sabato 12 marzo 2011

Lettera a una professoressa


"Ci sono libri (Pinocchio, l’Artusi, I Promessi Sposi, Cuore, Il piccolo alpino ...) che hanno fatto l’Italia. Altri restano muti sugli scaffali, benché onorati non entrano nel patrimonio culturale del Paese: sono i libri che non hanno fatto l’Italia (Delle cinque piaghe della Santa Chiesa di Rosmini, mai recepito né dalla Chiesa istituzionale né dalla più vasta cerchia dei credenti italiani; o Il Santo, di Fogazzaro: grande successo all’estero e qui messo all’Indice; o l’Antistoria d’Italia del triestino Cusin, critico intelligente dell’antropologia italica, che anche gli energumeni della Lega potrebbero leggere con profitto).
Altri libri, invece, vengono acclamati fin dal primo apparire, diventano quasi la sineddoche di un intero giro d’anni, ma restano sostanzialmente fraintesi. A esempio gli scritti di Basaglia, cui venne poi data la colpa di essere morto a metà dell’opera, mentre la struttura reinterpretava a modo suo un mai dichiarato «liberi tutti!».
Ma anche il famoso Lettera a una professoressa, opera collettiva di don Milani e dei suoi studenti di Barbiana, pubblicato nel maggio 1967 (don Milani morirà un mese dopo), pochi anni dopo la riforma della scuola media unificata e obbligatoria fino ai 14 anni (1963). Quel testo divenne una bandiera della rivolta studentesca del ‘68, oggi così deprecata, e ispirò, nel 1969, uno spettacolo militante di Dario Fo L'operaio conosce 300 parole, il padrone 1000. Per questo lui è il padrone. E naturalmente a esso rimandarono poi infinite esperienze pedagogiche e antipedagogiche e decine di titoli editoriali e controcorsi nelle università occupate, con richiami non sempre pertinenti a Illich e a Freire, e, con maggior fondatezza, alla pedagogia di Mario Lodi, il grande maestro di Piadena, che negli stessi anni faceva nella Bassa lombarda un percorso analogo a quello di don Milani sull’Appennino toscano.
Protagonisti emblematici del libro sono Gianni, il figlio di contadini poveri regolarmente respinto dalla scuola, e Pierino, il ragazzino borghese cui spiana la strada il fatto di essere ricco, non tanto o non solo di soldi, quanto soprattutto di quello che i soldi potevano dare nell’Italia degli Anni Sessanta: lingua, libri, cultura. La dicotomia è demagogica solo in prima battuta: una serie di tabelle statistiche elaborate dagli autori dimostra inesorabilmente come la scuola di allora
fosse realmente una valvola regolatrice dell’esclusione e dell’inclusione sociale funzionante in un solo senso.
Il fatto è che don Milani, prete cattolico convertito dall’ebraismo di famiglia, aveva scelto l’unico luogo possibile a un cristiano credente: il luogo occupato dai poveri, da «coloro che non possiedono» (Ranchetti).
Di qui l’apodittica semplicità della sua parola, priva di presupposti teologici e dogmatici, nata da una fede solo apparentemente ingenua perché senza apparati esegetici di riferimento.
Di qui, anche, il gusto per la scrittura collettiva, anti-individualistica, per la pagina costruita insieme coi ragazzi, come nel Medioevo una folla anonima ma unita costruiva una cattedrale. E le pagine di Lettera a una professoressa sono scritte benissimo, in una prosa scarna, chiara e netta, con le parole e le frasi che si disegnano come i salti di sassi ben lanciati su acque tranquille. Ma dalla scelta di campo tra i poveri nasce anche la durezza della scuola di Barbiana. Altroché permissivismo sessantottino!
Tutto il giorno, tutti i giorni, domeniche comprese, perché «la scuola sarà sempre meglio della merda» come dice un ragazzo che rigovernava ogni giorno le 36 mucche del padrone.
Niente ricreazione. Al posto delle vacanze, viaggi di lavoro e studio all’estero. Rigore e severità, nessuna comprensione per le «esigenze dei giovani», lusso che solo i privilegiati possono permettersi. E visto che si tratta di scuola dell’obbligo il contratto dei metalmeccanici o la Seconda guerra mondiale piuttosto che la mitologia o la neve che fiocca fiocca fiocca («Quando la scuola è poca, il programmava fatto badando solo alle urgenze»). La cultura di base deve essere viva e servire alla vita. Inutile fare i «custodi del lucignolo spento».
Poi, con gli anni e la burocratizzazione, dalla battaglia contro le bocciature per insegnare a tutti e a tutti dare forza e fiducia in sé stessi perché nessuno più si senta uno scarto della società, si è passati al 6 politico, e dall’impegno diuturno, che contemplava persino l’elogio del celibato, si è passati a un tempo pieno riempito spesso di vacuità.
Il che non giustifica le intemperanze della signora Gelmini, che certo non si ispira al rigore del «cattocomunista» don Milani (il peggio del peggio!). E oggi, nell’americanizzazione forzata e astorica, spacciata per «modernizzazione», la differenza tra Pierino e Gianni si è istituzionalizzata: nemmeno più scuola di ricchi e poveri, ma scuola (buona, privata o all’estero) dei ricchi e scuola (scadente, statale) dei poveri. In una torva parodia di Barbiana, il rifiuto di una cultura sterile è diventato rifiuto della cultura tout court: secondo i giovani virgulti padani, è meglio lavorare e far soldi piuttosto che perdere tempo a scuola. E così la ricchezza produce ignoranza, anzi incultura, che è peggio. Come scrisse il ticinese Francesco Chiesa «L’ignoranza è un terreno vergine, spesso ricco e profondo. [...] L’incoltura è la solida impenetrabile sterilità del terreno pago di nutrire qualche fil d’erba»." (da Gianandrea Piccioli, A Barbiana sono risorti gli ultimi, "TuttoLibri", "La Stampa", 12/03/'11)

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