sabato 14 gennaio 2012

Antonio Scurati: “Ogni giorno m’inchino a Faulkner"


Antonio Scurati mi accoglie all'ora della prima colazione in una stanza piena di sole e tappezzata di libri del suo appartamento milanese a Città Studi. È una luminosa mattina d'inverno, eccezionale in questa stagione a Milano. Lo scrittore, convalescente da un'influenza, mi fa accomodare a un grande tavolo di legno chiaro apparecchiato per caffè e biscotti e siede di fronte a me abbracciato dalle due ali variopinte della sua biblioteca che si distendono alle sue spalle irradiando
un’atmosfera di confortevolezza e calore. L’enfant prodige dalla prosa brillante e dall’argomentazione tagliente che esordì un decennio fa trentaduenne con un saggio (Guerra) e un romanzo (Il rumore sordo della battaglia) e che da allora ha pubblicato dieci libri in dieci anni ha un curriculum da paura.
Romanziere, saggista, commentatore giornalistico, lucido polemista, professore di sociologia della comunicazione e di scrittura creativa, a soli 42 anni è un intellettuale straordinariamente versatile e impegnato ...
Incontrato nel suo elemento però ha ancora l'aria del giovane di belle promesse, dello studente di talento. Sarà perché, illanguidito dalla febbre dei giorni scorsi, si abbandona alle ammissioni e alle confidenze: la discendenza da famiglia non intellettuale, il nonno operaio specializzato dell’Alfa Romeo al Portello, il primo impiego giovanile del papà che lavorò alla Hoepli come libraio «poi fu assunto per concorso come quadro alla Rinascente, ma nutrì per una vita, e mi trasmise, un estremo rispetto per i libri».
E gli anni della scuola: «Al liceo, pur avendo frequentato un istituto prestigioso, il Foscarini di Venezia, convitto napoleonico di antica e nobile tradizione, non studiavo. E libri non ne leggevo per niente».
Ora invece ha tutta l'aria del ragazzo serio, studioso, preparato, diligente. Sarà perché a fare da cornice al suo racconto sono proprio le opere e gli autori che all'universo dei libri lo hanno poi conquistato e ancora lo trattengono nella loro malia. «I pilastri della mia formazione », si gira indicando gli scaffali, descrivendo la svolta decisiva che ha tutto il sapore di una conversione, «sono questi. Ti spiego come funziona ...».
La parete alla tua sinistra, la più vicina alla finestra, è coloratissima ...
«Sono quasi tutti remainders, edizioni economiche, tascabili dalle copertine colorate: i libri che arrivarono sui miei scaffali negli anni dell’università. Tutti
“vissuti”, davvero voluti, acquistati con i pochi soldi a disposizione
o presi a prestito e mai restituiti. Lì c'è tutta la narrativa anglo americana, alla fine degli Anni Ottanta in cui cominciai a leggere davvero, un orizzonte imprescindibile».
Da dove ha iniziato? «Potrei dire da Thomas Pynchon. Ma mentirei. Poi l’ho letto e ammirato a posteriori, come un fenomeno che dovevo attraversare da intellettuale. Piuttosto Bret Easton Ellis, anche se ho avuto la ventura di incontrarlo un anno fa per presentare la traduzione italiana del suo Imperial Bedrooms, e ho conosciuto un uomo finito, annoiato, sfatto. Ai tempi di American Psycho era quasi un dio. Ha incarnato l’idea dello scrittore star. Giovane, bello, era venerato dal pubblico perché scriveva libri capaci di andare a letto con lo spirito del tempo».
Lo spirito del nostro tempo? «Sì, lo spirito che ha colto è ancora quello di oggi. Uno spirito di morte in cui siamo stati immersi per trent’anni. Il disastro culturale, oltre che economico, che stiamo vivendo è un portato dell’interminabile coda di cometa degli Anni Ottanta. Risalendo a ritroso nel passato ho poi ripercorso
la letteratura americana del XX secolo. Ho letto gli autori della generazione perduta tra le due guerre. Hemingway, Fitzgerald: più il secondo del primo. Il suo L’incrinatura (The crack-up) è un capolavoro esistenziale, pervaso di una malinconia terminale: il breve racconto retrospettivo di un uomo finito. Poi venendo agli Anni Cinquanta e Sessanta, Norman Mailer, Truman Capote: più il primo che il secondo. Di lui ho amato anche i titoli che si leggono meno: Il nudo e il morto, Un sogno americano, Le armate della notte, Pubblicità per me stesso. Ma esercizio di ammirazione quotidiana è per me William Faulkner, il più grande scrittore del XX secolo credo».
Da liceale negligente a lettore fortissimo, e sistematico si direbbe. «Per la verità sono un lettore compulsivo, bulimico. Invece ho un tasso di assorbimento molto alto del libro».
Che significa? Rivolge un'attenzione particolare alla prosa, alla forma? «Per carità. Mi indispettisce anzi, in tante dichiarazioni da salotti buoni, la professione di formalismo. Vorrei citare il conte Tolstoj che, intervistato da un
giornalista che si divertiva a stuzzicare la sua misoginia rispose: “Mi dicono che ci siano autrici capaci di comporre romanzi congegnandoli come orologi svizzeri. Avessero anche qualcosa da dire ...”. Aveva ragione: tanti romanzi perfettamente costruiti non hanno niente da dire. Ciò che in un romanzo mi conquista, è sì lo stile, ma inteso come la cifra insuperabile di un'intimità intellettuale. Lo stile è un'idea di mondo. È la verità confessata da un individuo che ti interessa sentir parlare».
E la verità di Faulkner, incapsulata nei suoi periodi lunghi, densi, involuti, sinuosi? «Leggo Faulkner perché trovo rapinosa la sua idea di mondo. A tratti la sua prosa è complessa, oscura, spesso perché era troppo ubriaco mentre scriveva. Assalonne, Assalonne! (Adelphi) è la stella polare. In questo libro gli riesce il più alto conseguimento letterario della nostra epoca: scrivere un'epopea della fine. Io sono costantemente alla ricerca di un'epica, pur nella consapevolezza della sua impraticabilità nel nostro tempo. L’epica è un racconto delle origini. A Faulkner invece riesce un'epica della fine. Nel suo ciclo dedicato alla contea di Yoknapatawpha è il mondo del Sud degli Stati Uniti a finire. Poi il Novecento non cesserà di scrivere epopee della fine dei tempi. Cormac McCarthy, per citare il più grande tra gli odierni, riprende la testimonianza faulkneriana. Il suo Meridiano di sangue è un libro fondamentale».
L'altra ala della biblioteca invece è tutta in bianco e nero, grondante di tomi ponderosi. «È il pilastro filosofico. Mi sono iscritto a Filosofia alla Statale
di Milano, poi ho fatto il dottorato a Parigi. Ho sempre avuto un interesse fortissimo per la teoria, coltivato frequentando gli autori dello
strutturalismo e post strutturalismo francese. Foucault, Derrida, Barthes, Deleuze, che si gettò da una finestra nel '95 proprio quando io ero a Parigi. La sua Logica del senso, le sue Conversazioni con l'allieva Claire Carnet, la sua lettura di Sotto il vulcano di Lowry sono un esempio supremo di sapienza filosofica applicata alla letteratura. Oggi non ne resta più niente. Sul fronte teorico la letteratura tace. La filosofia non ha più nulla da dire. Leggo Blumenberg, Sloterdijk. Poco altro».
Più convincenti i narratori contemporanei? Americani? Italiani? Che altro? «Riguardo agli italiani devo astenermi. Se non risali indietro di una, due generazioni il giudizio è viziato da dinamiche competitive. In generale direi che la narrativa letteraria italiana è al livello di quella europea, viziata da logiche commerciali. Negli anni passati abbiamo nutrito l'illusione che l'arte e la letteratura potessero sposarsi felicemente con il mercato. Falso, basta guardare le classifiche».
Vedo però sul tavolo l’ultimo Murakami, 1Q84, che appena tradotto ha scalato le classifiche. «Ci sono le eccezioni. Per esempio non avevo mai letto Stephen King, poi L’ombra dello scorpione, un testo di straordinaria forza narrativa mi ha confortato. E questo Murakami. Una scrittura ipnotica, che testimonia una fede ben riposta nelle potenzialità di una finzione assoluta. Questi e altri casi, per esempio gli autori della rentreé letteraria francese Jonathan Littel con Le benevole, Laurent Binet con HHhH o la Zona di Matthias Enard mi fanno dire: sì, forse l’umanità ce la può fare»." (da Alessandra Iadicicco, “Ogni giorno m’inchino a Faulkner”, "TuttoLibri", "La Stampa", 14/01/'12)

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