario e ben più efficace e allegro e vitale contrappeso del comico, ahimè triste, pessimistico ed eterno retaggio del nostro Paese».
Se lì per lì Moretti snobbò le lodi di Parise, col tempo ha saputo ricambiare facendo dei Sillabari una sorta di talismano. «Senz’altro è il libro che più ho regalato nella mia vita (gli altri sono i libri di Natalia Ginzburg e Narratori delle pianure di Gianni Celati). Non so spiegare perché, ma mi sembra che i Sillabari abbiano la stessa malia e la stessa grazia di Heimat 2, un film in tredici episodi di Edgar Reitz, che con i suoi personaggi e la sua ambientazione nella Monaco degli anni 60 catturava allo stesso modo lo spettatore».
Chiedo a Moretti di abbozzare una playlist degli scrittori italiani da lui amati in maniera particolare così per capire i suoi gusti in materia. «Ho gusti abbastanza classici: Calvino, Sciascia, Rigoni Stern, Bianciardi, Fenoglio più di Pavese… E poi, ma stiamo parlando di quarant’anni fa e comunque non di un narratore, Franco Fortini. Ricordo ancora i suoi pezzi sul Manifesto. Poco tempo fa ho riaperto un suo vecchio libro, Verifica dei poteri. Sono andato subito a rileggere i pezzi che avevo a suo tempo sottolineato, ma ormai non capivo più niente».
Torniamo a Parise (di corsa) e alle indicazioni di regia che Moretti ha dato a se stesso come lettore dei Sillabari. «Mi sembra che alle volte, leggendo, gli attori sovrappongano ai testi un eccesso di interpretazione. Io ho semplicemente cercato di far risuonare le parole e il tono di Parise. Alle volte certi ruoli si possono interpretare in un preciso momento, non prima e non dopo. Ora, senza farla troppo tragica, mi sembrava arrivato per me il momento giusto per leggere e capire meglio quel libro».
Si sente una fortissima sintonia tra Moretti e Parise, qualcosa di speciale. Per dire la cosa più facile e divertente, c’è una battuta dello scrittore, a proposito di un classico dolce austriaco di cui un personaggio è molto goloso, «I politici… cosa sanno loro del kipferl?», che suona quasi più morettiana che parisiana e fa venire in mente gli onori tributati dal regista alla Nutella e alla Sachertorte. Oppure quel pensiero che coglie uno dei personaggi mentre guarda uno stormo di fischioni che vola alto nel cielo («Che vita collettiva e solenne, come quella dei vescovi in San Pietro con le loro mitre e i loro canti»), un pensiero che sarebbe stato benissimo nella sceneggiatura di Habemus papam. Per cui ascoltando la lettura dei Sillabari spesso ci si chiede se è più parisiano Moretti o più morettiano Parise. Ma forse mi sto allargando troppo perché il regista su questo piano non mi segue, nemmeno telegraficamente. Meglio cambiare argomento.
Una delle magie dei Sillabari è che sembrano più attuali adesso di quando furono scritti. Come se oggi più che mai, e in Italia più che in ogni altro posto, avessimo bisogno di un abbecedario per mettere in ordine (alfabetico) i sentimenti. Moretti concorda e va oltre. «Sì,mettere in ordine — e conoscere — i sentimenti, vivendoli magari in modo meno esteriore. Ma anche ricominciare a parlare di principi e di valori (per poi essere subito accusati, naturalmente, di “moralismo”)».
Tra tutti i sentimenti che Parise racconta ce n’è uno che lui chiama «un sentimento italiano senza nome». Lo prova uno dei suoi personaggi e ne è commosso fino alle lacrime. L’uomo stila anche una lista delle meraviglie italiane che ispirano quel sentimento italiano senza nome: «La grotta sottomarina dei Faraglioni, le trippe del ristorante Troja di Firenze, il film La dolce vita». E, in un’altra pagina, Parise parla di un particolare tipo di genio italiano («ma non di tutti gli italiani »). Quel genio «di muoversi, di camminare e di sorridere che è come bagnato dal mare Mediterraneo. Il sole dell’Adriatico fa molto ma non è come il Mediterraneo nei corpi e nelle movenze delle persone veramente italiane». Tutto ciò è bellissimo e non ci sono domande da fare a proposito. Se non una, quasi straziante, e della quale non si vorrebbe nemmeno sapere la risposta: il sentimento e il genio italiani di cui scrive Parise esistono ancora? E la risposta di cui si ha paura è quella che dà Moretti: «Parise scriveva quei racconti in un’altra Italia. Forse quel sentimento è legato a un’idea di società e a un Paese che non c’è più. Un Paese spezzato da tutte le parti e in cui a fatica i cittadini si sentono parte di una comunità».
Ma forse il sentimento decisivo che ispira il libro è il sentimento della brevità della vita. Se ne parla continuamente, si avverte in ogni sospiro dei personaggi. Lo si riscontra nella malinconia del crepuscolo che colpisce la bambina ricca in vacanza nella colonia dei bambini poveri. Lo si trova, struggente in maniera quasi insopportabile, nella storia (un po’ hemingwaiana) dell’uomo infilato dentro una botte per cacciare folaghe nella laguna, il quale sogna, per consolarsi appunto della brevità della vita, di comprarsi un Purdey, un fucile di precisione costosissimo. E qui, in questo desiderio quasi capriccioso di avere un Purdey, si può apprezzare in pieno la particolare, acuminatissima, disperata, ironia di Parise. Moretti la coglie benissimo con adeguate sfumature di tono nella sua lettura del racconto. Gli chiedo se pensa anche lui che il sentimento della brevità della vita sia la maggior fonte di ispirazione (e disperazione) dei Sillabari. Ma il regista mi spiazza con una ipotesi più ottimista della mia: «Forse la maggiore fonte di ispirazione di Parise è la scoperta di quelle sorprese che possono confermare la forza della vita, un critico direbbe le “epifanie” della vita».
È arrivato, era inevitabile, il momento di parlare di cinema. Ci sono moltissimi film possibili nei Sillabari. C’è un tragico film su Salò, con il repubblichino Ico (elegantissimo e crudele) che viene fucilato e lui pensa che sia tutto uno scherzo. C’è il film di Bruno, un vedovo di quarant’anni, operaio in un mobilificio, che, per la prima volta nella sua vita, va in vacanza in camping al mare (di Jesolo), e poi ritorna d’inverno sul luogo del diletto estivo e ha la sensazione che il camping e la gente che lì ha incontrato (compresa una ragazza con la quale forse ...), non ci siano mai stati. La filmabilità di Parise (che fu anche sceneggiatore) non è sfuggita ovviamente al regista: «Alcuni racconti sono veri e propri cortometraggi, altri possono essere spunti e soggetti per film, altri ancora sono delle vere e proprie scene, e questi sono forse i momenti che con più precisione fanno pensare al cinema, per esempio gli sciatori nel racconto Amicizia».
A proposito di film, forse scopro l’acqua calda, ma sin dal primo momento in cui ho cominciato ad ascoltare l’audiolibromi è venuto in mente America oggi, il film che Altman trasse in maniera magistrale dai racconti di Carver. Magari (la butto lì) Moretti potrebbe fare un film sui Sillabari. «In questi termini, non ci ho mai pensato. Quel libro è stato spesso un riferimento per poi provare a immaginare altro,ma senza mai trovare la chiave giusta. Vent’anni fa avevo pensato a un mio personale Sillabario, fatto di tanti pezzetti brevi, era un tentativo di pamphlet politico-morale che non mi convinceva e allora lasciai perdere».
Quando uno legge i Sillabari finisce per identificarsi con quanto è raccontato. La prima a notarlo fu Natalia Ginzburg. Come se leggendo questo libro ognuno scrivesse la propria autobiografia sentimentale. È capitato anche a Moretti? «Diciamo che ti viene voglia di pensare alla tua autobiografia sentimentale»." (da Antonio D'Orrico, I Sillabari di Nanni Moretti, "Corriere della Sera")
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