Biblioteca civica "MINO MILANI" bibliogarlasco@yahoo.it tel. 0382/801009 "Le paradis, à n'en pas douter, n'est qu'une immense bibliothèque" (Gaston Bachelard) SELEZIONE DI ARTICOLI SULL'UNIVERSO-LIBRO
mercoledì 30 giugno 2010
La calda estate dei librai indipendenti di Milano
Milano città di libri di Anna Albano (NdA)
Librerie e librai, il catalogo è questo (Corriere della Sera)
"Quarantasette editori per tredici librerie: questa la moltiplicazione su cui si fonda la rassegna, appena iniziata, «La calda estate dei librai indipendenti di Milano». L'idea non è solo quella di gettare un fascio di luce sul mondo delle pubblicazioni underground, ma anche quella di dare nuova linfa alle dure battaglie che i librai indipendenti devono sostenere contro il mondo delle grandi catene di distribuzione.
Quattro settimane di cultura - dal 28 giugno al 25 luglio - per dare quindi libero spazio alla creatività delle realtà più piccole e nascoste, ma non per questo meno rappresentative, del mondo editoriale nostrano. Fra le adesioni ci sono luoghi topici della carta stampata milanese come la libreria Utopia di via Moscova, la Libreria Popolare di via Tadino, cui si affiancano new entry agguerrite e giovani, come la libreria Gogol & Co di via Savona e la splendida libreria del Mondo Offeso, in corso Garibaldi.
Quanto agli editori adottati dai vari librai, la selezione è davvero ampia e di altissima qualità: si va da realtà consolidate quali E/O, Fanucci, Marcos y Marcos e Minimum fax, a indipendenti «hardcore», come Agenzia X, Il margine, Quaderni di Orfeo e Zandonai.
Il risultato del connubio è una serie di spazi ritagliati su misura ai vari editori, all'interno delle librerie, e una ricca kermesse di eventi, presentazioni e dibattiti. Fra gli appuntamenti più interessanti, ricordiamo le presentazioni di Giorgio Vasta, Andrea Tarabbia e Paolo Cognetti.
Il tutto, nel nome di chi crede che fare questo lavoro con passione e dedizione sia la cosa più bella del mondo: un'ottima filosofia per rilanciare il ruolo del libro nel mondo milanese, partendo dal basso - dall'editoria di qualità, dal rapporto con il lettore, dai laboratori per bambini. Dopotutto, la filosofia di un libraio indipendente è proprio questa: non dare per scontato che un libro sia solo un insieme di fogli rilegati. Un libro è molto di più, è una miniera di relazioni e di passioni. Per saperne di più, qui potete trovare il calendario completo della rassegna. Non mancate inoltre di iscrivervi alla pagina Facebook dell'evento." (da Giorgio Fontana, Estate di cultura a Milano. Quattro settimane con i librai indipendenti, "Il Sole 24 Ore", 29/06/'10)
Che ne sai del Ragazzo Innocuo? (da Corriere della Sera)
Gli indipendenti della libreria porte aperte per la calda estate (La Repubblica)
Se le pene d'amore fanno il best seller
"I suoi romanzi hanno venduto milioni di copie e sono tradotti in tutto il mondo. Per Katherine Pancol la letteratura è una storia di successo, specie da quando, qualche anno fa, ha pubblicato il fortunatissimo Gli occhi gialli dei coccodrilli (Baldini Castoldi Dalai), una brillante commedia in cui racconta le rocambolesche avventure di Josephine e Iris, due sorelle parigine diversissime l'una dall'altra. I due personaggi ricompaiono ora in Il valzer lento delle tartarughe (Baldini Castoli Dalai), che esce in Italia negli stessi giorni in cui in Francia arriva nelle librerie Les écureuils de Central Park sont tristes le lundi, terzo volume della serie. Nel nuovo romanzo, Josephine - le cui figlie Zoé e Hortense cercano intanto di scoprire la vita - è alle prese con il fantasma del marito scomparso in Kenia e con una passione proibita per il cognato, mentre la sorella si perde nei meandri della depressione.
'Scrivendo Gli occhi gialli dei coccodrilli, non pensavo affatto che Josephine e Iris sarebbero state protagoniste di altri romanzi', spiega la scrittrice francese. 'Di solito, quando finisco un libro, i personaggi mi abbandonano. Le due sorelle invece sono rimaste in me e io mi sono affezionata ai loro problemi, tanto che ho iniziato a domandarmi cosa sarebbe successo nel seguito delle loro vite. Allora, ho iniziato a scrivere un secondo volume e poi un terzo. Da lettrice ho sempre adorato le storie che continuano di romanzo in romanzo, come ha fatto Zola in Les Rougon-Macquart'. [...]
Dopo tanto successo, ha scoperto qual è il segreto di un buon best seller? 'Naturalmente no. Non ci sono ricette. Ogni volta che scrivo un romanzo, penso sempre che sia l'ultimo. Io scrivo solo per me, scrivo le storie che mi piacerebbe leggere. Certo, attraverso i romanzi, cerco anche di raccontare la società in cui viviamo, e per questo cerco di documentarmi il più possibile. Come diceva Stendhal, il romanzo è uno specchio della realtà'.
La letteratura serve anche a consolare i lettori? 'A volte la letteratura può guarire dalla tristezza. A me è capitato'." (da Fabio Gambaro, Se le pene d'amore fanno il best seller, "La Repubblica", 30/06/'10)
martedì 29 giugno 2010
Mario Trevi: 'Da Jung a Fellini amo le zone d’ombra'
"Sulla grande scrivania, dietro la quale Mario Trevi siede, non ci sono oggetti né libri, né ricordi. E´ una superficie libera come una pianura, come un foglio di carta. Sulla quale si notano le grandi mani che ogni tanto vi vengono poggiate. Trevi ha da qualche mese compiuto 87 anni, è uno dei grandi psicoanalisti italiani. Le cronache lo definiscono di scuola junghiana. Ma credo che nel suo metodo, nella sua analisi ci sia qualcosa di più e di diverso. Mentre parla con voce lievemente bassa, penso che quest´uomo sia soprattutto abituato ad ascoltare. Ha un tono affabile, perfino mite. Le parole non sovrastano i concetti e le storie che egli racconta. E´ schivo e ordinato, acuto ed essenziale.
Ha una moglie e una figlia - due psichiatre - e un figlio, Emanuele, che è un noto e bravo scrittore. Anni fa, padre e figlio diedero vita a una bellissima conversazione, che poi divenne un libro (Invasioni controllate, Castelvecchi). Mi colpiva di quell´incontro la disponibilità reciproca, l´apertura massima, l´intesa al limite della complicità. «Ho avuto Emanuele a 42 anni e lui, quando è diventato adulto mi ha spesso vissuto come il vecchio padre da proteggere. Lo trovo bello. Ma immagino che dovrò parlare soprattutto di me», dice con tranquillità.
Dottor Trevi, ci dica qualcosa delle sue origini. «Sono nato ad Ancona, mia madre era una langarola. Ricordo la casa della nonna materna, un palazzotto che ereditammo, non so come, dal quale si vedevano tutte le Alpi. Mio padre era ingegnere. Aveva lavorato in Africa e fu fatto prigioniero dagli inglesi durante la guerra. Morì poco dopo il suo ritorno ad Ancona. La vita per noi, si complicò. Diventammo poveri, anche in seguito alle leggi razziali. Studiavo e mi mantenevo con i lavori più umili. Mi laureai a Bologna, in filosofia con una tesi su Berdjaev. Ricordo che i miei amici mi prendevano in giro dicendomi: come fai ad occuparti di Berdjaev e insieme ad essere iscritto al partito comunista?».
Berdjaev era un intellettuale russo che Lenin cacciò via dopo la rivoluzione. In effetti il Pci l´avrebbe potuta accusare di connivenza con il pensiero borghese e reazionario. Come affrontò la questione? «Semplicemente uscendo dal partito nel 1948. Cominciava a infastidirmi la versione edulcorata dell´educazione marxista su come si dovevano leggere i libri. Erano le direttive di Zdanov».
Ma secondo lei che cosa accadde nella testa di molti intellettuali che accettarono quel tipo di imposizione ideologica? «Semplicemente ribadivano il bisogno di fede e di una verità incontrovertibile».
Una fede religiosa, al punto che un partito, come quello comunista, poteva essere considerato una chiesa? «Sì, qualsiasi fede ha un fondo nascosto, inconscio, di tipo religioso. Fede implica abbandono del bisogno del giudizio critico, rispetto alla parte cui si è aderito».
Uscito dal Pci, cosa fece? «Continuavo a lavorare e a studiare. Ebbi la fortuna a un certo punto di essere trasferito a Roma in un ufficio di carattere finanziario. Ricordo che stabilii un patto con il direttore: avrei prodotto lo stesso lavoro degli altri colleghi in un tempo più breve, dedicando il resto della giornata lavorativa a quello che volevo. Fu un accordo segreto e intelligente. Poi, mi pare nel 1964-'65, ci fu un concorso per insegnare nei licei e lo vinsi. Girai in varie scuole d´Italia, l´ultima fu a Formia. Facevo tutti i giorni avanti e indietro con Roma».
Ma quando nacque il suo interesse per la psicoanalisi? «Nei primi anni romani frequentavo un gruppo di amici, tutti più o meno contagiati da Freud e Jung. E col tempo mi accorsi di patire nei loro riguardi una sorta di nevrosi di adattamento. Sentii parlare di uno psicologo ebreo tedesco, un certo Ernst Bernhard, che era riuscito a sfuggire a Hitler e si era rifugiato in Italia. Dove in seguito fu rinchiuso in un campo di concentramento. Quando finì la guerra Bernhard si stabilì definitivamente nel nostro Paese. La sua storia mi incuriosiva».
Accennava al suo primo incontro con lui. «Sì, andai a trovarlo. Abitava in una casa meravigliosa dalle parti di San Luigi dei Francesi. E fin dal primo momento sentii in lui una personalità paterna. Stetti in analisi per tre anni. Poi, grazie anche al consiglio di un´amica, gli chiesi se accettava di prendermi per un´analisi didattica e fu così che intrapresi la professione di psicoanalista».
C´è differenza tra fare l´analisi a un paziente e farla didatticamente a un allievo?
«Differenze tecniche non ce ne sono. Ma di clima sì. Nell´analisi didattica ci si sente più vicini e questo consente forse un approfondimento maggiore. Dico forse perché sul momento non ci si accorge di nulla. Solo a posteriori si capisce che la didattica ha portato qualcosa di nuovo».
Bernhard era molto legato a Jung? «Non in modo così evidente come si è cercato di mostrare. Tra loro non ci fu un grande contatto. Nel suo travagliato passaggio da Berlino a Roma, Bernhard si fermò a Zurigo, ma non credo che egli fece una vera analisi con Jung. Era già un medico specializzato in pediatria e proveniva da un lavoro serio svolto con un freudiano di Berlino. Insomma, credo fosse dotato di un certo eclettismo».
So che leggeva anche la mano. Come giudica quella sua inclinazione? «Diciamo che l´accettai, perché sentivo che la ragione e la coscienza critica avevano in lui un peso che poteva compensare sia il ricorso all´astrologia che alla chiromanzia. Naturalmente mi chiese di fare l´oroscopo. Gli risposi che non conoscevo esattamente la mia data di nascita. Perché, sebbene ufficialmente fossi nato il 3 aprile, mio padre temo avesse sbagliato giorno».
Ma Bernhard era o no uno junghiano? Gli aspetti insoliti che lei mette in luce indurrebbero al sì. «Si dichiarava junghiano, ma era un meraviglioso interprete dell´immaginazione, soprattutto onirica. In ogni caso con me non esagerava gli aspetti misticheggianti che pure in Jung sono presenti».
Con Bernhard fecero analisi molti artisti e letterati, tra cui Manganelli e Fellini. C´è un motivo particolare per cui si rivolgevano a lui? «Bernhard era dotato di un´intuizione formidabile. Credo che questo affascinasse le persone dotate di talento artistico. Io divenni amico di Fellini negli ultimi anni della sua vita. Un giorno mi cercò e al momento non ne compresi la ragione. Scherzando mi capitò più volte di chiederglielo. Su questo punto evitava di rispondermi. Poi, ho capito che mi aveva cercato perché ero il più vecchio allievo di Bernhard e lui voleva, attraverso me, assorbire gli ultimi sprazzi di quel mondo e di quella intelligenza».
L´intelligenza di Fellini era maliziosa e innocente. Non trova? «Con lui la verità sembrava inglobata in una sfera ironica. Sapeva essere molto piacevole e divertente. I nostri rapporti non andarono però mai al di là del lei. Ogni tanto proponeva di darci del tu. Ma la mia timidezza, e anche la sua in fondo, non consentivano un passaggio dal rispettoso lei al confidenziale tu».
Negli ultimi anni della sua vita Fellini lavorò poco e credo che ne soffrì molto. Lasciava intuire qualcosa del suo stato d´animo? «Avvertivo il disagio e ascoltavo le sue lamentele. Credo provasse una forte delusione per il modo in cui il cinema lo stava abbandonando. La malattia aggravò il quadro. E la sua morte fu un grande dolore per me e mia moglie che lo aveva conosciuto».
A proposito del dolore, che cosa pensa dell´indicazione junghiana che lo psicoanalista deve entrare in empatia con la sofferenza del paziente? «Non esagererei questo aspetto della terapia junghiana. La sopportazione del dolore del paziente è un problema per tutti gli psicoterapeuti. E quando c´è un coinvolgimento empatico il problema si aggrava. Direi che è l´esperienza che deve guidare l´analista».
Come trattano Freud e Jung l´inconscio? «Per Freud l´inconscio è il luogo della rimozione. L´uomo non sopporta determinati pensieri, immagini, pulsioni e li rimuove. Jung oltre a questo vede un inconscio collettivo. Ma aggiungerei che partendo da qui si rischia di non capire nulla delle loro differenze. Il primo problema, sul quale Jung si scontra con il maestro, è nel riconoscimento che la personalità dello psicologo, come costruttore di teorie psicologiche, entra inevitabilmente nelle teorie stesse. L´idea junghiana anticipa in qualche modo l´ermeneutica».
Certamente Freud era più distaccato, anche nel modo di interpretare i sogni. «Diversamente da Freud, Jung era giunto alla conclusione che i sogni non possono essere ridotti alla soddisfazione fantasmatica di un desiderio rimosso legato alle pulsioni. Glielo dice un uomo che ha 87 anni, che continua a sognare e proprio in questa età, quando è difficile trovare soddisfazione ai desideri pulsionali, fa i sogni più belli».
Lei trascrive i suoi sogni? «L´ho fatto per molti anni, con precisione e pazienza, al tempo dell´analisi didattica. Ma occorrerebbe farlo sempre, perché se non lo si appunta immediatamente, il sogno inevitabilmente scompare».
Non ritiene che nell´interpretazione di un sogno ci sia un certo grado di arbitrarietà? «Diciamo pure di tradimento. Che fare? Consiglio di accettarlo come si accetta un amico che a volte ci ruba qualche oggetto. Pazienza».
Lei ha lavorato sul concetto di ombra, si tratta del lato oscuro della persona?
«Sì, ma detto così non si capisce il suo valore nell´ambito della psicoterapia. L´ombra comprende non solo le pulsioni rimosse ma ogni lato oscuro dell´esistenza. Anche la parte di scacco che noi dobbiamo ogni giorno sopportare».
E queste ombre come si manifestano? «Nel sogno, ad esempio, attraverso la personificazione. Nessuno di noi può liberarsi del tutto da pulsioni innominabili. Però la maturità ci aiuta a riconoscerle. Non possiamo isolare da noi quest´ombra. Possiamo stabilire dei patti, non di alleanza ma di accettazione».
Dobbiamo imparare a convivere con la parte meno evidente di noi. Lei ha scritto che un uomo senza ombra è un uomo senza spessore. «Bisogna diffidare degli uomini completamente trasparenti o luminosi».
La letteratura ha molto scritto sull´ombra e il doppio. Pensi a quel prototipo creato da Stevenson con Dottor Jeckyll e Mister Hyde. «Stevenson era un vittoriano legato a una morale solida e pregevole. Una volta avanzai un´ipotesi scherzosa: immaginai un dottor Jeckyll coerente che si concilia con mister Hyde. Ne conclusi che entrambi avevano la loro funzione nella vita».
Com´è una sua giornata? «Mi alzo presto e vengo nel mio studio che ancora mi trasmette molta serenità. Quando non faccio le cose serie, come occuparmi degli altri, c´è la lettura. Sono un lettore onnivoro, disordinato. Avendo fatto un paio di anni di matematica ho conservato il gusto per i libri scientifici. Raramente guardo la televisione, e sempre solo la sera, a volte con mia moglie facciamo qualche commento. E´ raro trovare programmi che ci piacciano».
Televisione volgare, italiani volgari? «La volgarità – sotto le forme più diverse: il denaro facile, il sesso postribolare, la corruzione – è l´ombra del nostro Paese. Ma non esagererei nel demonizzarla. Nei momenti di vera crisi gli italiani sono sempre risultati al di sopra del giudizio espresso su di loro»." (da Antonio Gnoli, Mario Trevi: 'Da Jung a Fellini amo le zone d’ombra', "La Republica", 29/06/'10)
lunedì 28 giugno 2010
Sul tradurre
"Ci sono poche cose che garantiscono un'esplosione di umorismo involontario come un brano affidato in traduzione automatica al computer o, meglio ancora, alla globale ragnatela di informazioni.
A tutti è capitato di ricevere tanto esilaranti quanto allarmate mail che ingiungono di disattivare un account inesistente, previa candida consegna di tutti i propri dati sensibili al link in questione. Poco ma sicuro, un traduttore di professione non cascherebbe mai in una trappola così maldestra: l'improbabile lingua in cui si esprime è di per sé una dichiarazione di scarsa affidabilità.
La traduzione automatica, con la sua carica di ridicolo, dichiara meglio di qualunque trattato teorico la natura unica e insostituibile di questo mestiere. Artigianale nel senso più nobile del termine: impossibile affidarlo a una macchina, a una qualunque forma di serialità. Ciò che distingue il lavoro umano da quello automatico è proprio la «discrezione», la capacità di distinguere. Di questo e altro è fatta la traduzione: opera aperta, mai perfetta.
Tradurre è un lavoro delicato e appassionante, come lo racconta Susanna Basso fra le dense pagine di esperienze personali e «divagazioni militanti»: un mestiere in ombra, che di questa ombra deve fare privilegio e non frustrazione.
Susanna Basso è una grande traduttrice dall'inglese. Verrebbe poi da aggiungere che è la traduttrice «di», fra gli altri, Alice Munro, Ian McEwan e Martin Amis. Se non fosse che una riserva salta subito agli occhi e di lì alla mente: quel «di» genitivo non va inteso come un passivo possesso, anzi. Tanto è vero che, quando parla del suo bellissimo mestiere, un traduttore ti spiega quali sono i «suoi» autori.
In altre parole, se pure di possesso si tratta, è più reciproco che mai. Anzi, forse con un leggero squilibrio della bilancia, perché sono più gli autori ad essere possesso del traduttore, che non viceversa. Perché tradurre è anche e soprattutto «possedere» un testo, in termini se non erotici certo amorevoli.
E' qualcosa, per intenderci, di molto diverso, quasi opposto al leggere: per come si entra, si affonda, si percorre, si esplora la pagina. Susanna Basso racconta queste esperienze in un contatto diretto con i testi: da ogni caso specifico, da ogni impervietà risolta, da ogni revisione, da ogni nuovo cimento con un testo magari già tradotto mille volte, emerge sempre una verità generale: «Sentire una lingua dalle voci della gente è un'esperienza che il traduttore letterario spesso sottovaluta.
Per noi la lingua è sulla pagina, e non fa rumore. Leggiamo nella mente il brano che stiamo per tradurre, maè raro che siamo in grado di udirne davvero i suoni. Le parole scritte faticano a ritrovare la strada del nostro ascolto. Anche quando si tratta di dialoghi, anche quando, per scrupolo, ce le leggiamo a voce alta» (Sul tradurre, Bruno Mondadori).
Però, a ben pensarci, il traduttore ha il coltello dalla parte del manico. Anche se questo coltello è sotto mentite spoglie. Quelle dell'invidia, ad esempio: «Quando siedo davanti alle parole di un autore e ascolto la sua scrittura declinare una voce che non mi appartiene, io so che solo con l'invidia saprò sorvegliare il testo dell'altro mentre si fa mio». All'autore non resta che consegnarsi, con pazienza e fiducia. Il traduttore, dal canto suo, deve esercitare l'arte della discrezione nel senso più ampio del termine: mai prevaricare la scrittura (eppure inventarla daccapo in un'altra lingua), e decidere con indefessa responsabilità.
Perché quando si traghetta un libro da una lingua all'altra, ogni parola, ogni virgola significano una decisione presa e migliaia di altre scartate. E così, la traduzione diventa inevitabilmente un amoroso corpo a corpo con il testo. In fin dei conti, con la vita stessa che si racconta attraverso le parole: prima altrui, e poi proprie." (da Elena Loewenthal, La voce nell’ombra di McEwan e Amis, "TuttoLibri", "La Stampa", 26/06/'10)
Senza scrittori
"'Credo di non aver mai letto un vincitore dello Strega degli ultimi dieci anni': le labbra strette e l'occhio strizzato, Tiziano Scarpa avrà certo messo in conto che, dicendo questo, le stesse cose potrebbe riepterle il vincitore dello Strega 2010, infilando anche il suo Stabat mater, Strega 2009, nel buco nero e indistinto dove giacciono i romanzi lasciati intonsi. Sono i paradossi di quel che resta di una società letteraria. La battuta di Scarpa, raccolta nel catino fumigante del Ninfeo di Villa Giulia, è fra quelle che introducono Senza scrittori, un film documentario di Andrea Cortellessa e Luca Archibugi, critico letterario il primo, regista il secondo, una bella inchiesta prodotta da Rai Cinema e Digital Studio che stasera viene proiettata all'Azzurro Scipioni di Roma, in coincidenza non casuale con la trepidante vigilia del Premio Strega che, appunto, giovedì incorona il suo 64° vincitore.
Senza scrittori è un prolungamento del catalogo stilato da Alberto Arbasino nel suo Un paese senza, un elenco di tutte le cose di cui l'Italia è mancante. Racconta il predominio che la macchina editoriale, soprattutto quella dei grandi gruppi, ha assunto nel mercato della letteratura, dove non ci sono più opere o scrittori, critici o riviste, ma solo libri, solo produzione industriale, solo una filiera perfettamente assestata, e nella quale, però, quella che un tempo si chiamava la società letteraria ha pensato bene di accomodarsi, spintonando un po' e anche dando di gomito, ma trovando un cantuccio nel quale sistemarsi.
Un cantuccio troppo stretto per Antonio Scurati, che ancor prima di essere battuto per un voto da Scarpa, confessa che, sì, è vero, «da qui uscirò triturato anche dal punto di vista del mio stato d'animo», ma che trova il coraggio di annunciare il suo disprezzo per una «società letteraria dalla quale stasera prendo congedo, vada come vada». Un cantuccio stretto anche per il giovane Giorgio Vasta, che lamenta come «la letteratura venga assunta solo se si incarica di essere manutenzione della realtà e che quando ha l'ambizione di essere qualcosa d'altro, le viene sottratta la fiducia». Un cantuccio che sia Scurati che Vasta guardano sempre dall'osservatorio del Ninfeo di Villa Giulia. Cortellessa, camicia e pantaloni rossi, si aggira come un bonario diavoletto fra i tavoli imbanditi dello Strega, filma le calzature che stropicciano il brecciolino, sovrappone la camminata di un metaforico pavone e domanda a Francesco Piccolo se questa è una messinscena da commedia all'italiana, ottenendo come risposta che «qui c'è l'Italia, non la commedia, che in fondo era più dolorosa». Fra scalpiccii e risatine stiracchiate, ecco invece il corrucciato Valentino Zeichen: «Decadente? No, non è una società di grandi decadenti, questa è una società frolla, senza scheletro morale, priva di grandi progetti, di idealità. Una società stanca». Lo Strega mostrerà pure lo spettacolo di una letteratura in cui, sentenzia il vincitore Scarpa, «tutto è vanità». Ma è un po' come la nazionale di calcio, raccoglie quel che trova. E allora ecco che Cortellessa, sempre di rosso vestito, interroga giornalisti come Stefano Salis e critici come Marco Belpoliti, si sofferma spaurito fra i banchi di Fnac e deliziato fra quelli della Coop - accompagnato da Romano Montroni -, ascolta i due proprietari della storica libreria Tombolini di Roma e il responsabile della Demoskopea. Insomma insegue quella filiera produttiva che incasella lo scrittore e la sua opera, dal momento in cui questa prende forma a quando viene distribuita e recensita, meglio se esibita con il suo autore da Fabio Fazio o dalla Dandini o sul palco di un festival. E allora il punto culminante non può che essere una visita a Segrate, dove c'è la Mondadori, cioè «la Xanadu dell'editoria italiana, la centrale dove si fanno i grandi giochi della nostra letteratura». Qui interroga Antonio Franchini, responsabile della narrativa Mondadori, che vive la grande scissione, annota Cortellessa, dell'essere scrittore e dell'essere editore. E qui si introduce anche un parola che non si sentiva da tempo: letterarietà. Che cos'è che rende letterario un testo? Può essere la letterarietà a distinguere fra scrittori di successo e scrittori che si concentrano sulla qualità e la sperimentazione, per esempio? Letterarietà, risponde Franchini, «è un'idea discussa, allargata, non più condivisa». Ma il fatto che le discriminanti siano venute meno che effetto fa? (domanda Cortellessa) «Rende il tutto più divertente, più anticonformista». Il controcanto è affidato a Francesco Cataluccio, ex direttore alla Bruno Mondadori e poi da Bollati Boringhieri: «La società italiana è diventata più cinica, non poteva che diventare più cinica anche l'editoria»." (da Francesco Erbani, Dove è finito lo scrittore, "La Repubblica", 28/06/'10)
Scrittori, svegliate l'Occidente
"Olga Tokarczuk è una scrittrice polacca molto conosciuta. Ha 48 anni. Vive del suo mestiere, cosa non frequente in un Paese che non ha i contributi agli artisti come in Germania, né gli sgravi fiscali come in Irlanda. Mentre la Polonia va alle elezioni, Olga Tokarczuk rilascia un'intervista lapidaria. Qual è il ruolo della letteratura? Politico, sempre. Gli scrittori possono cambiare il mondo? Assolutamente sì. In che senso, scusi? Politica significa, per lei, uno sguardo consapevole sulla realtà: e gli scrittori, gli artisti in generale, «mettono in luce cose che non riusciamo più a vedere, che ci sembrano ovvie e normali. E che invece, soprattutto nei paesi autoritari, sono spesso ingiuste e violente».
Vedere il mondo come è davvero, vedere il mondo come potrebbe essere. Quale mondo, però? La Polonia: «Prima del 1989, il regime cercava sempre di comprare gli scrittori». La Russia: «Il problema della nostra parte di Europa è che la cosiddetta società civile è debolissima. Per me, la Russia è l'esempio di un luogo dove una società funzionante non esiste». I polacchi, aggiunge, hanno e hanno sempre avuto paura e avversione per il regime russo: percependolo come asiatico, spaventevole.
Ma ce n'è anche per noi: «il ruolo dello scrittore che risveglia, riscuote e allarga le coscienze è ancora più indispensabile in Occidente, perché le democrazie ottundono la sensibilità sociale. Quando stiamo bene e al sicuro, perdiamo la tendenza naturale a confrontarci con le cose».
Ecco. Nulla di originalissimo, ma a volte è utile ripassare i fondamentali: lì, nella democrazia che cerca se stessa dell'Europa orientale, e nell'ottundimento sociale e civile dell'Europa occidentale. «La letteratura è sempre politica». Già. Ma, allora, ha senso pensare a una letteratura europea? È vero almeno che i bestseller sono uguali dappertutto, magari perché l'inglese stravince? No. Fra i 20 più venduti nei 7 principali mercati editoriali del continente, solo cinque sono scritti in inglese, e Larsson o Zafón valgono quasi quanto Stephenie Meyer o Dan Brown. Compiti per le vacanze: capire se davvero, nelle tante diverse Europe, la letteratura è politica. Qui da noi, per esempio??" (da Giovanna Zucconi, Scrittori, svegliate l'Occidente, "La Stampa", 26/06/'10)
sabato 26 giugno 2010
Il realismo si è tinto di noir
"Non è che il noir come genere o i "giallisti" - come ci continuiamo a chiamare anche quando scriviamo altre cose - abbiano scelto di diventare narratori della realtà sociale e politica italiana con un atto razionale e magari programmatico. Non è così che avvengono le cose in narrativa. La realtà, i risvolti politici e sociali della nostra storia noi li abbiamo incontrati sulla nostra strada. Perché a forza di raccontare la metà oscura delle cose - che è il nostro campo - finiamo per ritrovarci in mezzo a fatti di politica, di economia e di storia, proprio perché una parte notevole di quella politica, di quella economia e di quella storia in Italia si muovono, appunto, in quella metà oscura. Insomma, in un mondo di pazzi lo psichiatra è soltanto un sociologo. Così quando ci siamo trovati ad incrociare quella realtà così complessa, così strana e così italiana le abbiamo semplicemente applicato i nostri strumenti narrativi, le nostre armi: il mistero, l'indagine, l' intreccio, anche la suspence e il colpo di scena. È stata una cosa naturale e più o meno ha quasi sempre funzionato. Faccio un esempio di quello che è successo a me come narratore di misteri in televisione. Il primo programma che ho fatto si chiamava Mistero in Blu, era più o meno il '98 e stava su Rai2. Mi avevano chiamato Carlo Freccero e Simona Gusberti per raccontare casi di cronaca come aveva fatto fino a quel momento un bel programma come Telefono Giallo. Casi di cronaca, omicidi cosiddetti "privati". Noi lo abbiamo fatto per tre o quattro anni - alla nostra maniera, naturalmente - passando a Rai3 e chiamandoci Blu Notte. Ma succedeva sempre una cosa. Incontravamo a volte nei nostri casi risvolti più complessi, che avevano a che fare con politica, storia o economia, e che lasciavamo da parte proprio perché più complessi. Non era compito nostro, noi raccontavamo il giallo, chi ha ammazzato chi e come. Ma soprattutto incontravamo sempre, nella nostra vita di tutti i giorni, riferimenti a quella politica, quella storia e quella economia che semplificando chiamiamo "Misteri italiani". Perché non si può vivere in Italia senza incontrare mafia, terrorismo, istituzioni deviate e finanza criminale, anche solo nei ricordi. Ci sarebbe piaciuto raccontare anche quelli ma come fare? Sono un'altra cosa, non sono "gialli", e poi sono, appunto, troppo complessi. Avevamo un mito, la strage di Piazza Fontana. Ci sarebbe piaciuto raccontarla ma per le ragioni di cui sopra ci sembrava fuori dalla nostra portata. Poi, un giorno, ci siamo chiesti perché. Perché fuori dalla nostra portata. Il nostro mestiere in tutti quegli anni era stato rendere comprensibili le cose complesse - cosa c'è di più complesso della trama di un "giallo"- renderle appassionanti - cosa c'è di più appassionante di un "giallo" - e fare in modo che il racconto di quelle storie servisse a qualcosa - ricordare la vittima, capire gli errori della società e degli investigatori, fare memoria. Perché non applicare tutto questo alla Strage di Piazza Fontana? Ecco, è quello che abbiamo fatto, più o meno ci è riuscito e da allora non ci siamo più fermati. È così che, per quanto mi riguarda, il "giallo", nei libri come in televisione, ha cominciato a raccontare la storia. Quella passata e quella di oggi." (da Carlo Lucarelli, Il realismo si è tinto di noir, "La Repubblica", 26/06/'10)
Il mondo è un giallo
"Un gentile lettore la scorsa settimana ha scritto a Repubblica per lamentare il fatto che anche questa estate, come tutte le estati, la Rai programma le repliche della Signora in giallo: gli stessi episodi, tutti gli anni, visti e rivisti, aggiunge il lettore, «con esito scontato» (probabilmente intende affermare che l' esito fosse scontato già all'epoca della prima messa in onda). In effetti la Rai potrebbe (come al solito) sforzarsi un po' di più, ma il fatto è che il genere giallo, noir, poliziesco, di indagine o comunque lo si chiami o colori è la chiave di lettura contemporanea della realtà. Lo è, o è ritenuto esserlo: il che, nei territori dell'immaginario, è su per giù la stessa cosa. Per rispondere a quel lettore lo si potrebbe allora rimandare all'inserto speciale della rivista francese Lire, dedicato al genere del poliziesco, che in quella sede viene dichiarato il "preferito dei francesi" (e, a giudicare dalle classifiche di vendita, si sarebbe potuto dire abbastanza tranquillamente anche "degli italiani"). Oppure indicargli i siti e i blog letterari dove, negli ultimi anni, la questione dei generi letterari e la presunta egemonia del giallo e del noir nell'editoria italiana odierna è stata dibattuta fino a quella soglia critica in cui l'ennesima visione di un caro episodio della Signora in giallo torna a essere (in comparazione con il proseguimento della polemica medesima), del tutto desiderabile. O raccontargli delle delizie del crossover tramite cui gli investigatori di Andrea Camilleri e Carlo Lucarelli si incontrano in una recentissima opera a quattro mani, che è un po' come quando Pinocchio vede Arlecchino al teatro di Mangiafuoco o, in termini più pertinenti, quando i maggiori detective del pianeta collaborano e bisticciano sul set di Invito a cena con delitto o nelle pagine dell' edizione fruttero-lucentiniana del Mistero di Edwin Drood di Charles Dickens.
Rimanendo nella programmazione televisiva, basta dare un'occhiata ai palinsesti, non solo estivi. Che sia un tg, un programma di rievocazioni storiche o una fiction, un morto ammazzato non guasta mai e, a differenza della donna nuda o dei mondiali di calcio (che dividono), mette d'accordo tutti. Specialmente nelle fiction minori, quelle scritte solo con il mestiere, ci si rende conto di come il "giallo" sia già un modello di trama, buono per tutte le occasioni. Se avete un personaggio da far recitare o avete un'idea particolare oppure, in mancanza di qualsiasi ideao di un' idea qualsiasi, lo fate detective (è il caso sia di Bud Spencer sia di Terence Hill): così avrete occasione di fargli ficcare il naso dappertutto, di mostrare qualche scorcio di centri storicie sordide periferie, di entrare negli ambienti sociali più diversi mentre la suspense è lì a disposizione, senza particolari sforzi di sceneggiatura. Parlare "in genere" non è mai bello, neppure quando il genere è un genere letterario. Almeno occorrerà non farne un unico minestrone, dove il mestolo può catturare di volta in volta Simenon, Scerbanenco, Gadda o putacaso Diabolik. In particolare, occorre non confondere, neppure per un attimo, le patologie cognitive e umane che rendono così geniali le figure dei detective storici (dal Dupin di Edgar Allan Poe al Marlowe di Raymond Chandler: ma risalendo sino a Edipo, se si vuole) con le più quiete anamnesi della maggior parte dei loro odierni epigoni. Perché poi alla fine la posta in gioco, nel poliziesco, è proprio il sapere: la distribuzione del sapere fra i personaggi (e quella fra autore e lettore). Nel tempo della narrazione, l'autore somministra pezzi di verità, a rilascio lento: basta un errore nel dosaggio e, come nella Promessa di Friedrich Dürrenmatt, l'incastro non riesce, la verità diventa inconoscibile, la promessa al lettore (ti darò la verità alla fine di un percorso iniziatico, divertente e sorprendente) finisce nel nulla. E infatti a questo suo capolavoro Dürrenmatt aveva aggiunto un sottotitolo: «Un requiem per il romanzo giallo». La storia, però, tanto va avanti quanto torna indietro. Così se all'epistemologia dürrenmattiana si possono affiancare i gialli "metafisici", le detection postmodern, ironie e meta-indagini di ogni sorta (da Jorge Luis Borges a Vladimir Nabokov, a Don De Lillo, a Thomas Pynchon), da un certo punto in poi si è fatto sempre più ostinatamente finta di nulla: sino a rendere lo schema classico (e positivista) delitto-indagine-scioglimento una sorta di format passe-partout. Qui si incomincia a pensare che la forma del giallo diventa sostanza, interpretazione della realtà. Eppure Bertolt Brecht, che era Brecht, lo aveva già detto negli anni Trenta: «Il romanzo poliziesco, come i cruciverba, ha uno schema e rivela la sua forza nella variazione»; e Wystan H. Auden confessava: «Per me, e così per molti altri, la lettura dei gialli è un vizio come il tabacco e l' alcool». Sintomi: l'intensità del desiderio, la sua specificità («Il racconto deve rispettare determinate regole»), la sua fugacita. Infatti: «Dimentico il libro non appena giunto alla fine, né provo il desiderio di rileggerlo». La morbosità accomuna sia la confessione di Auden sia la stroncatura della moda delle detective story da parte di Edmund Wilson: «Gli appassionati fanno un continuo parlare di gialli "scritti bene": è semplicemente un alibi per il loro vizio, come lo sono le ragioni che un alcolista può sempre trovare per una bevuta».
Un senso di colpa originario porta il lettore a contatto con i racconti di delitti: si sente partecipe del clima di sospetto, e lo scioglimento della trama lo soddisfa anche perché gli conferma la sua innocenza. La chiave di lettura della realtà diventa, dunque, il senso di colpa? Il caso italiano poi è speciale, a causa della tara nazionale: i conti mai fatti con il passato; mai fatti perché abbozzati e lasciati lì mille volte. Nel colpevolissimo indugio della politica, i fantasmi insepolti del Grande Vecchio, del Burattinaio, del Collezionista di Automi non fanno ormai strisciare più le loro catene solo nelle segrete della Giustizia o in quelle della Storia, ma anche nei meno venerandi castelletti della Narrativa. Quelle Entità avvertite medianicamente dal dietrologo trovano la loro dimensione mediatica nella fantasia di un narratore, che "sa" poiché, pasolinianamente, "sa". Ma quel che si può viene a sapere dal giallo lo si sapeva già, e da tempo: ce lo insegna proprio, con tutte le sue repliche, la Signora in Giallo. Il vero problema è tutto ciò che da sempre e per sempre, nel giallo, si ignora." (da Stefano Bartezzaghi, Il mondo è un giallo, "La Repubblica", 26/06/'10)
venerdì 25 giugno 2010
Fiction is Dead. Again?
"Nelle scorse settimane il New Yorker ha fatto molto parlare con la sua lista dei migliori scrittori sotto i quaranta anni, 20 Under 40.
Ci sono state tante reazioni, da quelle serie (ad esempio la riflessione su quanto deve essere giovane un narratore, fatta dalla Sunday Book Review) a quelle divertite. Come la lista degli scrittori sopra gli ottant'anni o l'aggiornamento al 1970 dell'elenco del New Yorker.
Nei giorni scorsi, tra le tante voci che hanno dato eco alla cosa, Lee Siegel ha scritto un pezzo sull'Observer che inizia così: «Nel tumulto provocato dalla lista 20 under 40 è stata tralasciata un'evidenza grande quanto un elefante», scrive, «la narrativa è diventata culturalmente irrilevante».
Certo, se leggi questo paragrafo di esordio, entri in una logica evidente a se stessa: viviamo in una cultura in cui la battaglia per l'attenzione è talmente serrata che devi stupire con titoli forti (Google ci rende stupidi, ad esempio) o con paragrafi ad effetto come quello citato. Ma gli argomenti di Siegel raccolgono un po' di sentire comune in vari ambienti non necessariamente collegati con lo spirito del tempo. Uno dei più punti forti del ragionamento è che scrivere è diventata una professione e che questo penalizza la creatività, ma ci sono -e vengono elencati- tanti e diversi fattori che concorrono a definire la trasparenza della narrativa nelle cose importanti del XXI secolo. Tra l'altro, Siegel sembra notare che le cose più interessanti ormai si scrivono sul versante della non-fiction, i cui autori sono diventati i veri storyteller del nostro tempo. L'articolo si intitola Where Have All the Mailers Gone? ed è sicuramente un pezzo scritto per ottenere visibilità attraverso la polemica.
Ma il ragionamento di Lee Siegel va letto per poi essere affiancato dalla risposta di Carolyn Kellog sul Los Angeles Times, che esamina punto per punto le argomentazioni e le controbatte. «Ogni tanto, nel giro di pochi anni», scrive giustamente la Kellogg, «c'è qualcuno che trova un pulpito per dire che il romanzo è morto». E non occorre andare tanto indietro: basta tornare a gennaio, con un pezzo di Mother Jones intitolato The Death of The Fiction?. In fondo sono decenni che muore il romanzo, eppure è sempre qui.
In ogni caso, l'articolo della Kellog si intitola (correttamente) Fiction is dead. Again? e si conclude in maniera molto anglosassone con una esclamazione di senso contrario: «la narrativa è viva!»
Il punto interessante, la ragione per cui ne parliamo qui, è che i due articoli, letti insieme, costruiscono uno scenario che non tiene assolutamente conto della transizione al digitale della lettura e dell'editoria. E' assai probabile che le nostre abitudini di lettori cambino molto nei prossimi anni e che l'accesso alla letteratura finisca per seguire regole differenti. Ne abbiamo parlato spesso ed è una delle tendenze in atto che merita più attenzione. Occorrerà tempo perchè se ne vedano gli effetti, ma il processo è già abbastanza irreversibile.
L'unica certezza, se di certezze si può parlare, è che quando il digitale ha toccato un'industria culturale ha ovviamente modificato profondamente il modello di ricavi (e quindi l'industra stessa). Ma ha anche sempre fatto crescere la domanda di contenuti.
L'esempio sotto gli occhi di tutti è la cosiddetta «crisi dei giornali». Una crisi industriale, cui però corrisponde un aumento della domanda di informazione.
Ecco, io di questo sono convinto: il digitale farà crescere la domanda di lettura e avvicinerà alla narrativa persone che normalmente la frequentavano meno. E probabilmente (come è accaduto con la musica) sposterà l'orizzonte di molti un po' più lontano dal promontorio visibile dei bestseller.
Non avendo sfere di cristallo, io ci scommetterei una birra. Poi, certo, staremo a vedere in che modo gli editori e il mercato riusciranno ad assecondare questa tendenza." (da Giuseppe Granieri, E' morto di nuovo il romanzo, "La Stampa", 25/06/'10)
La storia universale della distruzione dei libri
"Voltandoci improvvisamente a guardare il nostro passato, potremmo vederlo avvolto nell'immensa fiammata che ha ingoiato non solo uomini e civiltà, ma anche biblioteche e libri. Sono delitti che il venezuelano Fernando Bàez chiama memoricidi e talvolta bibliocausti, con un termine che subito evoca i roghi nazisti. E non sono solo inchiodati nelle pagine della Storia ma tornano anche in quelle della cronaca, coem testomioniano il saccheggio della Biblioteca nazionale di Baghdad nel 2003 o il bombardamento di quella di Sarajevo nel 1992, cannoneggiata per tre giorni e tre notti dai serbi.
Bàez, un po' biblioteconomo un po' Indiana Jones libresco, non distingue tra passato e rpesente, va alla ricerca dei patrimoni culturali perduti, avvista quelli in pericolo, setaccia archivi, esamina papiri dal bordo bruciato, individua indizi e piste, redige cataloghi. Ed è instancabile. Una parte del suo titanico lavoro la si può leggere in La storia universale della distruzione dei libri. Dalle tavolette sumere alla guerra in Iraq, tradotto in 17 lingue e pubblicato in Italia dall'editore Viella. Nel 2002 aveva scritto un saggio sull'incendio della biblioteca di Alessandria e, più recentemente, ne ha dedicato un altro al saccheggio culturale dell'Iraq. [...]
Anche leggendo il suo libro si capisce che nessuna epoca ha risparmiato la furia contro i libri. Perché? 'Basta leggere il sesto capitolo della seconda parte del Don Chisciotte. C'è una scena in cui un chierico e un barbiere si introducono nella biblioteca di Alonso Quijano mentre costui dorme e gli rubano un centinaio di libri. Quest'uomo era diventato pazzo a furia di leggere romanzi cavallereschi. Quel genio di Cervantes aveva capito che i libri vengono distrutti per l'effetto che producono nella vita della gente. I censori credono erroneamente che eliminandoli si possa, nello stesso modo, cancellare l'effetto che hanno esercitato sull'identità delle persone. Il memoricidio è stato perpetrato nella Storia come tentativo di dominare gli individui e la società. Esiste un potere simbolico dei libri e delle biblioteche: li si distrugge tentando di sostituirli con altri testi. Paradossalmente, quelli che distruggono i libri altrui considerano i propri intoccabili'.
Lei racconta di come i monaci cancellassero Cicerone per trascrivere sant'Agostino: la guerra tra il sapere laico e quello religioso viene da molto lontano ... 'Certo, è il fenomeno del palinsesto, frequente tra Medioevo e Rinascimento. Con un procedimento particolare, si cancellava la pergamena e si riscriveva sopra. Ed è buffo, perché poi, grazie a moderne tecnologie di restauro, abbiamo potuto rileggere gli originali. Nel caso di Cicerone, parliamo di un testo che si rifaceva a uno dei dialoghi perduti di Aristotele'.
Quale è stato il più grande massacro di libri che si ricordi nell'epoca moderna e da cosa fu causato? 'Da motivi religiosi. Parlo della purga dei libri perpetrata in Inghilterra tra il 1536 e il 1540, per ordine di Enrico VIII. Nel 1550 poi, i seguaci di Edoardo VI rubarono e bruciarono i libri della biblioteca dell'Università di Oxford'.
In mezzo a tanto fuoco, si ha notizia di libri che non sono giunti fino a noi? 'Certo. Esistono moltissimi testi desaparecidos. I cataloghi che ci giungono dalla Mesopotamia testimoniano l'esistenza di numerosi poemi, come quelli di Gilgamesh, mai arrivati a noi. I cataloghi di autori come Sofocle indicano che si è perso il novanta per cento della sua opera. Anche l'Origine della specie di Charles Darwin ha rischiato di sparire: per le idee che esprimeva è stata l'opera più perseguitata a cavallo di XIX e XX secolo. Ancora oggi, negli USA, ci sono biblioteche che la tengono nascosta'.
Al tempo della guerra d'indipendenza messicana i libri furono usati per fabbricare munizioni. Un caso paraddossale? 'Nella maggior parte dei casi, i libri vengono distrutti per ragioni morali o politiche. Nel 1861, sempre in Messico, i frati, temendo il decreto di espropriazione dei beni ecclesiastici, tentarono, senza successo, di difendere decine di monasteri, le cui biblioteche furono saccheggiate e distrutte. Ma abbiamo anche il caso di un personaggio dimenticato, Anthony Comstock che nel 1873 ideò la Società newyorkese pe rl'eliminazioen del vizio: fece distrugegre 120 tonnellate di libri, soprattutto romanzi, che giudicava immorali. La voglia di censura viene da lontano. L'imperatore cinese Shi Huan Di decretò la distruzione di tutti i libri che avevano preceduto la sua nascita. Ci fu chi memorizzò i trattati classici per evitare che si perdessero. Un po' come nel meraviglioso romanzo di Ray Bradbury, Fahrenheit 451'.
Anche nel corso di guerre fratricide, come tra inglesi e americani, è successo di tutto. Non è strano? 'Furono azioni di guerra. Nel 1813 gli americani presero il Canada e New York e bruciarono la biblioteca legislativa. Un anno dopo gli inglesi appiccarono il fuoco alla Biblioteca del Congresso di Washington. Thomas Jefferson offrì la sua e ne ricavò del denaro, non senza polemiche. Da quella transazione nasce l'odierna Biblioteca del Congresso. Durante la Rivoluzione francese, molti volumi bruciarono nei saccheggi delle abbazie tra il 1793 e il 1794. Niente di peggio, per i libri, delle rivoluzioni fuori controllo'.
Nel suo libro si fa cenno anche ad alcuni valorosi, come i monaci irlandesi, che si dedicarono alla salvaguardia dei testi. 'Non furono i soli. Prendiamo santa Wilborada, patrona dei bibliofili. Era il 925 e i barbari attaccarono il monastero di san Gallo. Quando presero a distruggere i libri, lei li nascose sottoterra e non ne rivelò il nascondiglio, a prezzo della vita. Fu assassinata proprio sopra i libri interrati. La sua storia è raccontata dalla scrittrice argentina Carina Maguregui nel suo libro Vivere ardendo. E in Pakistan, per dirne un'altra, tra le montagne di Chiltan, un gruppo di servitori della comunità di Quetta custodisce dentro 56 tunnel un cimitero di edizioni del Corano, nascoste dentro borse sotterrate'.
Il libro elettronico può essere oggi l'antidoto contro la furia censoria e futuri roghi? 'Viviamo in un'epoca interessante ma pericolosa. Le forme dic ensura del XXI secolo sono sottili. Siamo diventati 'tecnologici' e raramente asistiamo a roghi. Ma per molti aspetti oggi siamo anche più vulnerabili'." (da Alberto Riva, Il memoricidio è in agguato dal Medioevo all'Iraq, "Il Venerdì di Repubblica", 25/06/'10)
mercoledì 23 giugno 2010
I filosofi e la vita
"La crisi dei nostri giorni non ci avrebbe colto impreparati se solo avessimo letto e prestato attenzione a quei pensatori del Novecento che, su sponde filosofiche e politiche opposte e spesso tra loro in conflitto, avevano descritto il tracollo dei valori su cui l´Occidente aveva costruito se stesso, e il dispiegarsi di quel teatro dove il nichilismo, "l´ospite inquietante" annunciato da Nietzsche, dettava a tutti gli attori la loro nuova parte.
Oggi è possibile rimediare a questa lacuna con la lettura di un libro, I filosofi e la vita, (Bompiani) scritto da Antonio Gnoli e dal compianto e caro amico Franco Volpi, in cui sono raccolti una serie di articoli e le interviste che gli autori fecero ai filosofi del Novecento, o, se defunti, ai loro figli che ne custodiscono la memoria e gli epistolari. Ne risulta un interessante intreccio, dove il pensiero filosofico si contamina con le vicende della vita, ivi compresa la vita del filosofo, che talvolta ne condiziona il pensiero e talvolta lo lascia imperturbato nelle sue analisi lucide e penetranti.
È il caso di Heidegger, di cui Franco Volpi ha curato le traduzioni delle sue opere per Adelphi, che dissolve la metafisica dell´Occidente, decreta la fine della centralità dell´uomo nella storia, annuncia l´avvento della tecnica che ridurrà gli uomini a "im-piegati" degli apparati tecnici, quando non a semplice materia prima, «la più importante materia prima (die wichtigste Rohstoff)». L´intervista è al figlio Hermann Heidegger che rievoca i rapporti di suo padre col grande giurista tedesco Carl Schmitt, e soprattutto con Ernst Jünger, i cui scritti giovanili piacquero all´intellighentia nazista, anche se Jünger, come peraltro testimonia anche Hannah Arendt, nazista non lo fu mai.
È lo stesso Jünger a confermarlo nell´intervista rilasciata, in prossimità del suo centesimo compleanno, in cui ricorda che ebbe salva la sua vita grazie a Hitler, lettore dei suoi libri giovanili, contro il parere di Goebbels e Göring che volevano la sua testa. A Carl Schmitt, padrino di suo figlio Alessandro, Jünger un giorno chiese se avesse un mitra in cantina. E a Schmitt che gli chiedeva perché, Jünger rispose: «Perché lei ha pronunciato la sentenza: il Führer crea il diritto. Una frase, dal punto di vista politico molto pericolosa». E poi una profezia: «In questo evo il poeta dovrà andare in letargo. Ciò vuol dire che le azioni sono più importanti della poesia e del pensiero che le cantano e le riflettono. Sarà un evo molto propizio per la tecnica, ma sfavorevole alla cultura».
Cambiando scenario, un´intervista al novantenne Albert Hofmann, scienziato svizzero, chimico di professione e umanista per passione, che scoprì l´Lsd e, a partire dalla sua scoperta, prese a leggere «il modo in cui l´Occidente ha guardato e vissuto la propria instabilità e precarietà». Nato per un utilizzo psichiatrico, l´Lsd fu nominato "psichedelico" perché «atto a manifestare la psiche». Hofmann lo assumeva insieme a Jünger per «potenziare la sensibilità e sperimentare quel sentimento oceanico che ci fa sentire tutt´uno col mondo». A sentire Hofmann, anche Platone, Pausania, Marco Aurelio conoscevano l´uso di allucinogeni, come ad esempio il kykeon, la bevanda psicotropa impiegata nei misteri di Eleusi.
Non di droghe, ma di vino era appassionato Hans-Georg Gadamer che, all´arrivo di Volpi e Gnoli recatisi nella sua casa per intervistarlo, offre una bottiglia di eccellente Montepulciano. Gadamer era sulla soglia dei cent´anni, ma non aveva dimenticato quella frase che leggiamo nel Simposio di Platone. "In vino veritas". A fianco di tutti i grandi pensatori tedeschi: Husserl, Scheler, Hartmann. Heidegger, Gadamer, già a vent´anni, vive con scetticismo la fiducia che allora si nutriva nei confronti della scienza e della tecnica, e dopo aver letto le Considerazioni di un impolitico di Thomas Mann, prese a riflettere sulla distanza che si era venuta a creare tra «i valori spirituali della Kultur umanistica rispetto a quelli materiali della moderna Zivilisation».
Con Marcuse, Horkheimer, Ritter, Löwith, Hans Jonas e Leo Strauss, anche Gadamer assiste alle lezioni di Heidegger restandone affascinato, ma discostandosi quando il maestro pensò di «promuovere un rinnovamento dell´università cavalcando, con un´incredibile e inimmaginabile ingenuità, il movimento nazionalsocialista», quasi a sottolineare che non sempre la vita accompagna la grandezza del pensiero, ma anche che la grandezza del pensiero può trovarsi in uomini "pavidi" come Heidegger. Ad Heidegger va comunque riconosciuto il merito, osserva Gadamer, di aver individuato per primo e con più lucidità di tutti che «il progresso tecnico, nel bene e nel male, è diventato il nostro destino». E alla domanda: «Quale sistema politico assegnare alla tecnica per contenerla?», la risposta di Gadamer è: «La democrazia? Chissà».
Franco Volpi e Antonio Gnoli girarono in macchina tutta la Germania per intervistare i testimoni del pensiero del Novecento. Dobbiamo essere grati a questo loro peregrinare che ci consente di conoscere, per voce diretta, la loro interpretazione del secolo appena concluso. Scrive Gnoli: «La caratteristica assolutamente definitiva dei morti è la loro assenza. Ma essi tornano sotto altra forma, come un debito che abbiamo contratto con la loro vita che si è chiusa». E questo vale non solo per i grandi filosofi intervistati, ma anche per Franco Volpi, vittima un anno fa di un incidente mortale sulla sua bici, a cui Massimo Donà ha dedicato il numero di Panta Decalogo (Bompiani) con belle foto di Volpi e Gnoli, i due girovaghi in cerca di testimoni del pensiero." (da Umberto Galimberti, Così vivono i filosofi. Il ‘900 con gli occhi dei pensatori, "La Repubblica", 23/06/'10)
martedì 22 giugno 2010
Segnali di cultura che resiste
"C'è qualcosa che può contraddire l'impressione (largamente diffusa, largamente motivata) di un Paese che sta smobilitando la propria tradizione artistica e il proprio futuro culturale? Forse sì, e senza bisogno di farsi abbagliare dal Macro o Maxxi, ammirevoli residui di vecchie e benemerite politiche culturali più che segno di reale novità. Le novità stanno forse altrove.
Un comitato dal nome che - ammettiamolo - più attraente non si può (il 'Comitato per la bellezza' presieduto da Vittorio Emiliani) ha messo in relazione due dati singolari: i 3 milioni 229mila spettatori che in tv hanno seguito il maestro Daniel Barenboim parlare e suonare Chopin da Fabio Fazio (uno share per una volta benedetto: 15.5%, parecchio per RaiTre) e la cifra quasi uguale (un po' meno per la verità: 2.978.000) che dichiara di seguire l'offerta musicale e culturale proposta ogni giorno da Radio3, con un balzo impressionante rispetto al passato. (Per chiarire: derivando da nuove tecniche di rilevazione, il dato non è confrontabile con quelli trascorsi - altrimenti dovremmo brindare a un clamoroso 60% in più! - ma probabilmente registra meglio del passato la reale consistenza di un pubblico finora sottovalutato). A questi dati potremmo aggiungerne un altro: gli 85mila telespettatori che sul canale digitale di Rai Storia hanno seguito la diretta del concerto del 2 giugno con l'Orchestra sinfonica Rai da piazza s. Carlo: più del doppio della media di ascolto del canale nel mese di maggio. Di colpo, il 100% in più.
E sto parlando di qualcosa, come i mezzi di comunicazione di massa, dove la qualità culturale sembrava destinata a sparire, o a vivacchiare confinata in riserve d'élite. Altrove fenomeni di interesse e passione simili sono consolidati da tempo, come sa chi segue festival e rassegne culturali dal vivo. Ne derivano almeno un paio di considerazioni. La prima è che stavolta le nuove tecnologie di comunicazione non sono destinate generare omologazione in basso ma possono favorire favorire la ricerca della qualità. Persino in tv, dove la moltiplicazione dell'offerta digitale potrebbe aiutare a curare l'ossessione generalista e i suoi esiti involgariti. Ma l'importante è che questo permetta di portare a galla la realtà nascosta della nostra società ormai frammentata in gusti, consumi, pratiche diverse. Tutti di minoranza, per così dire. Finora la grande minoranza televisiva ha schiacciato le altre, generando una sorta di illusione ottica che è il momento di sfatare, o almeno di sfidare. In una situazione difficile: la crisi non fa che aggravare un ritardo storico ma soprattutto sembra alimentare un'antica diffidenza anticulturale. Non si spiega altrimenti la tentazione ricorrente di tagliare dove c'è poco da tagliare e risparmiare dove i risparmi sono quasi irrilevanti. Ma da questo punto di vista più dei 232 enti più o meno nobili o inutili, preoccupa quelllo che accade nelle scuole, nelle biblioteche, soprattutto nelle famiglie: come forse è noto tra i ventisette Paesi europei siamo al diciannovesimo posto per istruzione pubblica e formazione. Meno noto e più grave un altro dato: siamo al ventiquattresimo posto (precediamo solo Lituania, Bulgaria, Romania) se si considera la spesa in cultura e ricreazione delle famiglie. Un disastro che pregiudica il futuro delle generazioni future più della quota di debito pubblico che incombe su ogni neonato. Specie se prendiamo sul serio le parole di Michelle Obama ricordate sul Sole di domenica 30 maggio da Pier Luigi Sacco: il destino di un Paese 'dipende dal fare in modo che ciascuno abbia accesso alle arti e alle opportunità culturali'. L'alternativa è nitida, ormai, e la sfida è questa. Ma, come dimostrano i dati citati all'inizio, la novità è che si può combattere, con qualche speranza di successo." (da Marino Sinibaldi, Segnali di cultura che resiste, "Il Sole 24 Ore Domenica", 20/06/'10)
lunedì 21 giugno 2010
Il genio femminile
"«Il bisogno di credere è un bisogno prepolitico e prereligioso, sul quale poggia il desiderio di sapere. Riconoscendo l'importanza di tale bisogno, noi atei possiamo favorire il dialogo tra credenti e non credenti, per combattere da un lato il nichilismo e dall'altro l'integralismo». Linguista e psicoanalista, saggista e romanziera, Julia Kristeva, dopo Il genio femminile, la trilogia dedicata a Hannah Arendt, Melanie Klein e Colette, ha pubblicato Bisogno di credere (Donzelli), un testo in cui, pur senza rinunciare alle sue convinzioni figlie dell' illuminismo, si confronta con l'universo della fede. Un dialogo che attraversa anche Teresa mon amour. Santa Teresa d'Avila: l'estasi come un romanzo (Donzelli), un libro a metà strada tra romanzo e saggio, che analizza la personalità e gli scritti della santa spagnola del XVI secolo. Proprio di Teresa d'Avila, la studiosa francese parlerà domani alla Basilica di Massenzio in chiusura del Festival Letterature. «Ho iniziato ad occuparmi di Teresa quasi per caso, scoprendo un personaggio estremamente complesso, ricco e attuale», spiega Kristeva, in questo momento alle prese con la stesura di un nuovo romanzo. «Oggi lo scontro di religioni è una realtà che non possiamo ignorare. Il dialogo quindi è necessario. L'Europa - forse perché ha conosciuto la violenza e l'orrore legati alle religioni, dalle crociate alla Shoah - ha intrapreso, prima con l'illuminismo e in seguito con le scienze umane, un percorso di attraversamento della religione. Non per ghigliottinarla, come ha fatto la Rivoluzione francese, o per rinchiuderla nei gulag, come è accaduto in Unione Sovietica, ma per tentare di "transvalutarla", come direbbe Nietzsche. Attraverso il caso concreto di Teresa, io ho cercato di dare il mio contributo a questo percorso di attraversamento».
Per questo, Monsignor Gianfranco Ravasi l'ha invitata a partecipare al dialogo tra credenti e non credenti. Le sembra un'opportunità? «Oggi, più ancora del dialogo interreligioso, occorre promuovere il dialogo tra chi crede e chi no, soprattutto in Europa. Appartengo a coloro che, per dirla con Tocqueville e Hannah Arendt, hanno reciso il filo della tradizione. Mi considero una discendente dell'illuminismo e della secolarizzazione che ci hanno messo in guardia contro i rischi della religione: la nevrosi, le illusioni, gli abusi, le guerre. Il filo reciso della tradizione ci ha consentito di muoverci verso la libertà, senza la quale non ci sarebbero il mondo della scienza né quello dell'arte, l'avventura dell'impresa né quella dei nuovi amori. Il filo reciso della tradizione è una conquista importante, ma occorre evitare la deriva verso un nichilismo senza valori e senza autorità. Ecco perché abbiamo bisogno di "transvalutare" la tradizione. Vale a dire ripensarla e attraversala, cercando di trarne tutto ciò che può essere positivo per noi contemporanei. Ciò vale per tutta la tradizione, le tre religioni monoteistiche, ma anche la cultura classica, il taoismo o il confucianesimo».
A chi spetta questo compito? «Agli intellettuali, ma anche agli artisti, visto che considero la letteratura e le arti delle vere e proprie forme di pensiero. Senza il confronto con la tradizione rischiamo di perderci in un nichilismo depressivo. Sul piano della religione, tale confronto ci consente di capire che la fede non è solamente un vicolo cieco, come diceva Diderot. Condannando la fede, la filosofia dell'illuminismo ha privato il bisogno di conoscenza di un fondamento importante. Per me il bisogno di credere è il fondamento del sapere. È una necessità antropologica che la storia delle religioni ha capitalizzato attraverso le varianti cristiana, islamica, ebraica, taoista. Noi atei dobbiamo riscoprire le radici di tale bisogno, favorendo in questo modo il dialogo tra credenti e non credenti, un dialogo alla pari dove ciascuno possa spiegare e difendere le proprie posizioni».
Il bisogno di credere come si manifesta in Teresa d'Avila? «Teresa vive una fede sovrannaturale, che esalta il legame amoroso nascosto nella fede. Lo esalta in maniera ideale, ma anche concretamente con tutte le fibre del suo corpo di donna, come testimonia la statua del Bernini nella chiesa romana di Santa Maria della Vittoria. Teresa si esilia nell'alterità divina, rivelando una profondità estrema della vita psichica, che Lacan è stato il primo a mettere in evidenza, parlando del piacere femminile. Nelle sue estasi non c'è solo la felicità dell'incontro con Dio, ma tutta la violenza del piacere, l'annullamento di se stessi e del proprio corpo. Mettendo per iscritto i suoi stati di estasi, Teresa riesce però ad allontanare la loro dimensione mortuaria. Più li descrive, più diventa lucida, agendo nel mondo in maniera concreta». Nell'abbandono dell'estasi, Dio - per Teresa - cessa d'essere un' entità esterna, diventando una realtà interiore e immanente. È così? «Nel suo viaggio verso l'altro, Teresa indica un dato importante per la cultura europea. Perché l'io esista, il cogito di Descartes non è sufficiente. L'io ha bisogno dell' altro da sé, con il quale instaura un legame indispensabile. L'io e l'altro si identificano, si confondono e si portano a vicenda. Teresa crea tale legame con la divinità. Per lei la trascendenza diventa immanenza. In questo modo si colloca sulla via dell'umanesimo cristiano che darà luogo l'umanesimo moderno. Proprio perché Dio e l'infinito sono in lei, Teresa diventa una persona e un linguaggio infinito. Anche per questo affascinò tanto Leibniz».
È per questo che lei la considera una nostra contemporanea? «Certo. Teresa è una donna eccezionale, un genio femminile che ha innovato la fede cattolica, anticipando la rivoluzione barocca. La sua esperienza parla alle donne moderne e in particolare a quelle che si consacrano alla creazione artistica, lavorando con le immagini e il linguaggio».
Lei è stata una delle voci del femminismo francese. Teresa d'Avila può interessare le femministe? «Oggi il ritorno della tradizione e la centralità della maternità rimettono in discussione le conquiste del femminismo. Ciò è vero soprattutto quando la maternità è prigioniera delle preoccupazioni materiali e sanitarie. Teresa ci insegna che occorre riuscire a pensare dal punto di vista dell'altro. Non dobbiamo proiettare sui figli i nostri desideri, le nostre angosce, i nostri bisogni, ma considerarli come un altro da sé, cercando di sviluppare la loro alterità. In questa prospettiva, le donne saranno all'avanguardia della civiltà. Come ha fatto Teresa, ogni donna deve cercare di essere singolare. Occorre rifondare l'umanesimo in una direzione che stimoli le singolarità. E' questo l'insegnamento di Teresa»." (da Fabio Gambaro, Julia Kristeva: 'Solo un nuovo umanesimo può fermare il nichilismo', "La Repubblica", 21/06/'10)
La fine dei maestri
"In fondo la faccenda ha sempre accomunato qualsiasi epoca e cultura, da socrate a Gesù: che uccidere i Maestri sia un vizio cui il potere non sa resistere è una storia antica almeno quanto la cicuta e la croce. Così come, al contrario, proprio per sintetizzare al meglio la follia insita nella soppressione di un maestro basterebbe tuttora il vecchio buon senso popolare di Collodi: perché tutte le grane del famoso burattino, bisognerebbe pensarci più spesso, cominciano appunto con quella sua sciagurata martellata - «Chètati, grillaccio del malaugurio!» - scagliata in testa al povero antennuto rompiballe. «Sarei tentato di dire - sosteneva provocatoriamente il poeta Edoardo Sanguineti, prima di morire il mese scorso - che non esistono cattivi maestri, ma solo cattivi scolari».
E siamo alla questione: dove sono, oggi, i «maestri»? Maestri nel senso più ampio, s'intende qui. Anche semplici maestri di scuola, naturalmente. Ma più in generale maestri della formazione, della cultura, della società, dell'arte: chi sono, oggi? Esistono «nuovi» maestri a raccogliere il testimone dei vecchi? E soprattutto, che poi è la domanda cruciale: il mondo, laddove ci siano, è ancora disposto a riconoscerli, ascoltarli, seguirli? Uno che di nome fa Ermanno Olmi, e che come tutti i maestri veri preferisce tuttora parlare, a 79 anni, più di ciò che vorrebbe ancora imparare che non di quanto avrebbe da insegnare, ha una risposta non meno pacata che un po' disillusa: «Nessuno dei grandi maestri della storia, da Cristo a San Francesco e da Michelangelo a Tolstoj, ha mai insegnato nulla attraverso grandi teorie. Lo hanno fatto tutti attraverso la propria testimonianza: un maestro è soprattutto questo. Oggi io vedo attorno a me tante "celebrazioni" di cultura. Ma il senso della "trasmissione di generazione in generazione" del sapere, dell' esperienza, del senso della vita, appunto, mi sembra che purtroppo vada scomparendo».
C'è un dato, a proposito di scomparse, che forse è significativo: la formula «allievo di». Ricordate? Fino a un po' di anni fa era una delle peculiarità che si sottolineavano dovendo tracciare il profilo di un accademico, di uno scienziato, di una personalità culturale: «Quello? Certo, un allievo di ...». E il nome del suo maestro era non solo parte integrante del curriculum formativo di un luminare, ma anche motivo di orgoglio che quest'ultimo si portava dentro per tutta la carriera. Formula scomparsa. Se non per i vecchi. Non a caso infatti continua a portarsela addosso con gratitudine un altro che poi, da una vita, maestro lo è diventato a sua volta: e cioè Mario Lodi, 88 anni, per l'appunto «allievo di» quel Célestin Freinet che fu il padre della pedagogia del secolo scorso.
Il «maestro Lodi»: probabilmente il più famoso insegnante elementare d'Italia, un vulcano di iniziative come la «Casa delle Arti e del Gioco» nella sua Piadena, decine di libri che vanno da quelli per l'infanzia con l'invenzione dello storico Cipì a quelli di analisi socioeducativa come La tv a capotavola. E adesso dice che «è naturale, se si vuol parlare di maestri non si può che partire dall'infanzia: la crisi del maestro o della maestra intesi come "figure di riferimento" è il problema principale dei bambini di oggi». Perché? «Perché la figura della maestra ce la si porta dentro per tutta la vita, nel bene e nel male. Quel che non si dice è che anche la maestra, ovviamente, deve prima essere a sua volta formata: e chi deve farlo se non l'università, che dovrebbe preparare i signori della cultura di un Paese?». Perché, non lo fa?
Se c'è ancora un maestro a cui chiederlo, nel panorama accademico italiano, è l'italianista e filologo Ezio Raimondi: lo stesso che nel marzo scorso, in occasione della celebrazione dei suoi 86 anni tributatagli dall'Università di Bologna, riassumeva la propria lunghissima carriera d'insegnamento dicendo di essersi «sempre nutrito dell' attenzione dei giovani: per me la lezione è sempre stata un "laboratorio" in cui sedimentavano intuizioni che poi diventavano libri». E ora aggiunge: «Intendo dire che per me la "lezione" è sempre stata il luogo di un incontro tra umanità, uno scambio di esperienze e cultura. Un dialogo tra generazioni. Naturalmente poi esistono astuzie e tecniche retoriche per provocarlo, il dialogo. Che è fatto di ascolto ma anche di gusto delle interruzioni. E questo per me ha sempre significato che la trasmissione del sapere non poteva prescindere dalla contestuale sollecitazione e coltivazione di un sentimento critico. La lezione aveva una dimensione di teatralità che oggi, in realtà, ha trovato altre forme di espressione: i modelli sono cambiati radicalmente, e le retoriche pubbliche hanno assunto altre modalità. La crisi della lezione è una crisi del dialogo».
E dire che le voci sembrano moltiplicarsi, nella società di oggi, non ridursi: più università, più Internet, più scambi, più velocità, perché allora crisi del dialogo? «Perché una cultura mediatica come quella di oggi tende a imporre dei modelli che sono mobili solo in apparenza: ma in realtà non fa che riprodurre schemi fissi, sempre identici. Il mondo non può essere semplificato, va guardato nella sua complessità con artigianale pazienza. In questo senso la scuola creava modelli liberi che oggi, nonostante le apparenze, si sono molto ridotti. Oggi è tempo di stereotipi. I poteri in genere, a partire oggi dal potere del linguaggio mediatico, tendono a imporre valori che sempre meno coincidono col senso più profondo del linguaggio scolastico: la cui funzione principale, ripeto, è quella dell'educare allo spirito critico». Il maestro Lodi ne approfitta per intervenire di nuovo: «Ecco perché il maestro non piace mai al Potere. Perché il maestro, e quindi una scuola funzionante, significano anche educazione alla democrazia, la quale è in primo luogo educazione alla parola, e quindi all' ascolto, e quindi alle regole. E il maestro vero, quando è tale, al Potere dà fastidio proprio perché crea cittadini liberi e non sudditi. Peccato che la scuola, oggi, più che ai bambini pensi invece soprattutto a se stessa».
Poi ci sono gli altri, di maestri. Chi sono stati per esempio i maestri del maestro Olmi? «Naturalmente posso solo fare una sintesi - racconta il regista - perché ne ho avuti tanti. Bisogna distinguere gli àmbiti. Nel cinema il mio faro è stato Rossellini. Sin da quando ero ragazzo, molto prima di conoscerlo. Perché mi ha fatto capire cos'era la realtà della strada rispetto alla realtà di cartone del cinema hollywoodiano». Prosegue: «Però la maestra che mi ha introdotto alla scoperta del mondo è stata la mia nonna materna. Fu lei ad accompagnarmi un passo dopo l'altro dentro il mondo contadino, attraverso la sua esemplare vita non solo di madre ma anche di vedova, avendo perso il marito nella Grande Guerra. Tutto quel che sapeva lo aveva imparato dalla vita, di cui riuscì ad affrontare ogni sofferenza mantenendo però sempre un orientamento alla gioia. In casa cantava di continuo: e quando non cantava recitava rosari. Come del resto si faceva piuttosto normalmente nelle case dei contadini. E proprio questa, la civiltà contadina, è stata l'altra mia maestra». Il maestro Olmi fa una pausa per sottolinearlo: «In questo senso credo anzi che la civiltà contadina sia l'unica, in assoluto, a potersi definire civiltà. Perché è la sola a essersi espressa in modo compiuto. Tutte le altre, dalla civiltà elettronica a quella atomica, sono state e saranno sempre civiltà provvisorie, fondate sul cambiamento. Ed è il motivo per cui in nessuna di queste riusciamo a sentirci accasati». Infine Olmi cita gli ultimi due suoi maestri: «Mio padre, un uomo silenzioso, che perse il lavoro per il suo antifascismo e che mi ha trasmesso il valore della libertà. E poi Tiziano Terzani, che pure non ho mai incontrato e con cui ebbi occasione di scambiare solo qualche riga. In lui, semplicemente leggendo i suoi scritti, ho ritrovato fuse insieme la dignità di mio padre e la gioia di mia nonna». «Mi ha sempre colpito - riprende Raimondi - quella frase di Heidegger il quale parlando del pensare sosteneva che la funzione propria dell'insegnante è quella di insegnare a imparare: il che vuol dire credere a quel laboratorio straordinario dell'umano in cui qualcuno trasmette le sue esperienze ad altri affinché anche le loro diventino parte della propria».
E qual è stata l'esperienza che ha trasformato il giovane professor Raimondi nel maestro Raimondi? «Beh, intanto ho cominciato anche io dalle elementari. Dal '41 al '43, ancora da studente universitario, sono stato maestro elementare come supplente in diverse classi. Lì ho imparato il piacere di veder crescere le persone. Penso che il ruolo principale dell' insegnante, e in particolare del maestro, sia quello di educare una persona a diventare più libera. Ad avere una mente aperta. Se l' insegnante si mette a disposizione dello studente viene creduto. E aver praticato questa esperienza nella scuola elementare mi ha insegnato più di qualsiasi trattato di pedagogia. In primo luogo a cercare di fare della scuola un esempio di difficoltà superata, un modello di educazione allo sforzo». «Il salto vero però è stato nel '55, quando sono diventato prima direttore del collegio universitario Irnerio e poi sovrintendente dei quattro collegi universitari di Bologna. Il fatto che si vivesse insieme a tavola discutendo di politica e cultura faceva sì che la scuola universitaria si completasse in forme quotidianamente nuove: l'arrivo del '68, in questo senso, non mi colse di sorpresa». Poi naturalmente c' è il fatto oggettivo della frammentazione dei saperi, la necessità di una formazione sempre più analitica, se poi vuoi lavorare: quella infinita corsa per cui, appunto, se prima essere stato «allievo di» era già una garanzia, adesso il percorso di uno studente di alto livello passa attraverso un master negli Usa, poi uno stage a Londra, poi tre mesi di contratto a progetto a Milano, poi un precariato da ricercatore ... e in questa gimkana può succedere di perderlo, il riferimento del maestro. «Infatti è proprio questa - riflette Olmi - la differenza più profonda rispetto al famoso "prima". Perché prima uscire dall'adolescenza, dall'università, insomma crescere, significava affacciarsi alla soglia della vita: e vivere. Adesso invece crescere significa dover "entrare nel sistema": senonché il sistema ti chiede proprio di rinunciare alla vita. Per questo tanti ottimi ragazzi che magari riescono anche a entrarci, nel sistema, anziché esserne felici si sentono intimamente già soli e sconfitti. Ancora prima di cominciare a vivere».
Il regista si ferma: «Intendiamoci, io credo che i bravi maestri esistano ancora, altroché. Il problema è che le loro voci, nel chiasso generale, sono purtroppo molto deboli. Mi rattrista constatare che anche molte persone tra le più illuminate si preoccupano oggi di emergere più attraverso il chiasso che non il buonsenso. Mi dispiace che le loro voci, troppo spesso, finiscano semplicemente mischiate al rumore di clacson e traffico che esce dalla tv». «Nostra maestra televisione», sorride Lodi. Ma l'ultima parola è di Raimondi. E vuole essere comunque una finestra aperta: «Sì. Perché ciò di cui sono sempre stato e resto tuttora convinto, con i miei 86 anni, è che non bisogna mai limitarsi a prendere atto dei fenomeni così come sono. Noi possiamo sempre orientarla, la realtà. E sono certo che un giorno la scuola tornerà a essere il luogo che era, e anzi migliore, in un modo che ancora forse non immaginiamo. Un luogo di incontro e dialogo tra generazioni. Di un sapere comune destinato non solo a essere trasmesso, ma a trasformarsi e a crescere ancora»." (da Paolo Foschini, La fine dei maestri. L'eclissi dei modelli (non solo nella scuola), "Corriere della Sera", 21/06/'10))
sabato 19 giugno 2010
Diario di lettura: Paolo Sorrentino
"Un uomo pauroso? Sembrerebbe. Almeno a giudicare da quello che Paolo Sorrentino considera il suo leitmotiv suggerito da Thomas Hobbes: «L'unica passione della mia vita è stata la paura». Però, a dir la verità, il timore non sembra proprio la linea guida di uno dei nostri registi più noti a livello internazionale, che ha avuto l'ardimento di portare sullo schermo con gran successo l'arduo profilo del Divo (premio della giuria a Cannes), ovvero di Giulio Andreotti, o di realizzare complicate storie di mafia come in Le conseguenze dell’amore. E non basta.
Il quarantenne cineasta napoletano, che incontriamo nel suo studio romano in stile arte povera Anni Settanta, con librerie spartane e cd da tutte le parti, ha ora aggiunto al suo nutrito curriculum anche un romanzo, Hanno tutti ragione (Feltrinelli), con cui è entrato nella cinquina dello Strega.
E dove il protagonista del libro, Tony Pagoda, cantante dalle mille vite che emigra in Brasile e poi ritorna in Italia, non è per nulla fifone bensì avventuroso e sfrontato. Con minuscolo orecchino, basettoni e sigaro in bocca per tener lontana la pericolosa tentazione delle bionde (intese come sigarette), Sorrentino combina l'ironia alla maniera del concittadino Eduardo (ha girato per la tivù Sabato domenica e lunedì di De Filippo) con il distacco sarcastico del filosofo più amato, Friedrich Nietzsche.
Allora, come la mettiamo con questa epigrafe di Hobbes? «Io sono veramente pauroso. Non posso dire “Tony c'est moi” come Flaubert. Mi piacerebbe, eccome! Vorrei veramente possedere quella dose di menefreghismo e di audacia che ha Pagoda. Sono timoroso, intanto, dal punto di vista fisico, ma non solo. Un esempio? Pur vivendo in una città di mare non ho mai saputo fare i tuffi, tanto meno quelli come Raffaele La Capria che si buttava direttamente da Palazzo Donn’Anna nel mare di Posillipo (e
che ha sempre teorizzato che l'arte del tuffo è come quella del racconto)».
La paura e i film ... «Anche la scelta dei miei primi film, da spettatore intendo,
è stata dettata dalla paura. Evitavo Dario Argento, che mi strizzava lo stomaco e mi rendeva insonne. Per Shining, film indubbiamente terrificante, ho fatto dei sacrifici perché era travolgente dal punto di vista tecnico. Però il senso del mistero, tutto quello che viene nascosto o celato, mi attrae pazzescamente. E' come andare in seggiovia, mi procura le vertigini però ... mi piace immensamente. Un personaggio che oggi continua a stimolarmi con la sua “intelligenza del male” è il mafioso Riina: suscita tanti interrogativi irrisolti. Mi affascina».
A scuola dai padri salesiani: la tenevano sotto torchio, le proibivano le letture?
«Macché. Anzi, per la maturità ho fatto una tesina su Marx e ho il sospetto che mi abbia fruttato quel 40, voto bassissimo. Ma i religiosi avevano una caratteristica: sollecitavano la curiosità per tutto ciò che era inaccessibile, inviolabile. C'erano luoghi assolutamente proibiti, come l'ultimo piano della scuola con gli alloggi privati dei sacerdoti, o certe ali dell’edificio dove andavamo a fare il ritiro spirituale e dove c'erano le sorelle che vivevano in clausura. Peraltro noi allievi coltivavamo fantasie, mai verificate, sui preti che frequentavano - e che secondo le nostre illazioni corteggiavano - le suore del Sacro Cuore che avevano il loro istituto lì vicino. Insomma era tutto uno spiare ed essere a nostra volta spiati. Come adolescente ero più attratto dal calcio e da queste esperienze di vita: a 17 anni, però, faccio il gran passo e scopro, in contemporanea, il cinema e la filosofia».
Pensatori preferiti? «Hobbes e Nietzsche che forse era alla base della diffidenza nei confronti della politica. Della resistenza a concedere totalmente la fiducia, a credere intensamente e passionalmente in qualcosa che accomuna tutta la mia generazione. E poi c'erano gli scrittori: Kafka, ineguagliabile maestro di atmosfere rarefatte, e successivamente il grande Perec e Pynchon, dalla vita così poco scandagliabile. Ottiero Ottieri, Arbasino autore delle Piccole vacanze, Céline di Viaggio al termine della notte, Sartre, Camus, gli esistenzialisti, Stanley Elkin, bravissimo ma sconosciuto al grande pubblico. Lui stesso lo sapeva e commentava: “credo di conoscere tutti i miei lettori personalmente”».
L'interesse per il cinema? «Matura negli anni dell’università. Il conformista di Bernardo Bertolucci, C'era una volta in America di Sergio Leone, Martin Scorsese ... I primi approcci con il grande schermo avvengono alle 5 della sera, in totale solitudine, non tolleravo nessuna compagnia, al cineforum del Vomero. Alimentavano i sensi di colpa per le lezioni trascurate. Oggi, invece, quando mi organizzo per andare a vedere un film mi capita quello che succedeva a Fellini: “ogni volta che sto per andare al cinema”, diceva, “per strada trovo sempre qualcosa di meglio da fare”. Ma per me, studente di economia e commercio e aspirante regista, allora era vero il contrario. All'epoca la mia facoltà era a via Caracciolo, affacciava direttamente sul mare. Credo che proprio questa inesistente linea di demarcazione tra la vacanza e lo studio mi facesse entrare in stato confusionale. L'incontro con Toni Servillo e anche con la new wave dei registi napoletani, quell’onda che cominciava a montare con Mario Martone e Antonio Capuano con cui collaboro alla scrittura della Polvere di Napoli, mi getta definitivamente nelle braccia del cinema».
Piste di cocaina, dipendenza, vite alternative appartengono tanto a Tony Pagoda quanto al protagonista del suo film in Un uomo in più, anch’esso cantante fallito. Le droghe come nume o demone ispiratore: è stato uno dei cultori della beat generation? «Non in particolar modo. Personalmente, poi, ogni volta che mi sono avvicinato a uno spinello o a qualche altra esperienza di questo tipo, a far da catalizzatore è stata, anche in questo caso, la paura. Non mi convincevano, credo di essere proprio refrattario. Meglio, poi, di Kerouac o Ginsberg o Burroughs, il Lamento di Portnoy del trasgressivo Philip Roth che ho divorato da ragazzino. Come capita a quell’età, le descrizioni che accendevano la fantasia erano quelle erotiche: divertenti, paradossali quelle del piacere solitario di Alex Portnoy che, da adolescente, in un mondo di fazzoletti sgualciti, di kleenex appallottolati e pigiama macchiati, si divertiva a violentare bottiglie di latte, una fetta di fegato appena comprata dal macellaio o una mela scavata e privata del torso».
E quando gira un film? «Divoro saggi sull’argomento di cui intendo occuparmi: può essere l'onorata società, la criminalità, gli anni di piombo, il traffico di droga o di armi. Poi quando comincio a girare abbandono tutto. E' talmente faticoso stare in scena che la sera crollo senza aver toccato pagina, cosa che raramente mi capita. Unica eccezione in tanti anni? Ancora e sempre Roth e il suo L’animale morente, me lo portavo dietro anche sul set».
Pure a Cannes? «Niente tomi, alla kermesse non è possibile far altro che avere incontri e lavorare. Io poi non leggo nemmeno in treno o in aereo, mi guardo intorno, sono attirato dalle persone».
E adesso che è in attesa di partire per l'America per incontrare Sean Penn e cominciare le riprese del nuovo film This Must Be the Place? «Ho visto uno strepitoso Daniele Luchetti, La nostra vita. E poi leggo i napoletani Giuseppe Montesano e Giuseppe Ferrandino, autore di Pericle il nero, piccolo malvivente che sodomizza i suoi debitori. Ma dal momento che nella pellicola che sto per iniziare a girare si intrecciano le storie di un ex divo del rock e di un ex criminale nazista, sono in un mare di libri con svastiche e aquile imperiali. In cui non ho timore di tuffarmi. Per una volta»." (da Mirella Serri, 'Non posso dire come Flaubert Tony c’est moi', "TuttoLibri", "La Stampa", 19/06/'10)
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