Biblioteca civica "MINO MILANI" bibliogarlasco@yahoo.it tel. 0382/801009 "Le paradis, à n'en pas douter, n'est qu'une immense bibliothèque" (Gaston Bachelard) SELEZIONE DI ARTICOLI SULL'UNIVERSO-LIBRO
lunedì 28 maggio 2012
I romanzi del doppio
"Una serie di storie formidabili riunite sotto il titolo I romanzi del doppio, appena proposta dalla Bur di Rizzoli, illumina il nucleo dello sdoppiamento nella fiction "classica". Non è un discorso coniugabile solo al passato: lo stesso intramontabile motivo insiste nell'emergere con prepotenza oggi, trovando sbocchi nel cinema, in letteratura e persino nei serial televisivi (vedi la Toni Collette di United States of Tara, in grado di calarsi in identità parallele). Firma la scelta che compone la raccolta della Bur Guido Davico Bonino, a cui il tema deve stare a cuore, visto che ha già curato un precedente viaggio nel medesimo argomento (Io e l'altro. Racconti fantastici sul doppio, Einaudi 2006). L'attuale volume è sorprendente, pur non essendo valutabili come "scoperte" (e questo è ovvio) alcune invenzioni accolte dall'antologia, come La metamorfosi di Kafka, Il ritratto di Dorian Gray di Wilde e Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde di Stevenson, parabola fiorita non a caso in epoca vittoriana, quando l'istintualità animale, radicata in ciascuno di noi, esigeva di prendere corpo in un perfetto campione di malefici come Hyde per poter essere opportunamente esorcizzata. Queste trame sono così archetipiche e ben piantate nel nostro immaginario, che le conosce anche chi non le ha mai lette. Ma ciò che conta, nell'architettura del librone, è l'idea di accorparle sotto il segno della duplicità, lanciando un trait d'union con vicende meno note. Un esempio è Lui? di Guy de Maupassant, dove il narrante è ossessionato dall'allucinazione avuta un giorno, quando gli capitò di scorgere un riflesso del suo io, contiguo e ostile, accomodato nella sua poltrona davanti al fuoco acceso. E forse non è familiare a folle di lettori l'invischiante racconto di Joseph Conrad Il compagno segreto, che è ambientato, molto conradianamente, su una nave in mezzo al mare: avviene che una notte il protagonista peschi, dalle acque tenebrose dell'oceano, un omicida in fuga, per poi nasconderlo nella sua cabina e trasformarlo nell'incarnazione della parte più buia della propria anima. La dinamica del doppio ha un potere inestinguibile: per questo, lungo i secoli, ha chiesto sempre d'essere riconosciuta. Dal Ka degli antichi egizi alle Metamorfosi di Ovidio, il rovello risale a età remote, e finisce per incanalarsi nel Doppelgänger ("colui che cammina al tuo fianco") coniato ed esaltato dal romanticismo tedesco. Adelbert von Chamisso (1781-1838), con la sua Storia meravigliosa di Peter Schlemihl l'uomo che ha perduto la sua ombra (è la novella che apre il volume della Bur), nutre e solidifica tale ottica, fornendo una piattaforma per elaborazioni successive sempre più complesse. Dominato da passioni che confliggono tra loro coabitando con pari intensità nel medesimo individuo, l' essere umano vive nell'incubo assillante di quell'"altro da sé" che percepisce come intimamente affine, seppure antitetico. Che sia una questione incorporea, come lo è l'ombra, venduta e dispersa, creata da von Chamisso; o che sia il glissare nella dimensione "altra" della schizofrenia che annienta il soggetto di Il sosia di Dostoevskij; o che produca lo spettro di un omonimo, coincidente con un'identità rubata, così come accade in William Wilson di Edgar Allan Poe (divenuto un episodio memorabile, firmato da Louis Malle, del film Tre passi nel delirio, 1968), l'assimilazione tra il sé e l'oscura alterità che gli è connessa alimenta un intero patrimonio di spunti etici e fantastici. Sono così ricorrenti - nel mito, nelle arti sceniche, nel racconto declinato in ogni campo - da offrirci uno sguardo panoramico sull'esistenza tutta. Per comprenderlo basta limitarsi a osservare la pura narrazione, senza indagare nei territori - mastodontici rispetto a tale problematica - della filosofia e della psicoanalisi (vedi solo lo studio di Otto Rank Der Doppelgänger, 1914, che suggerisce un legame tra il doppio e la morte). È basato sul senso dell'alter ego un film di culto come Fight Club, tratto dal romanzo di Chuck Palahniuk, e lo sdoppiarsi di un uomo si traduce nel sortilegio di uno scambio di personalità tra due maghi nel film The Prestige. In sostanza trattava dello stesso tema anche il film Sliding Doors, la cui eroina Helen percorreva il binario di due livelli di realtà. Naturalmente l'horror contemporaneo non poteva rinunciare a un motore di paure stimolante come il doppio: lo ha dimostrato Stephen King nel romanzo La metà oscura, divenuto anche un film di George A. Romero. E sempre a King, sovrano del proprio genere letterario, si deve la paternità di Finestra segreta, giardino segreto, dove il protagonista Mort si sdoppia in Shooter, che è una personificazione dei suoi sentimenti maledetti verso la moglie (da qui è nato il film Secret Window, con Johnny Depp). «Ciascuno cerca l'altro», ha scritto Borges, aggiungendo: «Fosse almeno questo l'ultimo giorno dell'attesa». E Fernando Pessoa, ne Il libro dell'inquietudine, ci ha spiegato che «al termine di questa giornata resta ciò che è rimasto di ieri e che rimarrà di domani: l'ansia insaziabile dell'essere sempre la stessa persona e un'altra». Forse proprio all'urgenza di svanire nell'altro da sé, espressa da uno scrittore da lui tanto amato come Pessoa, si è ispirato Antonio Tabucchi in Notturno indiano, dove il raccontatore traversa l'India in cerca dell'amico Xavier: e noi, leggendo, sospettiamo sempre di più che Xavier non sia che una sua proiezione. Nella narrativa gli esempi sono così frequenti che ciascuno potrebbe ricomporre un suo personale catalogo di doppi, ipoteticamente senza fine come il moltiplicarsi della vita." (da Leonetta Bentivoglio, Stevenson o Kafka perché lo scrittore inventa il doppio, "La Repubblica", 27/05/'12)
sabato 26 maggio 2012
Sveva Casati Modignani, Leonie
"Incrollabile Sveva. Mai la minima flessione. È uscito da poco il nuovo libro della Casati Modignani, Léonie: un nome ritagliato da Proust per una tipica storia "sveviana" d'amore e di famiglia (villona lombarda, dinastia di industriali, griglia di rapporti pieni di segreti). Una mega-soap approdata alla terza edizione e alle duecentomila copie in un paio di settimane. Ora, al solito, Sveva veleggia in cima alle classifiche. Per l'ennesima volta, questa settantacinquenne signora milanese dal pomposo nom de plume - il vero nome è Bice Cairati - si dimostra un mastino del longseller, che in una trentina d'anni di trame sospirose, dialoghi "anticati" da fotoromanzo e sfondi ambientali di disarmante schematicità (debuttò nell'81 con Anna dagli occhi verdi, e Léonie è il suo ventitreesimo romanzo), ha venduto undici milioni di libri e conquistato traduzioni in venti paesi. Sul versante della prolificità e della tenuta commerciale, non c'è un Eco o un Camilleri o un De Carlo che le tenga testa. E fa sempre centro senza pubblicità, snobbata da recensori e premi letterari. «Me ne infischio dei riconoscimenti», dichiara lei con voce flautata. «Se dovessi scegliere tra un premio e la frase appena regalatami da una donna in un iper-mercato di Varese, non avrei dubbi. Mi ha detto: oggi potevo comprare un chilo e mezzo di lesso oppure il suo romanzo. Ho preso il libro, è ovvio. E che i miei figli rinuncino al lesso. L'avrei applaudita».
Signora Sveva: negli anni Ottanta, stando in classifica, se la vedeva con Moravia. Ora, nella lista dei bestseller, gareggia con Del Piero. I tempi corrono, ma lei non cambia. «Ho cominciato piano, sommessa, narrandomi storie e scoprendo quanto mi divertivo a farlo. Poi mi sono accorta che i lettori godevano con me. Scrivere mi dà un piacere enorme e credo d'infonderlo nelle mie pagine. Non capisco gli autori che soffrono scrivendo. Ma via, che cambino mestiere».
Si è interrogata sui motivi del suo successo? «Nei miei libri si avverte sincerità. E gusto genuino dell'affabulazione. C'è la musica classica e ci sono le canzonette. Io sono brava nelle seconde. A volte le storie mi piacciono così tanto che non vorrei sprecarle mettendole su carta. L'ho detto al mio editore mentre immaginavo Léonie: ho in mente un libro così bello che quasi quasi non te lo do ...». Qual è stata la sua formazione? «Vengo da una famiglia modestissima. Fu mio padre, un commerciante, a introdurmi alla letteratura. Ero una bambina e lui mi leggeva Gian Burrasca, Pinocchio, Les histoires du Petit Nicolas. Poi ho letto Verne, Salgari, Rafael Sabatini. In seguito ho scoperto Gorkij, Dostoevskij, Tolstoj, Balzac, Dumas, La Fiera delle Vanità di Thackeray ...».
Quando iniziò a scrivere? «Prestissimo. Da piccola firmavo racconti per il giornalino parrocchiale. E il parroco rifiutava i miei finali tragici. Gli diedi la novella di un bambino che moriva alla fine, e lui mi disse: No! Dobbiamo aprire una finestra sulla speranza! Aveva ragione. La vita è troppo scarsa di lieti fini. Meglio provvedere».
Happy end anche per Léonie, con svelamento del rispettivo amore tra la protagonista e il marito Guido, dopo i tradimenti. Possibile? Realistico? Tagliato con l'accetta? Non crede che l'amore sia cambiato? «Macché. Pensi ad Anna Karenina. Non è una vicenda attualissima? Legga le cronache sui giornali. Cambiano approcci e modalità, ma non i sentimenti. Comunque ogni storia d'amore è per me una maniera di riflettere una società».
Dunque si riconosce nella definizione di "rosa-sociale"? «Non amo le etichette. Faccio romanzi d'intrattenimento. Ripercorro gli ultimi decenni italiani attraverso figure femminili: operaie, mondine, borghesi, femministe ... Le donne sono più sorprendenti e complesse degli uomini, piatti e lineari, sempre simili a loro stessi».
Amore e sesso: ce n'è in ogni suo libro. Ma il secondo è mascherato, celato, dato per implicito. «Esplicitarlo non serve. L'interessante sta nei preliminari, cioè nell'arrivarci. Il sesso di per sé non è elegante».
Ha iniziato lavorando come giornalista a La Notte. È stato utile? «Sì. Per capire quanto sono curiosa (adoravo le interviste e ne ho fatte ai Beatles, a Joséphine Baker, all'ex re d'Italia Umberto) e per comprendere che non era il mio mestiere». Non le piaceva? «Detestavo che mi correggessero i pezzi. Una volta descrissi un vecchio che amoreggiava col suo quartino di vino, e trovai pubblicato che sorseggiava il quartino. Stravolgimento inaccettabile».
Oggi ha uno stile di scrittura così semplificato da essere elementare. «Sono semplice per non far sentire mai il lettore un idiota. Odio gli autori criptici e intorcinati. Se una cosa è bella deve piacerti subito. Poi disquisirai sui dettagli. È faticoso ottenere la semplicità. Sapesse quanto riscrivo per arrivare a quell' immediatezza».
I primi romanzi li scrisse con suo marito, Nullo Cantaroni. «A darci fiducia fu Tiziano Barbieri, artefice degli hit di Sperling & Kupfer, che per la nostra coppia inventò lo pseudonimo Sveva Casati Modignani. In realtà ero io a scrivere. Nullo correggeva. Poi fu vittima di una forma precoce di morbo di Parkinson e restò malatissimo per vent'anni. Morì nel 2004. Anche quand'era malato gli leggevo i testi, che lui commentava e criticava.
Lo fa persino ora che non c'è più. È un tale rompicoglioni che non riesco a scrollarmelo di dosso».
Il nome Nullo fa pensare a un tipo dimesso. «Tutt'altro! Dovevo sgusciare tra le maglie del suo autoritarismo per sopravvivere. Il nulla è lo zero, cioè l'assoluto, e Nullo era un assolutista».
Chi sono i milioni di fan di Sveva? «Donne soprattutto. Dai dodici ai novantadue anni, di ogni categoria sociale. Agli incontri che faccio in giro per l'Italia vengono ad ascoltarmi donne magistrato, immigrate, ragazze che fanno tesine sui miei romanzi ... Chi piange, chi si confida, chi mi dona un canovaccio, una pattina, un portapane con scritto: Sveva ti amo. È forte la loro affinità con Sveva».
Parla di Sveva come se fosse diversa da Bice, cioè da lei. «Bice è pigra. Sveva è attiva e viaggia per parlare con la gente dei libri. Bice sta a casa. Sveva si relaziona e promuove. Ma è Bice che racconta e scrive».
Da dove prende le storie? «Dalle persone. Io so ascoltare. Attingo dagli incontri. Non ho fantasia. Non potrei scrivere una fiaba e non sono una filosofa. Non avrei potuto inventare Harry Potter».
La sua Léonie coltiva per decenni una relazione con un amante, Roger, con cui ha un unico appuntamento annuale in un romantico albergo sul lago. E ogni volta ritrovano la stessa passione. Improbabile ... «Così improbabile che è una storia vera! Me l' ha confidata un professionista romano conosciuto tempo fa. Era un marito fedele e aveva una bella famiglia, ma da trent'anni amava una signora con cui s'incontrava di nascosto solo un giorno l'anno, facendo scorta per gli altri 364. Che culo quel Roger!, ha esclamato mio fratello leggendo Léonie. In tanti fantasticano un amore così, fatto al novantanove per cento di sogno. Perché senza i sogni non esiste gioia»." (da Leonetta Bentivoglio, Sveva Casati Modignani, Leonie, "La Repubblica", 25/05/'12)
Sveva Casati Modignani "Il conte Tolstoj non è il mio principe azzurro"
("La Stampa")
martedì 22 maggio 2012
La vendetta del traduttore
"Per giovanili esperienze e frustrazioni la conosco bene anch'io la sindrome del traduttore, che al suo livello più basso si traduce nel negarsi un caffè perché altrimenti si perde il ritmo di una cartella all'ora e si mandano all'aria i tempi del cottimo, a quello più alto si traduce nella tentazione di intervenire sul testo, tagliare ripetizioni, alleggerire aggettivazioni, precisare situazioni, togliere contraddizioni (sperando che il revisore non se ne accorga). Che cos'ha, dopo tutto, un autore più di un traduttore?
Proibito. Perché se è vero che "poetry is what gets lost in translation", la poesia è ciò che va perso nella traduzione, come sostenevano Robert Frost e la giovane Sofia Coppola, è anche vero che il traduttore di narrativa, mal pagato, mal trattato, quasi mai citato, qualche volta distratto e/o pasticcione, spesso migliora il testo, inventa un linguaggio (parlate con i traduttori di Amitav Ghosh), e lavora per farlo arrivare a un lettore che altrimenti non potrebbe mai accedere a quel mondo.
Il traduttore che ha scoperto in una libreria di Parigi Elena Loewenthal, grande traduttrice lei stessa, è per nostro divertimento più pugnace e vendicativo. E per questo il libro, firmato da Brice Matthieussent, si intitola La vendetta del traduttore (Marsilio). Perché Matthieussent, che ha al suo attivo una impressionante teoria di traduzioni eccellenti, da Kerouac a Paul Bowles, da Bret Easton Ellis a Bukowski, e dirige la collana Fictives per Christian Bourgois, insomma, uno che se ne intende di meccanismi e giochi editoriali, costruisce un divertente labirinto narrativo un po' escheriano un po' borgesiano, dove un traduttore non riconciliato, David Gray, e Abel Prote, pessimo carattere, scrittore in declino, autore di un romanzo intitolato Translator's Revenge, la vendetta del traduttore, attualmente in traduzione presso il ribelle David, entrano uno nella vita dell'altro. A partire da quando David decide che la prosa di Abel proprio non va, e inizia a tagliare aggettivi, poi avverbi, poi interi paragrafi tracimanti.
Finché le notea piè di pagina, con cui il traduttore/editor dovrebbe chiarire alcune ambiguità o cose poco chiare del suo testo, non diventano esse stesse testo, finché le note come tali spariscono e il commento (anche graficamente) diventa l'asse portante del libro, respingendo il testo originale ai margini dell'interesse e dell'attenzione. Il tutto mentre in un gioco di destini incrociati, di simmetrie maliziose, di incroci sopra l'oceano, di casi che un colpo di dadi non eliminerà mai, i duellanti, Abel e Prote, si scambiano segreti ed amanti, pezzi di testo e case, in un crescendo di coincidenze e di identificazioni, di strane avventure e di eros per interposta persona, di trappole mortali e di preveggenze che solo un autore/demiurgo può avere, e che illuminano il difficile, complesso, appassionato rapporto di amore ed odio tra l'autore e il traduttore. Traduttore che, come abbiamo detto, si chiama Elena Loewenthal, e di questa mise en abyme sul suo lavoro di traduttriceè la divertita, ironica, un po' invidiosa madrina." (da Irene Bignardi, Non maltrattate i traduttori, "La Repubblica", 21/05/'12)
venerdì 18 maggio 2012
La biblioteca delle emozioni
"Alla domanda "quanto si impara dalla letteratura?" la risposta che darei senza esitazione è: "dipende dall'età". Da giovani moltissimo, con il passare del tempo molto meno. Il motivo si spiega con una seconda domanda: "che cosa si impara dalla letteratura?", la cui risposta sarebbe: essenzialmente, emozioni. Perciò c'è una prima parte della nostra vita in cui la letteratura agisce come educazione sentimentale e preparazione a situazioni future, e poi una seconda, più pura e disinteressata, in cui agisce come rievocazione e confronto tra le nostre emozioni e quelle che vengono narrate nel romanzo.
È avendo presenti queste coordinate che la filosofa del linguaggio Carola Barbero ha scritto La biblioteca delle emozioni (Ponte alle Grazie), con un procedimento molto semplice: si prendono undici romanzi, rigorosamente contemporanei (il più antico è Zazie nel metrò, 1959) probabilmente per evitare i timori reverenziali che provocano i classici e il ricorso alla categoria un po' iettatoria di Grande Arte. Perché il punto non è trovare i vertici del Canone Occidentale, ma piuttosto quei libri che leggiamo non per darci delle arie, ma perché ci suscitino dei sentimenti e soprattutto ce ne facciano fuggire uno insopportabile, la Noia. Così le opere sono classificate e analizzate in base alla emozione fondamentale che trasmettono: Tristezza (Mazzantini, Non ti muovere), Stupore (Nothomb, Stupore e tremori), Allegria (Pennac, La fata carabina), Paura (King, Misery), Speranza (Queneau, Zazie nel metrò), Potere (Süskind, Il profumo), Amore (Grogan, Io e Marley), Rimorso (Giordano, La solitudine dei numeri primi), Rispetto (Murgia, Accabadora), Attesa (Veronesi, Caos calmo), Erotismo (Grandes, Le età di Lulù).
Aprire un romanzo è dunque come aprire la porta di un laboratorio in cui si fabbricano artificialmente emozioni, proprio come in altri laboratori si simula l'assenza di rumore o di gravità. Il fatto di trovarsi in un laboratorio sottolinea due presupposti essenziali di cui si è molto sentita la mancanza nei tempi, non lontani, in cui si sosteneva che tra finzione e realtà non ci sarebbe alcuna differenza. Primo, che per godere davvero dei benefici del laboratorio non si soffra della stessa sindrome di cui erano afflitti Emma Bovary, Don Chisciotte e i teorici della realtà come finzione, e cioè che l'attrazione sentimentale del romanzo poggia proprio sulla distinzione tra vero e fittizio. Secondo, che proprio per questo il laboratorio può essere rilassante e tonificante, perché nei romanzi, diversamente che nella vita, possiamo sapere che cosa ci aspetta e a cosa andiamo incontro. La premessa teorica di tutta l'impresa non è che non c'è differenza tra finzione e realtà, ma semmai che le emozioni sono un elemento imprescindibile per la nostra comprensione e il nostro stare nel mondo reale.
Abbiamo così un approccio alla letteratura che è insieme il più inerme (non si parla di cultura, di teorie, di registri stilistici, ma proprio e solo dei sentimenti) e il più sofisticato. Perché sotto l'apparente semplicità ci sono tutti i classici interrogativi della filosofia intorno alle emozioni: Che rapporto c'è tra emozioni e ragione? Perché cerchiamo nell'arte sentimenti negativi che fuggiamo nella vita? (e qui Aristotele, Hume e Freud hanno molte e convincenti risposte). Perché ci piace sentire o leggere delle storie non vere, che cosa ci aspettiamo? (e qui le risposte vengono da Leibniz e dai mondi possibili).
Ma, al di là della filosofia delle emozioni, di cui Carola Barbero è una esperta accademica, come ha dimostrato (in particolare in Chi ha paura di Mr. Hyde?, il Nuovo Melangolo), questo laboratorio sembra suggerire anche un buon uso pedagogico della letteratura: leggere i romanzi in classe, o far fare dei temi, in cui al centro ci sia proprio la descrizione del sentimento. È vero che Nabokov diceva che questa è la più ingenua delle maniere a cui ci si rapporta a un romanzo. Ma non risulta da nessuna parte che abbia detto che sia sbagliata. Anzi, probabilmente è tra le più esatte, perché coglie un movente fondamentale e non culturale del nostro rapporto con la finzione, la ricerca di quell'emozione sublimata e trasognata che si legge così bene sulla faccia dei bambini quando guardano un cartone animato." (da Maurizio Ferraris, Se il canone emotivo e' scritto nei romanzi, "La Repubblica", 17/05/'12)
mercoledì 16 maggio 2012
I ragazzi con lo zainetto salveranno il futuro dei libri
"Saranno i ragazzi a salvare il mondo dei libri. Il Salone torinese si chiude con più visitatori (fra il 4 e il 5%) ed è in gran parte merito loro. «Vorrà dire che non siamo ancora alla canna del gas», scherza l'editore Carmine Donzelli. L'onda studentesca che travolge il Lingotto racconta un altro Salone. Lo tsunami di ragazzi sparpagliati tra gli stand dei libri e i dibattiti-show descrive un Salone in controtendenza rispetto alla crisi. Un Salone che non è né depresso né digitale - largamente disertate le sezioni elettroniche -, zeppo di lettori acquirenti che fanno esultare gli editori, zampillante di zainetti e visitatori in erba. Ancora più degli anni passati, quando nei primi giorni della fiera venivano deportate intere scolaresche in attesa del "tutti a casa" della campanella.
Nell'anno della "tempesta perfetta" - come è stata ribattezzata la grande crisi - il Salone vende libri e i giovani preferiscono restare. Curiosi ed esigenti, informati (dalla rete) e desiderosi di un rapporto tattile con i volumi, attenti al prezzo ma anche alle novità editoriali, ipnotizzati dall'intrattenimento ma anche dagli incontri "civili". E per lo più indifferenti agli schermi luminosi degli e-reader. «Lettori consapevoli, che stanno sulla palla», li definisce Gianfranco Carofiglio, scrittore e magistrato abituato alle grandi folle. «Vengono all'appuntamento preparati, sanno di cosa parlano». «Per la prima volta in tanti anni», racconta Giuseppe Laterza, «nessuno mi ha domandato se vendiamo anche romanzi», richiesta sorprendente per una casa editrice che da sempre pubblica solo saggistica. Per Tullio De Mauro, artefice di una lezione sulla lingua italiana, non c'è da sorprendersi: i giovani leggono, e leggono molto di più dei loro padri e nonni diffusamente analfabeti. Invadono gli stand, pescano i libri e li toccano "con una manualità nuova e diversa, propria del lettore multimediale", rileva Carmine Donzelli. Sono più scaltri e indipendenti dei fratelli maggiori. Andrea Bajani, che da due anni cura la sezione Bookstock dedicata ai ragazzi, completa la "fenomenologia del neovisitatore". «Esaurito l'incontro, prima scappavano a casa, ora sciamano nel Salone in totale autonomia». Forse anche attratti dalla musica, dai video, dagli effetti speciali, insomma dal profilo multiforme della fiera. Non però dagli schermi luminosi dei kindle o degli e-reader, gli stand più snobbati. «Li disertano perché i supporti elettronici fanno parte del loro habitat naturale», prosegue Bajani, «mentre il vero oggetto esotico è diventato il libro». Un libro da scoprire, toccare e annusare, come racconta un gruppetto di studenti liceali che alla parola "e-book" fanno la faccia da prugna secca. «Trionfo del virtuale? Requiem per il libro di carta?», gioca Fernando Savater che al tema ha dedicato un incontro. «È come la fine del mondo: se ne parla da secoli, ma siamo ancora tutti qua». Gli editori si dicono molto soddisfatti per le vendite. I marchi medi e piccoli, dal Mulino a Sellerio, confermano una tenuta rispetto alla passata edizione. I grandi gruppi, da Mondadori a Rcs, da Gemsa Feltrinelli, dichiarano un incremento dal 10 al 20%. Calcoli generosi dettati da una sorta di ebbrezza nella stagione della grande paura? In attesa di bilanci definitivi, va comunque registrato il segno più. «È la dimostrazione che le cose possono funzionare bene se i libri vengono proposti con intelligenza e nella ricchezza del catalogo», interviene un libraio esperto come Romano Montroni. Il vero trionfatore è Newton Compton, uno sciame di ragazzi intorno ai titoli a quattro euro e novanta. La chiave del successo sta nella politica dei costi contenuti, con i classici al prezzo di un gelato. Il genere più richiesto è il romanzo rosa, ma vanno molto anche il giallo storico e i capolavori della letteratura. Curiosa è l'alchimia dei libri più venduti, che investe anche gli altri marchi. I bestseller del Salone sono molto televisivi o spettacolari, da Dandini a Gramellini, da Ligabue a Del Piero, da Faletti al fantasy cruento di Hunger Games. Ma c'è grande richiesta anche per i saggi sul lavoro (settanta copie di Luciano Gallino vendute in mezz'ora) o sulla libertà (Corrado Augias), sulla democrazia (Giuseppe D'Avanzo) o sul tabù della morte (Conchita De Gregorio). Così anche le code lunghe si dipanano tra lo "show della fama" (definizione suggerita dal feltrinelliano Alberto Rollo) e convegni sulla mafia, tra entertainment e impegno civile, tra Fabio Volo e la trojka Travaglio - Barbacetto - Gomez, con sale gremite per autentiche star della cultura quali Enzensberger e Magris. E la standing ovation di milleduecento persone alla memoria di Falcone e Borsellino rimarrà l'applauso più fragoroso nella storia della Fiera torinese. "Una cosa così non la ricordo", commenta Ernesto Ferrero, da quattordici anni principe del Lingotto, "forse solo per la figlia di Che Guevara. Ma gli spettatori applaudivano se stessi e i propri sogni infranti". Altra fiera, altra età. Anagrafica e storica. L'anagrafe scende, la folla sale. "Si vede a occhio nudo il desiderio di democrazia partecipata e non delegata", commenta Ferrero. "Gli eventi più affollati sono quelli che riguardano i passaggi più delicati della vita civile. Come se, di fronte all'impotenza dei partiti tradizionali, i ragazzi ma non solo i ragazzi fossero alla ricerca di canali alternativi". Una condivisione quasi "ecclesiale" - aggiunge Ferrero - che caratterizza la città del libro. Nessun ripensamento a proposito dell'enfasi posta sul digitale, terra promessa ben lungi dall'essere realizzata? "In rete la confusione è massima", dice Ferrero. "E io non mi sogno di stare su Twitter. "Scrivo dieci pagine perché non ho tempo di scriverne meno": è una massima di Mark Twain in cui mi riconosco. Ma è in atto una rottura epocale, più forte di quella segnata da Gutenberg. E non potevamo certo ignorarla. È stata una "primavera digitale" con molte nubi? La stagione, si sa, non è priva di turbolenze"." (da Simonetta Fiori, I ragazzi con lo zainetto salveranno il futuro dei libri, "La Repubblica", 14/05/'12)
Se questi sono libri
Mankell: lo stato sociale e' diventato un giallo
"Mi sento come un nomade. Riesco a scrivere su un aereo, nella hall di un albergo, da solo o insieme ad altri, in ogni parte del mondo. Riuscirei a stare seduto qui davanti a lei e a scrivere il capitolo di un libro, ad alzarmi, a spostarmi a un altro tavolo e a scrivere il capitolo successivo». Dato che a quanto pare non sono riuscita a nascondere il mio scetticismo, né la mia invidia o la mia ammirazione, aggiunge: «Il luogo di lavoro più strano che ho avuto è stato una volta a Stoccolma. Ero giovane, appena ventenne, e povero, e avevo preso in affitto un appartamento vuoto. Niente mobili, niente lampade, niente letto. Dormivo sul pavimento, ma scoprii che nel forno della cucina c'era una lampadina che si accendeva aprendolo. Quella luce divenne la mia lampada e lo sportello del forno la mia scrivania. Vi lavoravo in quel modo. La creatività è il fondamento della mia vita. Una percezione dei sensi. Una parola + una parola + una parola fa una frase. Una frase + una frase + una frase fanno un racconto. Io credo nei racconti. Il lettore viene invitato al banchetto, a sedersi al tavolo e a condividere il pasto».
Lo scrittore danese Klaus Rifbjerg ha definito la creazione artistica "una sublimazione della forza erotica", intervengo. «È chiaro che l'erotismo è la forza preponderante nella vita di una persona e la scrittura può anche dar luogo a una tensione quasi erotica» risponde appoggiandosi allo schienale della sedia mentre le dita scivolano tra i capelli e li raccolgono sulla nuca per poi lasciarli di nuovo andare. «Non voglio usare la parola felicità, perché oggi viene utilizzata come un cliché: felicità-infelicità. Quando scrivo però mi sembra di riuscire a dare un senso a tutto. La possibilità di trasfigurare se stessi è l'essenza stessa della creatività. Qualcuno ha calcolato che nell'arco della mia carriera di scrittore ho descritto in tutto circa duemila personaggi diversi. Ovviamente c'è una parte di me in tutti loro, che siano bambini, donne, vecchi, cinesi, africani, danesi, o che diavolo le pare. Io sono una parte, grande o minuscola, di queste migliaia di personaggi. Metto dei mattoncini di me stesso in questa miriade di figure diverse. Così stanno le cose».
Henning Mankell sa bene che è proprio questo il campo che voglio cercare di approfondire, e quindi prosegue. «I miei libri cominciano sempre con una domanda che faccio a me stesso: com'è possibile che ...? Ci rifletto, analizzo la questione e alla fine so tutto. Quando so tutto, scrivo. Alcune volte scrivo prima il finale, altre la parte intermedia, altre ancora scrivo in ordine cronologico. Credo nell' ideale dell'illuminismo. In questo senso si può dire che sono un enciclopedista. Credo nella razionalità, nell'essere umano fondato sulla ragione, nella conoscenza. Lo sviluppo del mondo procede in maniera enormemente rapida, ma noi oggi scriviamo poesie d'amore migliori di quanto faceva Petrarca? No! L'uomo è nato per la lentezza. La forza della democrazia è proprio il fatto che è lenta. La lentezza ci si addice di più. Eppure nel nostro mondo un leader efficiente è uno che prende decisioni in modo rapido. Gli africani, invece, definiscono stupido un uomo che decide troppo velocemente. Sappiamo bene che il mondo dell'infanzia, così come lo conoscevamo e amavamo, è sparito, ma credo che sopravviva dentro di noi come un' ombra. Parliamo molto della terra dell'infanzia ... ma non credo che debba necessariamente essere intesa in senso concreto. Parliamo molto anche delle nostre radici ... Io credo che sia possibile avere radici in luoghi diversi. Si può coltivare la terra ideale che abbiamo in mente così come si coltiva la terra su cui si cammina. Gli esperti dicono che solo la parte destra del cervello è in grado di svilupparsi. La sinistra, quella dei sentimenti, è già al suo massimo punto di sviluppo. Devo dire che trovo preoccupante questa affermazione».
I fan più accaniti sapranno che esistono un'infinità di altre cose che lo preoccupano, oltre al potenziale di sviluppo della parte sinistra del cervello. Per esempio la domanda che viene posta in molti dei suoi romanzi, ma che può essere sintetizzata con questa citazione dal thriller Il cinese: «Com'era stato possibile arrivare al punto in cui anche i fondamenti della democrazia erano minacciati da un sistema giudiziario vacillante?». La critica sociale e la battaglia per un mondo più giusto, a livello sia locale che globale, percorrono come un nastro fiammeggiante la sua opera di scrittore, in modo più radicale e coerente che in altri che hanno seguito la sua scia. I libri su Kurt Wallander, oltre a sviluppare una trama poliziesca e a seguire la parabola e la triste vita sentimentale del commissario di polizia, parlano sempre della democrazia, della forza e della vulnerabilità dello stato sociale, della perdita di sicurezza, dell'isolamento umano e della mancanza di solidarietà. Parlano in sostanza del declino del welfare state. «Wallander non abbraccia le sue stesse idee politiche?» chiedo. «No, e l'ultimo libro su Wallander, L'uomo inquieto, parla proprio di questo: lui ammette di essere un uomo senza interessi politici. Ha perso, o ha volontariamente escluso dalla propria vita, una parte molto importante dell'esistenza, e cioè il fatto che siamo coinvolti nella politica che lo vogliamo o no, perché viviamo sotto una specie di contratto con altri esseri umani. Kurt Wallander lo ha voluto ignorare e di questo parla il libro. Sì, ha sicuramente votato alle elezioni, ma la politica per lui è stata principalmente un motivo di irritazione, per cui si indigna se vengono alzate le tasse e considera molti politici più stupidi di altre persone. Non si è mai considerato parte del panorama politico. Su questo punto c'è una grande differenza tra lui e me. È una cosa che ho inserito volutamente, perché la maggioranza delle persone non si considera parte del panorama politico. Negano di esserlo e questa è una delle più gravi minacce per la democrazia, il fatto che sempre più persone dicano di non sentirsi parte della democrazia»." (da Kirsten Jacobsen, Mankell: lo stato sociale e' diventato un giallo, "La Repubblica", 15/05/'12; trad. di Lisa Raspanti)
martedì 15 maggio 2012
Aria di tempesta sugli editori
"Nel frastuono giocoso degli studenti e nella bolgia molto poco meditativa delle centinaia di conferenze che animano il Salone del Libro di Torino (kermesse che si conferma unica, merito dell'ostinazione di Rolando Picchioni ed Ernesto Ferrero nel volerla così densa di appuntamenti), forse i numeri aridi che vengono ruminati dai centri studi rischiano di perdersi, eppure dicono molto di ciò che sta accadendo in questo settore, imprenditoriale e culturale insieme. Scosso da incertezze, battaglie epocali, cambiamenti profondi. Dunque i numeri – forniti dal convegno annuale organizzato al Salone dell'Associazione Italiana Editori – sono poco confortanti. Il 2011, secondo l'indagine Nielsen, che monitora i punti vendita, ha segnato decisamente il passo con un rotondo -3,5% a valore sull'anno precedente e il mercato a fine anno scorso valeva 1,398 miliardi di euro, contro i 1,448 miliardi del 2010. C'è di peggio: la crisi nel 2012 morde di più, visto che si parte con un -11,8% a valore da gennaio a marzo di quest'anno (ma pare che aprile farà segnare una ripresa).
Insomma la «tempesta perfetta», come recitava il titolo del convegno, c'è. Da una parte ci si mette la crisi generale dei consumi, dall'altra il cambiamento di paradigma tecnologico nella fruizione del libro e nel metodo di lettura: due componenti che, messe assieme, accerchiano la filiera tradizionale cui siamo abituati: editori, librai, distributori. Con un convitato di pietra, costituito dai motori di ricerca, piattaforme editoriali spurie digitali (Google, Facebook, Apple) e un rivenditore globale, come Amazon, che sfrutta il momento nella sua logica ma venendo contestato dagli editori.
Forse, come si è sforzato di fare Marco Polillo (presidente Aie), dopotutto il bicchiere si può considerare mezzo pieno, o se non altro, non del tutto vuoto. Il mondo del libro, stando ai dati, continua a risentire meno della crisi rispetto agli altri consumi e nei mercati degli altri Paesi le vendite dei libri sono calate in misura più sensibile: in Spagna si registra un -3,9%, nel Regno Unito un -7,2%, negli Usa -9,2%.
Polillo ha analizzato i numeri del mercato affermando che «il mercato italiano ha tradizionalmente scostamenti positivi e negativi molto contenuti, anche se il dato del 2012 è particolarmente pesante», ha invocato il sostegno della politica (che, come è emerso anche dal convegno sul Manifesto della cultura del Sole 24 Ore di giovedì, è piuttosto sorda a questi argomenti) e non ha mancato di attaccare chi, come Amazon, accusa gli editori di poca forza innovativa. «Sento dire che gli editori non hanno fatto nulla per allargare il mercato della lettura e che sono superati» ha detto, ma «il mestiere dell'editore è insostituibile e Amazon invece vende solo i libri, fa un mestiere diverso, con interessi diversi. Se poi vuole discutere con noi di questi aspetti, ci fornisca i dati, come noi facciamo con tranquillità, trasparenza e costanza».
Andando nel dettaglio dei numeri, si nota che l'uso dei canali di vendita si profila con modalità ormai stabili. Il primo canale di vendita è la libreria di catena (per il 40,3%), poi la libreria indipendente (il 36,9%) e la grande distribuzione (15,6%), quindi le librerie online (sono oggi al 7,2%, ma è esclusa Amazon da questo dato). L'anno scorso si è salvata solo l'editoria per ragazzi che ha chiuso con un +2,8% ma nel 2012, per la prima volta ha risentito del trend negativo anche questo settore (-8,5%). Il segno negativo del 2012 vale sia sul fatturato trade (-11,8%, pari a 276 milioni di euro; era 313 milioni di euro lo scorso anno), sia nel numero di copie vendute (-10,8%, pari a 21,1 milioni di copie; erano 23,7 milioni di copie nel 2011) e questo nonostante lo sforzo competitivo degli editori che ha portato a una diminuzione (tra ottobre 2011 e febbraio 2012) del prezzo medio di vendita dei libri attorno al 7%.
Sui prezzi, nella tavola rotonda che è seguita alla presentazione dei dati, si è registrato un acceso dibattito. Sono molti a pensare che l'abbassamento dei prezzi sia un danno per la catena produttiva e che l'adeguarsi alle politiche più aggressive di alcuni editori, porti, alla lunga, a un indebolimento generale del settore. «Nella tempesta perfetta – ha sottolineato Massimo Turchetta, direttore generale Libri Trade Rcs – ci sono diverse componenti. È finito il vecchio modo di lavorare degli editori e fenomeni come i megabestseller non torneranno più. E per fronteggiare i nuovi interlocutori, che commerciano dati e non libri, dovremo essere più bravi di prima». Dal canto suo, il sottosegretario all'Editoria, Paolo Peluffo, assente, ha mandato un messaggio al convegno nel quale riafferma che «l'Italia non potrà uscire dalla crisi dell'economia senza un'azione potente di promozione della lettura e della conoscenza», annunciando una campagna del Governo a favore del libro. Stante questa tempesta e le future previsioni del (mal)tempo, un ombrello che sembra davvero troppo piccolo." (da Stefano Salis, Aria di tempesta sugli editori, "Il Sole 24 Ore", 12/05/'12)
lunedì 7 maggio 2012
I primi tornarono a nuoto
"A volte ritornano. Anzi, rinascono. Succede così nel romanzo I primi tornarono a nuoto di Giacomo Papi (Einaudi), con un morto che ricompare, nudo, in un supermercato. Adriano, un medico che si trova lì per caso, lo porta all'ospedale e lo sottopone a degli esami. Presto si conosce la sua identità, e si scopre che Serafino Currò è morto molti anni prima. L'uomo che il medico osserva ha la stessa età di quando morì. Non ha più denti, ma come i bambini piccoli sta mettendo una dentatura di latte; ha sempre fame e non dorme mai. (Più tardi si saprà anche che questi morti ritornati alla vita sono sessualmente attivi, ma sterili, non possono procreare).
Serafino è il primo di una legione di rinati che a intervalli regolari — circa quaranta giorni — ricompaiono in numero esponenziale. In tutto il mondo, da ogni epoca: c'è la ragazza vissuta nella tarda latinità, ci sono quelli che abitavano nella casa che ora è affittata da nuovi inquilini, c'è un ragazzino romano morto accoltellato nell'Ottocento. In Cina, addirittura, rinasce un giovane maschio vissuto 18 mila anni fa. All'inizio non fanno paura, i rinati sono sorpresi e spaesati, spesso non ritrovano più le loro case o i posti dove lavoravano, e quando c'è ancora qualcuno della loro famiglia, succede che figli o nipoti non li vogliono più. Poi però, quando crescono di numero e non trovano più cibo a sufficienza, cominciano a diventare aggressivi. Temono che i vivi sottraggano loro le risorse alimentari e allora cercano di impedire che nascano nuovi esseri umani: Maria, la compagna di Adriano, che aspetta un figlio ed è vicina al parto, si accorge presto di questa minaccia che monta. Intanto i rinati si coalizzano contro quanti vanno predicando la necessità di sterminare quelle strane creature, né morte né vive.
Insomma, l'apocalisse è cominciata, l'antico divieto che impediva ai morti di tornare fra i vivi è caduto, il mondo si troverà progressivamente invaso da una sterminata quantità di defunti (110 miliardi da quando l'Homo sapiens cominciò dall'Africa la sua migrazione: sono queste le stime di studiosi riconfermate recentemente da un gruppo di ricercatori di Washington). Solo che non si tratta di zombie carnivori o di vampiri, sono persone come noi, magari con lo sguardo più acquoso e un colorito meno vivace, che mangiano in continuazione e non dormono mai.
«Questo romanzo nasce dall'insonnia» racconta Giacomo Papi, 45 anni, scrittore, già direttore editoriale di Isbn, ora consulente per Einaudi Stile libero nonché collaboratore di Fabio Fazio per Che tempo che fa. «Era una notte d'inverno, a Milano, quattro anni fa. Ero uscito sul terrazzo a fumare (allora fumavo ancora), guardavo la nebbia e cominciai a pensare. L'insonnia è una maledizione, ma è anche un grande aiuto per chi fa un lavoro creativo. È in quelle ore che si affacciano le idee e prendono forma. Così, quella notte, pensai a un viaggio all'incontrario di quello fatto da Dante: lui, vivo, andava nel regno dei morti, io immaginai invece che i morti tornassero fra i vivi. Andai a letto e in mezz'ora avevo già in mente la storia completa. Nei giorni successivi cominciai a scrivere, e la prima stesura fu pronta in breve tempo. Era il doppio di quella che esce ora in libro, ho tolto il superfluo, ma il finale era lo stesso e la trama uguale».
Esce ora, il romanzo, in questo 2012 abitato da cupe inquietudini dettate dalla spaventosa crisi economica, dal recente disastro di Fukushima, dalle guerre striscianti. E, come se non bastasse, c'è anche la profezia dei Maya, quella che prevede che il mondo finirà il 21 dicembre. C'è ormai un florido filone apocalittico che va da Cormac McCarthy, La strada, a Glenn Cooper, La biblioteca dei morti, a Tullio Avoledo e Davide Boosta Dileo, Un buon posto per morire, senza contare i film in stile Armageddon. Insomma, un buon momento per andare in libreria.
«Anche, perché no? Ma il libro era nato molto prima. Certo, nello scriverlo, ho giocato con certi stilemi del cinema americano, ho tenuto presenti i romanzi di genere che trattano temi come la fine del mondo, i morti viventi. M'interessava molto la sintassi del racconto, i cambi di scena, un montaggio quasi cinematografico. Volevo costruire un racconto che trattenesse l'attenzione del lettore, e intanto desse spazio a dei temi di riflessione. Per esempio al fatto che, se il ritorno dei morti appare giustamente inspiegabile, anche la vita lo è: perché si nasce, che senso ha l'esistenza che ci è toccata e che inevitabilmente ci conduce alla morte? Insomma, volevo mostrare che la linea di separazione tra vita e morte non è poi così sicura, che il confine tra nascere e marcire, tra bene e male, è molto labile. Del resto, è il rapporto con i morti che pone le basi della civiltà, Foscolo lo aveva capito bene».
Ha seguito dei modelli per I primi tornarono a nuoto? «Non credo di aver tenuto presenti dei modelli nello scrivere il romanzo. Certo, un film mi ha segnato molto: è Blade Runner di Ridley Scott, che unisce un meccanismo narrativo perfetto a un contenuto quasi filosofico».
Nella rubrica «Cose che non vanno più di moda», che tiene su «D» di «Repubblica», lei denuncia l'invadente narcisismo degli autori italiani di oggi: «Non c'è praticamente nuovo scrittore italiano che non parli di sé». E, in un'altra puntata, dando la parola ai personaggi dei romanzi che vedono minacciato il loro ruolo e il loro lavoro, fa dire a Lucia Mondella: «Fino a pochi anni fa, il mestiere dello scrittore era inventare storie e personaggi. Oggi parlano solo di se stessi».
«Sono realmente stufo della letteratura italiana di oggi, senza fantasia, dove non si inventa più niente, né storie né personaggi. In Italia, i libri che escono vengono catalogati così: ci sono quelli che raccontano storie e perciò vengono definiti di intrattenimento, quindi di genere; dall'altro lato ci sono quelli che si propongono come testimonianza, portano in primo piano l'io dell'autore che parla solo di sé. E nessuno sembra accorgersi che così la letteratura diventa una sorta di gossip generalizzato. Credo invece che la letteratura debba inventare storie, miti, attraverso i quali i lettori arrivano a confrontarsi con temi, domande: perché viviamo, perché amiamo?»." (da Ranieri Polese, L'invasione dei morti rinati. Né vampiri né zombie, ma insonni e sempre affamati, "Corriere della Sera", 16/04/'12)
Senza fine ("La Republica")
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