Biblioteca civica "MINO MILANI" bibliogarlasco@yahoo.it tel. 0382/801009 "Le paradis, à n'en pas douter, n'est qu'une immense bibliothèque" (Gaston Bachelard) SELEZIONE DI ARTICOLI SULL'UNIVERSO-LIBRO
sabato 29 agosto 2009
Il vizio di leggere di Vittorio Sermonti
"Chi cercasse la progenie della cultura in piazza, delle folle in ascolto di romanzieri e filosofi, si imbatterebbe in Dante. E in Vittorio Sermonti che a metà degli anni Novanta si avventurò nella lettura integrale, sera dopo sera, per cento sere, di tutta la Commedia. Accadeva a Ravenna, nella chiesa di san Francesco, alle spalle della tomba in cui riposa il poeta. Poi vennero Roma, i Mercati Traianei e il Pantheon, e quindi Firenze, Milano, con concorso di popolo sempre crescente. E infine l'Eneide a Milano. Sermonti, che è stato giornalista, insegnante di liceo, consulente editoriale, regista radiofonico, compirà ottant'anni a fine settembre e sarà a Mantova, al Festivaletteratura. Per festeggiarlo (ma forse l'ha fatto anche lui per festeggiarsi), Rizzoli pubblica Il vizio di leggere, una nutrita antologia, una personalissima galleria di centosessanta brani letterari e non letterari scelti, spiega Sermonti, 'con sconcertante arbitrarietà'. L'antologia nasce come seguito di una trasmissione radiofonica: si va da Tolstoj alle iscrizioni funerarie romane, da Auden, Brodskij e Faulkner fino alle Controindicazioni, Precauzioni, Interazioni dei foglietti illustrativi di un farmaco, da Melville, Pound e Yehoshua alle Lunghezze minime permesse dei pesci in un mercato veneziano o all'Almanacco illustrato del calcio che segnala quando il Milan precipitò in serie B. Sono brani che condensano, appunto, una pratica lunga più di settant'anni, che ha messo nel conto 'anche il rischio di imbattersi in parecchie schifezze', ma che è stata condotta 'con la perseveranza, con l'abnegazione, con l'inconfessabile voluttà' con cui si coltivano i peggiori vizi. 'Sa una cosa che non mi piace di molte iniziative di cultura in piazza?'. Me la dica. 'La troppa esibizione civica che accompagna l'invito alla lettura. Tipo: leggete perché diventerete più buoni'. In un Paese dove si legge così poco serve anche questo, o no? 'Può darsi. Ma io credo che occorra indurre alla lettura come a un vizio che rende più complicata, ma anche più bella, la vita. Un giorno leggevo Dante a Firenze. Venne da me l'assessore alla cultura, mi chiese di andare in una scuola elementare a spiegare l'Inferno. Vi piacerà moltissimo, dissi a quei bambini, perché racconta cose cattivissime, come in fondo cattivissimi siete voi. Se dovessi rivolgermi a dei ragazzi che le fanno di tutti i colori, direi appunto così: vi propongo la lettura, un vizio più complesso di quelli che praticate'. Leggere tutto, da Lucrezio e Rilke ai graffiti sul muro che trova sotto casa a Roma? 'Questi ultimi non li posso evitare. Trasecolo nel leggerli e continuo a trasecolare quando li trascrivo. Però mi stupisce sempre la tensione stilistica della scemenza. Sono molto attratto dalle stupidaggini, che poi non sono la cosa peggiore del mondo. E neanche sono l'opposto dell'intelligenza, che invece seguono da presso, come un'ombra'. Lei citava Dante e le letture in piazza. Da allora è un fiume in piena, non di Dante, ma di letture in piazza. Che ne pensa? 'Un po' storco il naso. Ci vedo dell'eccesso. Mi pare che l'aspetto della performance abbia assunto un ruolo preponderante. E poi se un romanziere inglese molto bravo viene a leggere il brano di un suo romanzo molto bello, va benissimo. Va benissimo anche se vengono cinque scrittori inglesi. Ma se sono cinquecento non va più bene, anche perché quattrocentocinquanta saranno mediocri'. [...]" (da Francesco Erbani, Leggete per essere cattivi. Sermonti e il vizio dei libri, "La Repubblica", 28/08/'09)
venerdì 28 agosto 2009
La Cina fotocopia il mondo
"Li Chun dirigeva la biblioteca del Beichuan, distrutta dal terremoto nel maggio del 2008. È arrivata a Milano al convegno dell’IFLA — l’Onu dei libri — con il suo abito tradizionale per ricevere un premio. La accompagnava Li Kaicheng, della biblioteca dello Mianzhu. Entrambi parlano solo cinese e queste testimonianze si devono alla cortesia del professor Zhang Xiaolin, che ha tradotto dapprima in inglese le loro parole. «La mia biblioteca — ricorda Li Chun — è ancora sotto il fango, come migliaia di persone. Appartengo alla minoranza Qiang, uno dei 56 gruppi etnici riconosciuti dalla Repubblica Popolare Cinese. Eravamo 200 mila e 20 mila sono morti».
La sua voce si scioglie con un filo di emozione e ricorda: «I Qiang sono una stirpe antichissima, con una storia che risale alla seconda dinastia — le prime testimonianze sono del 1760 a.C. — e da loro discendono, tra gli altri, anche i tibetani. Nel terremoto ho perso mio padre e mio fratello maggiore e sono viva perché mi trovavo nell’attigua copisteria, dove ho potuto rifugiarmi sotto un tavolo. Sono rimasta sepolta dalle macerie per 75 ore; una mia collega è stata travolta, un’altra morì dopo l’arrivo dei soccorsi». Ha il braccio sinistro offeso ma lo sguardo sereno. Continua: «Nella mia vita mi sono prima occupata dei bambini all’asilo, poi ho insegnato alle elementari, quindi ho deciso di dedicarmi alla biblioteca. Al momento del terremoto avevamo 50 mila volumi, buona parte dei quali erano manoscritti con trascrizioni di racconti orali, contenenti le storie della mia gente. Gli stampati non costituiscono un problema, perché di essi c’è una copia a Pechino, ma il resto è irrimediabilmente perduto».
Ora, grazie al Prince Claus Fund, una sorta di Emergency della cultura (fondato il 6 settembre 1996 per celebrare il settantesimo compleanno del principe Claus di Olanda), almeno una parte dei libri del Beichuan sarà ricomperata. Anche se, precisa Li Chun, «i resti con il fango rimarranno così come sono e sia la città che la biblioteca verranno ricostruite altrove». Questa donna testimonia con il suo abito una fierezza antica, una cultura che si perde nel tempo. Prima di salutarci aggiunge le seguenti parole: «Il terremoto ha lasciato tanto dolore, ma noi ricostruiremo, raccoglieremo ancora libri e storie, daremo vita ad altri manoscritti. Li porteremo, come abbiamo fatto in precedenza, alla gente. Usciranno, come i precedenti, dalla biblioteca per raggiungere case isolate e zone impervie. Il libro deve inseguire le persone, non viceversa». Che dire? Il viso dolcissimo di Li Chun è l’immagine della Cina, di quanto sta avvenendo nel Paese al quale ormai occorre guardare con attenzione anche per le biblioteche. Sempre a Milano, per il convegno Ifla, è arrivato Ben Gu, uno dei vicedirettori della Nazionale di Pechino. In una chiavetta aveva i dati relativi al 2006. Parlano da soli, è inutile aggiungere aggettivi: in Cina vi sono 2.777 biblioteche pubbliche che hanno superato i 400 milioni di volumi, 3.901 sono le universitarie; istituti di ricerca, aziende e dipartimenti governativi raggiungono le 10 mila, l’esercito ne ha 94 che corrispondono ad altrettante scuole militari. Le sindacali sono 26 mila, le ospedaliere 19 mila, quelle scolastiche 130 mila e ad esse vanno aggiunte le raccolte del partito, delle quali non ci sono dati. Nel 1949 le biblioteche cinesi erano 55. Tutto questo è avvenuto improvvisamente, giacché la Nazionale di Pechino ha un secolo ma le altre sono state fondate in buona parte nell’ultimo ventennio. E il fenomeno — come sottolinea Mauro Guerrini, presidente italiano Ifla e sodale di Ben Gu — «è in forte espansione».
Sono stati aperti corsi per bibliotecari e si è creata una bibliografia nazionale a cominciare dal 1987, la stessa che dal 1994 è online. Due dati che raffrontati ai nostri fanno impressione: in Italia essa nacque nel 1888, e venne rifondata nel 1958, negli Usa nel 1830. «La Cina — dichiara Guerrini — sta costituendo importanti biblioteche cartacee utilizzando e riproducendo per scopo interno le principali pubblicazioni di carattere letterario, economico e scientifico del mondo». Parole prudenti che si possono tradurre così: tutte le opere più importanti sono raccolte e poi digitalizzate in Cina, dove tra non molto ci sarà la più incredibile raccolta di dati culturali che mai sia stata tentata sul nostro pianeta. Qualche esempio? Dalle grandi storie dell’Occidente ai classici, dalle raccolte di leggi ai saggi strategici contemporanei — comperati, tradotti e messi online — via via fino alla letteratura e ai testi religiosi. Immaginatevi in qualche chiavetta la Storia dei Papi di von Pastor o l’Enciclopedia di Diderot e d’Alembert, i Rerum Italicarum Scriptores di Muratori o i testi greci e latini della Teubner. Non spetta a noi trarre conclusioni. Ma forse è il caso di aggiungere in margine che la Cina non rispetta pienamente le nostre norme sul diritto d’autore e il dibattito in questi giorni creato da Google, che non lo gradisce, può trasformarsi in una bomba che non sappiamo quando esploderà. Insomma, la retribuzione del lavoro intellettuale conoscerà giorni sempre più difficili, anzi si avvia verso la zona delle cifre irrisorie. È forse agli sgoccioli l’epoca degli scrittori miliardari; e, se questi lo diventeranno, non sarà per i diritti d’autore. Le ricadute? Difficile prevedere cosa comporta l’abbassamento, o il crollo, dei pagamenti del lavoro intellettuale, ma non occorrono sforzi per pensare alle riduzioni che colpiranno i compensi degli insegnanti e di coloro che fanno ricerca lontano da scopi industriali. Gli intellettuali ben remunerati, liberi e critici del potere, possono insomma considerarsi una parentesi. Del passato." (da Armando Torno, La Cina fotocopia il mondo, "Corriere della Sera", 28/08/'09)
Il male minore di Eyal Weizman
"Eyal Weizman è un architetto israeliano. Insegna alla University of London e ha scritto un saggio, Architettura dell’occupazione (Bruno Mondadori), che ha fatto molto discutere, dedicato alla costruzione del Muro che separa Israele dai Territori palestinesi. In un piccolo librino, edito invece da poco da Nottetempo e intitolato Il male minore, Weizman ha invece posto un problema di grande attualità di questi tempi, la cui formulazione è: se vi trovate di fronte a due mali, è vostro dovere optare per il minore.
La questione del «male minore» l’ha sollevata in modo critico per la prima volta un’ebrea migrata in America per sfuggire al nazismo, Hannah Arendt, in una conferenza del 1964, dedicata a «La responsabilità personale sotto la dittatura». Pochi anni prima la filosofa tedesca s’era interrogata, nel corso del processo contro Eichmann, grande organizzatore della deportazione, sulle ragioni della cooperazione offerta ai nazisti dai Consigli ebraici nelle nazioni occupate, atto rimosso da molti, e subito contestato alla Arendt: ebrei eminenti avevano collaborato con i massacratori con l’intento di salvare se stessi e altri ebrei, e per questo avevano lasciato che moltissimi di loro venissero deportati e gasati.
Il male minore, appunto, argomento che circola anche nelle affermazioni del criminale nazista nel corso del processo: siamo scesi a patti col diavolo senza vendergli l’anima. Oppure: noi che figuriamo colpevoli oggi, siamo però stati i soli a restare al nostro posto per evitare che le cose andassero anche peggio, mentre coloro che non hanno fatto nulla si sono sottratti alle loro responsabilità, pensando solo a se stessi, alla salvezza delle loro anime.
Come ci ricorda Hannah Arendt, chi sceglie il male minore dimentica troppo in fretta che sta scegliendo il male. Weizman sottolinea come nella nostra post-utopica cultura politica contemporanea il termine «male minore» è diventato oggi un fatto quasi naturale, e viene invocato in contesti incredibilmente diversi tra loro: dalla morale individuale al diritto internazionale, dalle economie della violenza nel contesto della «guerra al terrore» agli attivisti umanitari dei cosiddetti «diritti umani», portati a destreggiarsi in mezzo ai paradossi dell’assistenza - parola che sembra aver preso il posto precedentemente riservato al termine bene.
Sono spesso proprio i totalitarismi a usare l’argomento del male minore, dice l’architetto israeliano, che cita un altro scritto della Arendt, Le uova alzano la voce, dove viene ricordato il detto di Stalin, il solo contributo originale del capo sovietico alla dottrina marxista: «Non puoi rompere le uova senza fare una frittata». Ovvero, che non si può edificare il regime della vera giustizia tra gli uomini senza grandi sacrifici di vite umane. Una convinzione che ha portato anche da noi, in Italia, negli anni Settanta, diversi miei coetanei ad accettare il principio dell’omicidio politico come strumento rivoluzionario - e a sostenerlo anche oggi come un portato inevitabile dell’epoca.
Mary McCarthy, la scrittrice amica della Arendt, ha smascherato la fallacia del male minore: «Se qualcuno ti punta addosso una pistola e ti dice “Uccidi il tuo amico o io uccido te”, ti sta semplicemente tentando». Quando nient’altro è possibile, scrive Weizman, «fare niente è l’ultima forma effettiva di resistenza, e le conseguenze pratiche del rifiuto, e perciò del caos, sono quasi sempre migliori, se abbastanza persone rifiutano».
Quando la filosofa tedesca aveva articolato questo tema, non era ancora operante la razionalità dei computer, la logica del calcolo, che ha portato alle estreme conseguenze la questione nel capitalismo finanziario: introdurre il modello economico nei giudizi etici. Il calcolo e la misurazione dei beni e dei mali considerati come algoritmi - trend statistici delle scienze sociali, o aspetti di un problema computazionale - riducono di fatto la responsabilità personale e di giudizio.
Weizman ci ricorda che quando le questioni vengono pensate in termini economici ed espresse in numeri, «esse possono essere cambiate e sviate infinitamente». L’architetto ripercorre nel suo saggio la storia del «male minore» nel pensiero occidentale, attraverso Agostino che rompe con l’assolutismo del manicheismo (meglio le prostitute dell’adulterio, meglio uccidere un aggressore prima che questi uccida un passante innocente). Il male minore come prevenzione è un concetto che ha fatto molta strada presso di noi passando anche per il marxismo e i suoi interrogativi: il cambiamento deve comportare la riduzione o l’intensificazione della sofferenza?
La politique du pire ha lastricato i sentieri di Utopia negli ultimi settant’anni, sino ad arrivare agli ex maoisti francesi passati alla causa dei Diritti Umani degli anni Novanta, o alla «guerra al terrore» di Guantanamo, tutti esempi in cui il calcolo costi e benefici si modella non in relazione al male che si produce ma a quello che si previene. Qual è dunque l’antidoto a questa politica della menzogna? La responsabilità, scrive la Arendt, che è sempre un fatto individuale e non collettivo. Qualcosa di assolutamente soggettivo che invece i regimi totalitari, e quelli che aspirano a diventarlo, cercano di negare annacquando tutto nel «collettivo» dei sondaggi e delle opinioni mutevoli. L’autenticità dell’atteggiamento soggettivo, dice la filosofa, «si può misurare solo dalla caparbietà nell’affrontare eventuali sofferenze». Non ci sono dunque regole generali, ma a tutti verrà prima o poi chiesto, come a Eichmann: perché hai obbedito? Perché hai dato il tuo sostegno? Lì è il momento di verità di ciascuno, per quanto sarebbe sempre meglio non arrivarci. Per questo bisogna pur fare qualcosa affinché la logica del «male minore» non trionfi oggi, qui tra noi." (da Marco Belpoliti, E liberaci dal male minore, "La Stampa", 28/08/'09)
Il caso Némirovsky, adesso tutti la vogliono
"Dopo una 'distrazione' di mezzo secolo, oggi Irène Némirovsky è giustamente molto contesa dagli editori. La Giuntina ripubblica così Un bambino prodigio, rivendicando la propria perspicacia: una prima volta lo aveva proposto nel 1995, ben prima della clamorosa riscoperta dell’autrice avvenuta nel 2005 con la pubblicazione della Suite francese, straordinario romanzo inedito che all’uscita in Francia è diventato immediatamente un caso editoriale, accaparrato per l’Italia da Adelphi. Nata a Kiev nel 1903, figlia di un ricco banchiere ebreo, ed emigrata con la famiglia al momento della Rivoluzione d’Ottobre, l’allora Irma Irina era diventata francese e scrittrice contemporaneamente, esordendo a Parigi nel 1929 con un romanzo, David Golder, che l’aveva resa famosa in un batter d’occhio. La Francia avrebbe mal ricambiato l’amore di Irène, che - forgiando una scrittura straordinaria spesso paragonata a quelle di Cechov e di Zola - alla patria adottiva dedicò pagine indimenticabili: il 13 luglio 1942 infatti la Némirovsky, madre di due bambine (Denise di 13 e Elisabeth di 5 anni), già molto nota nonostante l’ancora giovane età, venne arrestata dalla polizia di Vichy e poi spedita a Auschwitz dove sarebbe morta di tifo due mesi dopo. Il marito, Michel Epstein, la seguì di lì a poco e le due sorelline rimasero orfane. Della madre, oltre al ricordo, avevano ormai solo una valigia nera che custodirono gelosamente negli anni, riuscendo ad aprirla solo una volta diventate adulte. La valigia conteneva tante pagine redatte con grafia minuta e fitta, da decifrare. E conteneva il manoscritto della Suite francese, che avrebbe dovuto comportare cinque parti, due sole delle quali erano state compiute al momento dell’arresto.
Dopo l’exploit dell’inedito, Adelphi sta proponendo al pubblico italiano tutta l’opera di Irène Némirovsky. A giorni pubblicherà anche l’importante biografia di Olivier Philipponnat e Patrick Lienhardt che presenta documenti solo ora estratti dalla famosa valigia. Indiscutibilmente, è l’editore italiano della Némirovsky. Ciò nonostante, la grandezza e il successo dei suoi libri sono tali che chi può si butta. Per i tipi di Via del Vento è da poco uscito il raccontino (inedito per l’Italia) Giorno d’estate, e la Giuntina torna alla carica con il suo Bambino prodigio, lucida storia di una metaforica parabola: quella di un precoce talento - fiore del ghetto - poi rovinato dalla stupidità borghese. Nel 1989 un altro editore, Feltrinelli, aveva anticipato tutti pubblicando Le mosche d’autunno (recentemente riproposto da Adelphi), splendido e dolente racconto. Ma forse i tempi, chissà, non erano maturi." (da Gabriella Bosco, Il caso Némirovsky, adesso tutti la vogliono, "La Stampa", 28/08/'09)
mercoledì 26 agosto 2009
Cose di Cosa Nostra
"Quando Giovanni Falcone saltò in aria con la moglie Francesca e con gli uomini della scorta, il 23 maggio 1992 alle 17.58, aveva già scritto il suo testamento. Tutto ciò che era e sarebbe in seguito servito nella lotta contro la mafia, condensato in un libro a quattro mani con la giornalista francese Marcelle Padovani, Cose di Cosa nostra, offerto al grande pubblico e non solo alla ristretta cerchia degli addetti ai lavori. Un testamento morale ma non moralistico. Non c’erano condanne e scomuniche, né pianti e invettive. Falcone non era tipo da impersonare il tribuno che punta il dito. Il miglior magistrato che l’Italia abbia mai avuto aveva inteso custodire e tramandare una chiave per capire la mafia. Perché era convinto che, per batterla, Cosa nostra andava prima compresa.
In quel 1992 si riusciva a intravedere tutto il peso dei poteri criminali, liberati dal controllo dei veti incrociati, dopo la caduta dei blocchi, e perciò invasivi e forti. Un anno che, non a caso, è andato ad arenarsi - qui in Italia - al Nord sulle indagini di Mani Pulite (la corruzione politica) e al Sud proprio sulle inchieste cominciate da Falcone e Borsellino, che per comodità chiamiamo stragismo mafioso, ma altro non sono che una Tangentopoli del Sud resa ancora più ripugnante dal sangue di vittime innocenti.
Era questo il clima che spinse Giovanni Falcone a scrivere il libro. Le polemiche scatenate da garantisti ipocriti e interessati, ma anche da colleghi magistrati invidiosi del successo del «giudice sceriffo», lo avevano costretto al «grande passo»: lasciare Palermo e accettare la proposta di Claudio Martelli, il ministro della Giustizia che lo volle con sé alla Direzione degli Affari Penali. Per Falcone fu una sorta di asilo politico, offerto da un partito che non era esattamente il suo, dato che il giudice l’ultima preferenza elettorale l’aveva accordata al Pci. E sarà, questa, la chiave per capire, forse, il senso delle difficoltà e delle incomprensioni frequenti con la sinistra di allora e persino con la star dell’epoca, il pm Antonio Di Pietro. Il libro non fu accolto entusiasticamente. Autorevoli commentatori lo stroncarono su giornali «amici» (Sandro Viola sulla Repubblica), mentre non molto tempo prima era stata L’Unità (per la penna del professor Pizzorusso) a spiegare ai lettori i motivi per cui Giovanni Falcone non era adatto al ruolo di Procuratore nazionale, in quanto «troppo vicino» al governo e, in particolare, ai socialisti.
Ma torniamo a Cose di Cosa nostra. Falcone si rendeva conto dell’importanza di mettere la lotta alla mafia al centro dell’attenzione generale. La sua posizione in via Arenula non gli garantiva grandi margini di manovra. Poteva contare sulla fiducia di Martelli, sull’amicizia senza limiti di Liliana Ferraro (poi divenuta sua vice) e sulla collaborazione generosa di Gianni De Gennaro. Non aveva, questo gruppo, altri grandi sponsor. Anzi. Sarà Falcone a dare di sé una definizione che la dice lunga. «Sono - scriverà nel suo libro - semplicemente un servitore dello Stato in terra infidelium».
Cose di Cosa nostra nacque nel 1991, mese di marzo. Falcone e Padovani ne parlano durante una cena alla «Tana de noantri», a Trastevere. Ricorda la giornalista: «Gli stavo dietro da mesi, ma lui sembrava non aver voglia di impegnarsi». Finché un giorno il magistrato le telefonò da Catania, dove era andato a testimoniare al processo per l’assassinio del procuratore Costa. E qui c’è un retroscena. Proprio quel giorno il magistrato comunicò che lasciava Palermo e a tre giornalisti affidò tutta la propria amarezza e la consapevolezza che sarebbe stato attaccato anche per quell’ultima scelta. Cosa che puntualmente avvenne quando fu additato come «venduto ai socialisti». Allora decise e chiamò Marcelle Padovani. «Ci siamo visti 22 volte, sempre a pranzo. Abbiamo fatto il giro delle trattorie romane, dopo un primo tentativo di vederci alla Stampa Estera in una stanzetta, per motivi di sicurezza, senza finestre».
Poi venne il momento di rivedere tutto il testo, che - essendo destinato a un editore d’Oltralpe, Edition Austral, del giovane (allora) Sacha Kutchoumov - era scritto in francese. «Ci demmo appuntamento a San Candido. Lui arrivò con Francesca e c’erano anche il cognato con la moglie. Giorno dopo giorno, continuò a “limare” il testo, sempre con l’intento di apparire il meno aggressivo possibile». Falcone andò in Alto Adige in auto. Ricorda Liliana Ferraro: «Con la sua non sarebbe mai arrivato lassù e allora chiese in prestito la mia. Feci di più, gli consegnai quella di mio cognato che era nuovissima. Dopo un paio di giorni mi telefonò per comunicarmi che “un gard-rail non si era voluto spostare” e così lo aveva preso in pieno».
Il libro uscì in Francia nel novembre del ‘91 col titolo: Cosa Nostra. Le juge et les hommes d’honneur. Il mese successivo Rizzoli lo pubblicò in Italia. Era un manuale contro la mafia, con tutti i temi ancora oggi dibattuti e irrisolti. Ecco come Falcone lo chiudeva: «Credo che Cosa nostra sia coinvolta in tutti gli avvenimenti importanti della vita siciliana, a cominciare dallo sbarco alleato in Sicilia. Non pretendo di avventurarmi in analisi politiche, ma non mi si vorrà far credere che alcuni gruppi politici non siano alleati a Cosa nostra - per evidente convergenza d’interessi - nel tentativo di condizionare la nostra democrazia, ancora immatura, eliminando personaggi scomodi per entrambi». Nel marzo del 1992 viene assassinato l’eurodeputato Salvo Lima, a maggio la strage di Capaci. Cose di Cosa nostra passa da settantamila copie vendute a più di un milione." (da Francesco La Licata, Falcone nella terra degli infedeli, "La Stampa", 26/08/'09)
domenica 23 agosto 2009
Nelle Library trovate il futuro
"Le biblioteche italiane si sono trasformate profondamente negli ultimi due decenni: gestite sempre più diffusamente con criteri manageriali, curano la qualità dei servizi di informazione e di documentazione offerti ai propri lettori. Nonostante ciò, rimangono prigioniere della disattenzione dei media i quali, quando ne parlano, non riescono a superare superficiali stereotipi: libri polverosi, burocrazia, orario limitato, personale incompetente. Persistono indubbiamente molte lacune e disomogeneità, e sono proprio i bibliotecari a denunciare per primi ritardi, a reclamare finanziamenti adeguati e a chiedere la definizione di una politica nazionale per le biblioteche. Gli esempi di biblioteche e di sistemi bibliotecari di eccellenza sono numerosi e riguardano piccole e grandi strutture statali, enti locali, università, ordini religiosi, fondazioni e privati, in prevalenza al nord e al centro, con significative realizzazioni al sud e nelle isole. Fra le tante, e senza nulle togliere alle altre che non vengono citate, si ricordano Salaborsa di Bologna, con una raccolta multimediale, divenuta luogo di aggregazione per giovani e lettori di ogni età; la Comunale di Trento e la Berio di Genova, organizzate a tre livelli: il primo, con i testi maggiormente richiesti, compresi i film; il secondo, con la saggistica su vari temi; il terzo, con i documenti che richiedono tutela. Le biblioteche statali hanno sviluppato importanti progetti di digitalizzazione: chiunque può consultare in linea i manoscritti di Galileo. La maggior parte di quelle universitarie offre ai propri utenti una biblioteca digitale con riviste accademiche online, banche dati bibliografiche e testuali ed e-books a supporto della didattica e della ricerca; molte sono aperte fino a sera, organizzano il reference, il servizio di informazione personalizzata (in sede e online) per ciascun lettore, e talune dispongono di un archivio aperto con i risultati degli studi dei propri ricercatori. I sistemi bibliotecari territoriali, lombardi, emiliano-romagnoli, toscani hanno eletto la cooperazione a criterio del loro operare. I progetti di nuove biblioteche, quali la Civica di Torino, la Statale di Genova, la Biblioteca europea di informazione e cultura di Milano, rispettano i più alti standard qualitativi internazionali. Delle sfide a cui è chiamata la biblioteca si discuterà a Milano, dal 23 al 27 agosto, durante il 75° Congresso dell'IFLA, l'organizzazione mondiale delle biblioteche, che ritorna in Italia dopo 45 anni, riconoscendo così il progresso compiuto negli ultimi 15 anni nel nostro Paese. Il titolo del Congresso - Libraries Create Futures: Building on cultural Heritage - richiama la responsabilità delle biblioteche nella costruzione del futuro, un futuro plurale perché plurale è il mondo. Esse svolgono ancora un ruolo nell'epoca in cui molta documentazione è a disposizione sul computer di casa? Internet ha comportato una 'democratizzazione dell'informazione' e, per le biblioteche, un ampliamento dell'offerta informativa. Queste sono state le prime a introdurre le nuove tecnologie, fin dagli anni Settanta: ciò ha aperto nuove possibilità per le comunità più piccole, che la tradizionale organizzazione del sapere lasciava ai margini, e per ogni lettore, che può consultare da casa il catalogo online di tutte le biblioteche del mondo e, nelle realtà più evolute, prenotarlo e farselo recapitare nella biblioteca più vicina a casa. Se gli e-texts saranno i libri del futuro e se la trasmissione della conoscenza troverà altre strade, le biblioteche rappresenteranno sempre un punto di riferimento essenziale di questa 'info-sfera', e i bibliotecari continueranno a svolgere un ruolo basilare di mediatori fra i saperi registrati nelle varie tipologie di risorse documentarie, offrendo a ciascuno, secondo i propri bisogni e capacità, un'informazione affidabile, pertinente, depurata dalla sovrabbondanza e dalla ridondanza tipiche della Rete." (da Mauro Guerrini, Nelle Library trovate il futuro, "Il Sole 24 Ore Domenica", 23/08/'09)
Libri proibiti
"Testi che nessuno avrebbe dovuto leggere, bollati come demoniaci, purgati perché intrisi di eros o di una visione politica sgradita alla Chiesa o al regime di turno. Con questi libri del 'diavolo' la prestigiosa libreria Quaritch di Londra e la Fondazione Feltrinelli apriranno domani una piccola biblioteca di censura: quaranta opere, dal 1500 ai giorni nostri, che saranno esposte fino al 6 settembre all'interno dell'annuale rassegna di antiquariato di Cortona, in Toscana. La mostra ripercorre espisodi di censura illustre, quella ecclesiastica o governativa della prima età moderna. Suggerisce il nesso tra produzione erotica e sedizione politica, traccia lo sforzo di emancipazione della scienza e del pensiero del dogma. Tra le proposte - tutte prime edizioni - ci sono Machiavelli, Voltaire, un 'empio' Corano inglese del Seicento, il Satyricon dell'eretico Barnaud, che elencò l'esatto numero di prostitute, eunuchi e figli illegittimi al seguito degli ecclesiastici francesi del Cinquecento e venne perseguito proprio per l'esattezza delle informazioni. 'Scorrendo l'elenco dei libri proibiti' spiega la curatrice della mostra Barbara Scalvini della Quaritch, 'si nota subito che una sorta di ironico contrappasso gli ha assicurato l'immortalità: l'essere messi all'Indice è stata una fantastica pubblicità'. Riletto oggi, infatti, l'Index librorum prohibitorum promulgato da Paolo IV nel 1559 sembra quasi una raccolta di bestseller. Ma, mentre nel 1966 la Chiesa cattolica ha ufficialmente abrogato l'Indice, la censura è ancora viva e vegeta, coem dimostra il più recente manoscritto, tradotto per la prima volta in italiano, esposto a Cortonantiquaria: il manifesto di Tian'anmen del 1989, un insieme di messaggi che invitavano i cinesi a unirsi alle dimostrazioni di piazza e che il governo di Pechino aveva destinato al rogo." (da Alberto Fiorillo, Consultando l'Indice si scopre che la miglior pubblicità è la censura, "Il Venerdì di Repubblica", 14/08/'09)
sabato 22 agosto 2009
Milano e le biblioteche. La sfida senza confini per salvare la memoria
"Da domani al 27 agosto il capoluogo lombardo ospiterà il 75° congresso IFLA, la principale associazione bibliotecaria al mondo, l'Onu dei libri. Circa quattromila delegati di 136 Paesi si ritroveranno per la prima volta a Milano. Interverranno, tra gli altri, rappresentanti di Cina, Nepal, Mongolia, Senegal. L'esordio della manifestazione, che ogni anno cambia sede, si ebbe nel giugno 1929 a roma, Firenze e Venezia (itinerante, come allora usava); ritornò nel Belpaese nel 1951 e nel 1964, a Roma. Perché Milano? E' la prima domanda che abbiamo rivolto a Mauro Guerrini, presidente dell'Associazione Italiana Biblioteche e del Comitato Nazionale per IFLA 2009, professore di biblioteconomia all'Università di Firenze. Le sue parole ricordano che in Italia qualcosa funziona: 'Milano e la Lombardia possiedono un sistema efficiente, costituito da biblioteche comunali, o pubbliche, radicate sul territorio. Tale regione, indipendentemente dai governi, dal 1972 ha investito molto. Presenta un tessuto di ottime raccolte universitarie, al quale si aggiungono eccellenze come l'Ambrosiana, che quest'anno festeggia il quarto centenario, o la Braidense, dove si avvertono i problemi tipici delle statali, ma con maggior forza si nota la sana tradizione austroungarica'. Prosegue Gerrini: 'Vi sono anche buone biblioteche private: dalla Fondazione Feltrinelli a quella di via Senato. C'è infine il progetto della BEIC, a cui sta lavorando Antonio Padoa Schioppa, che procede tra le difficoltà del momento'. In altri Paesi si è fatto di più, ma non abbiamo le risorse della Cina che ha investito nelle biblioteche quanto nella manifattura per i prodotti destinati all'Occidente. Non ne aveva sino al '900 - Pechino è del 1909 - e negli ultimi dieci anni ne sono nate di formidabili. Il convegno avrà come tema 'Le biblioteche creano il futuro basandosi sull'eredità culturale'. E' un bilancio, nel quale il presente significa digitalizzazione, internet, servizi personalizzati impensabili sino a poco tempo fa. Guerrini nota: 'Da un semplice computer si possono consultare i cataloghi di tutte le biblioteche del mondo; molti documenti sono disponibili in rete e la sfida riguarda la capacità di organizzare i servizi e di facilitare l'accesso. La biblioteca ha superato le proprie mura ed è diventata universale, concretizzando il sogno di Borges'. Ma non tutto è in discesa. La scelta della Nazionale di Parigi di affidare il proprio patrimonio a Google potrebbe costituire un colpo al diritto d'autore che in Europa vale settanta anni dalla morte del titolare. Guerrini sottolinea: 'La tutela è un punto fermo: la legge è chiara, tuttavia alcuni autori sono disponibili a deroghe - è il caso della Bibbia curata dalla CEI o di alcuni romanzi e saggi - e altri, tra quelli importanti, scelgono di pubblicare direttamente le loro opere online. L'open access, nata negli USA un decennio fa, chiede che i risultati delle ricerche realizzate con fondi statali siano di libera consultazioen in rete'. Le università di Milano, Padova, Firenze, Trieste, Napoli e altre hanno aperto un archivio istituzionale consultabile online liberamente. Ai primi di agosto di quest'anno la CRUI ha invitato i docenti a consegnare i prodotti derivati dalla ricerca effettuata con denaro pubblico per diffonderli liberamente. Guerrini riassume: 'La biblioteca moderna è ibrida; è la raccolta tradizionale più questo fondo digitale, fatto di cataloghi, dai documenti messi in rete o da opere nate direttamente online. I servizi hanno a loro volta due dimensioni: al banco e sul sito'. Uno dei problemi aperti resta la conservazione. Se talune biblioteche americane non accettano libri con carta acida (durano meno di quelli del '400), dall'altro lato la memoria digitale non offre ancora soluzioni convincenti. Come salvare il patrimonio per secoli accumulatosi nelle biblioteche? Guerrini ammette: 'La conservazione digitale è un problema aperto. Manca ancora una risposta convincente, ma è il cruccio di ogni innovazione: siamo in cerca del consolidamento. Non tocca solo le biblioteche, investe tutto, dai dati dell'anagrafe ai voli aerei, dalle ferrovie agli ospedali. Nessun supporto al momento garantisce stabilità assoluta." (da Armando Torno, Milano e le biblioteche. La sfida senza confini per salvare la memoria, "Corriere della Sera", 22/08/'09)
Le nostre biblioteche salvate dalle donne
"Donna. Giovanissima. Settentrionale. E' l'identikit di chi frequenta più assiduamente le biblioteche italiane, quello di un'eroina solitaria in un paese che conserva i migliori primati in fatto di scarsi consumi culturali. E che forse a questi primati tiene molto, visto che, messo alle strette finanziariamente, decide comunque di abbattere la scure sul corpo gracilissimo delle biblioteche: la Nazionale di Roma, la più grande biblioteca che ci sia in Italia, aveva nel 2001 uno stanziamento di tre milioni di euro, ma nell'ultimo bilancio dello Stato c'è un milione e mezzo. Meno servizi possono offrire le biblioteche, meno la gente è invogliata a credere che quello sia un luogo utile o piacevole da frequentare. Di biblioteche, ma su scala mondiale, si discute a Milano dal 23 al 27 agosto, in occasione del 75° Congresso mondiale dell'IFLA (la principale associazione internazionale dei bibliotecari). Le biblioteche sono uno dei principali indicatori della cultura diffusa di un Paese. Il loro numero, il loro stato, la loro dislocazione dicono moltissimo sul benessere collettivo di una collettività. 'Tre quarti e più dei Comuni italiani sono privi di biblioteche', spiega Tullio De Mauro linguista e studioso della cultura diffusa. 'Se riuscissimo a trasformare la spesa per aprire biblioteche in spesa obbligatoria, otterremmo ottimi risultati: per metà i libri letti nei Paesi a più alto sviluppo della lettura, da New York alla Spagna, sono proprio quelli consultati o presi in prestito dalle biblioteche'. Il sistema italiano è molto complesso. Ci sono le grandi biblioteche nazionali (Roma, Firenze), le meravigliose biblioteche di conservazione (a Roma la Casanatense, la Vallicelliana, l'Angelica, ma anche l'Apostolica in Vaticano, l'Ariostea a Ferrara, la Braidense, l'Ambrosiana, la Trivulziana a Milano), adibite soprattutto a tutelare un patrimonio librario antico e preziosissimo. E poi le biblioteche comunali, provinciali, universitarie, scolastiche. Secondo l'ICCU le biblioteche in Italia sono 12400. Ma altri ne contano almeno quindicimila. Solo l'11,7% degli italiani, seimilioni e centomila persone, è andato in una biblioteca almeno una volta nei dodici mesi precedenti il 2007, quando l'ISTAT ha condotto l'ultima delle sue indagini sulla lettura in Italia. E negli altri Paesi? In Gran Bretagna il 58% della popolazione possiede una tessera di biblioteca. In Spagna gli iscritti nel 2006 erano il 23% degli abitanti. In Francia sono il 20%, ma i francesi che sono andati almeno una volta in biblioteca nell'ultimo anno sono il 35%. Chi va in biblioteca in Italia? Oltre la metà di quell'11,7% c'è andato per studio o per lavoro. L'abitudine poi, è abbastanza diffusa tra i più giovani: il 38% dei ragazzi fra gli 11 e i 14 anni, il 34% di quelli fra i 15 e i 17 anni. Dopo i trentaquattro anni, i frequentatori scendono sotto il 10%. Le donne frequentano le biblioteche più degli uomini (13,2% contro 10,1%). Le biblioteche sono più freqentate nel nord-est (16,1%), poi nel nord-ovest (13,5%) e nel centro (11,1%). Sensibilmente più bassa è la percentuale dei meridionali (7,7%) e degli abitanti di Sardegna e Sicilia. In Trentino Alto Adige e in Val d'Aosta si va in biblioteca spessissimo (28,8% e 27%). La quota più bassa è in Campania (6,2%). Ma qui torna il corto circuito fra domanda e offerta: le biblioteche sono concentrate al nord per oltre il 50%, al centro sono il 20,6%, al sud il 28,6%. De Mauro segnala come, fra i motivi che i non lettori hanno indicato quale causa della scarsa dimestichezza con i libri, solo un 3% diceva: 'Non leggo perché non trovo biblioteche'. 'Vuole dire', chiosa De Mauro, 'che non esiste neanche la consapevolezza dell'esistenza di luoghi pubblici dove si possono avere in prestito o leggere libri. D'altronde sono in pochi a sapere che prima dei bombardamenti americani Bagdad offriva più luoghi di lettura pubblica che non Roma'." (da Francesco Erbani, Le nostre biblioteche salvate dalle donne, "La Repubblica", 22/08/'09)
venerdì 21 agosto 2009
10 dicembre 1198. Sul tappeto volante con Averroè
"Mi chiamo Yakub Ibn Mansur, sono le 19 del 10 dicembre 1198 dell'era cristiana. Mi trovo a Marrakesh la rossa, la più bella e più grande città del nostro regno. Una pioggia torrenziale si è abbattuta sulla città, come ad annunciare la fine di un'epoca. Stamattina, prima della preghiera del mezzogiorno, è accaduta una cosa terribile. Il maestro, di cui sono stato per quarant'anni fedele servitore, è stato richiamato da Dio onnipotente e misericordioso. Ora nessuno sa che cosa succederà, ma certo qualcosa di grave si abbatterà sulla terra dell'Islam. Erano giorni che il mio maestro - che fu filosofo, giurista e medico, che fu il grande cadi di Siviglia, chiamato "il filosofo di Al Andalus" - si sentiva male. Ma avendo vissuto con lui per così tanto tempo non potevo immaginare la sua morte. Avevamo superato insieme tante prove; lui aveva conosciuto l'onore e la gloria, la paura e l'esilio, lui che era stato chiamato da tutti gli emiri e i principi di Al Andalus, lui che era stato amico degli ebrei e dei cristiani, ma fu combattuto proprio dai suoi fratelli musulmani. Qualche settimana fa, mentre rivedevamo insieme il commento al Trattato dell'anima di Aristotele, mi narrò di uno strano sogno che aveva fatto.
Caro Yakub - mi disse - il mio soggiorno sulla terra sta per concludersi, Dio mi ha richiamato. Mi trovavo su un fiume, seduto su un fiore di loto. Il fiume sfociava in un sentiero, che era chiamato «sentiero dei quaranta giorni», e sai che per noi fedeli dell'Islam, dal momento in cui Dio richiama, devono passare quaranta giorni perché l'anima possa incontrarsi con i due angeli Minkar e Munkar, guardiani del Paradiso. Io mi sentivo stanco, sfinito, ma per fortuna non ero solo, anche tu eri lì con me. Mi resi conto allora che l'anima ha bisogno anche del riposo. Il tuo sostegno era impagabile, e la tua presenza era importante anche perché avresti dovuto in seguito raccontare laggiù sulla Terra tutto ciò che sarebbe accaduto lì.
Mentre stavo per addormentarmi udii uno strano suono, una specie di musica celeste: annunciava l'arrivo dei due angeli, per sottopormi a quell'ultima prova. Mi dissero: «Tu sai che è scritto nel nobile Corano: "Chi avrà fatto un atomo di bene lo vedrà, chi avrà fatto un atomo di male lo vedrà"». I due angeli si consultarono. La lista delle opere buone era infinita. L'angelo Minkar mi disse: «So che hai voluto far progredire l'umanità con i tuoi pensieri e i tuoi scritti. Sei stato un ponte verso la conoscenza. Ma gli uomini spesso non vedono i ponti, sono anzi tentati di distruggerli. Perciò ti hanno mandato in esilio e hanno bruciato i tuoi libri. Ma ricorda: si possono bruciare quanti libri si vuole, ma le idee, l'amore per la giustizia e per la conoscenza nessuno li può distruggere».
Munkar, che sembrava infastidito dalla mia aura di sapienza, decise di mettermi alla prova. «O tu sapiente dei mondi, non metto in dubbio ciò che hai fatto. Ma voglio avene la conferma». Munkar prese due chiavi e mi disse: «Scegline una. Se la tua purezza e la tua sete di conoscenza sono autentiche, una delle due chiavi ti aprirà la porta del regno del mondo sul mondo. Lì vedrai una folla di persone che ti accoglierà in un giardino meraviglioso. Vedrai due rose, una bianca e una rosata, una di Isfahan e l'altra di Zagora, nei pressi di Marrakesh. Ne aspirerai l'incantevole profumo e allora qualcosa accadrà». Senza pensarci due volte presi una delle due chiavi, mi avvicinai alla porta di smeraldo e al primo giro di chiave la porta si aprì. Vidi un'immensa corte circondata da un giardino circolare: appena entrai, una folla mi applaudì. Era strano, con essi io parlavo la mia lingua, l'arabo, e loro - filosofi di lingue diverse: tedesco, latino, hindi, cinese e molte altre - mi comprendevano e tutti si comprendevano tra loro. Le lingue si erano liberate dai loro codici e la grammatica era unica, universale: tutti ci capivamo. Proprio quel giorno, sapendo del mio arrivo, avevano deciso di festeggiare. Filosofi, pittori, scienziati, architetti e tutti i generi di artisti e intellettuali, le migliori menti dell'umanità, si erano riuniti.
Un angelo mi fece da guida e mi presentò gli ospiti. Fui molto incuriosito da un personaggio seduto in un angolo che tracciava disegni e calcoli su un foglio. Mi spiegarono che si trattava di Leonardo da Vinci, che stava progettando un ampliamento del palazzo e cercava d'inventare una macchina per salvare la Terra. Un po' più a destra, due tedeschi erano quasi sul punto di venire alle mani. Erano Friedrich Nietzsche e Martin Heidegger. Giorni prima, mi disse l'angelo, si erano azzuffati a motivo di una filosofa, Hannah Arendt. Seduto su una panca, c'era un uomo dall'aria mite che stava leggendo proprio alcune delle mie opere. Mi avvicinò e facemmo amicizia: in pochi attimi eravamo divenuti indispensabili l'uno all'altro. Era san Tommaso d'Aquino. Era così felice di incontrami che m'invitò dicendomi che mi avrebbe mostrato una sorpresa. Mi portò in una stanza dove vidi un giovane di nome Raffaello che stava dipingendo il mio ritratto. La mia guida mi ricordò che avrei dovuto aspirare il profumo delle due rose. Mi avvicinai e ne aspirai il profumo. Immediatamente la mia anima fu rivestita di un nuovo corpo: mi trovavo in mezzo al giardino sdraiato su un tappeto di Shiraz: era con me il mio fedele servitore, Yakub. Il tappeto si alzò e uscì dall'eternità per entrare nel tempo dei mondi e rivisitare la Terra. Che cosa era accaduto e che cosa accadrà ora? Gli angeli della porta di smeraldo mi avevano chiesto un nuovo commento. In questo nuovo viaggio il tempo si era dilatato. Mi ritrovavo a rivivere il mio processo a Cordoba e gli incubi che non mi avevano mai abbandonato: i miei libri bruciati sulla piazza pubblica, le denunce che mi piovevano addosso semplicemente perché avevo affermato che ragione e fede non sono antitetiche ma possono essere complementari, l'una sostiene l'altra come la ninfea che si espande sull'acqua del fiume. I più duri fra i teologi mi minacciavano perché ero consigliere dei principi, ma io ricordai loro una frase di Platone nella Repubblica: «Le cose andranno male in politica finché i filosofi non diverranno re nella città, o finché questi ultimi non divengano seri filosofi». Era una strana epoca quella: i miei commenti facevano tremare di più i religiosi che i potenti. Perciò fui mandato in esilio a Lucena, vicino Granada, per dieci anni. Ruotando il tappeto di un giro completo raggiunsi un altro spazio-tempo. Stavo quasi cadendo dal tappeto quando una donna velata mi spinse per impedirmi di cadere e mi disse: «Guarda laggiù!». Vidi una cosa atroce. Una folla guardava una donna che sarebbe stata abbattuta a fucilate come un cane, al grido di «Dio è grande! Dio è grande!». Più oltre, vidi folle di ragazzi e ragazze che gridavano «Libertà!»; poi vidi altre terre che ardevano sotto un calore innaturale, e dove si combattevano guerre senza fine. Questo era il paesaggio della Terra, e confermava ciò che avevo scritto 900 anni prima di allora: «Hanno di fatto precipitato la gente nell'odio, la mutua esecrazione delle guerre, hanno strappato a pezzi la Rivelazione, e hanno diviso tra loro gli uomini». Dinanzi allo spettacolo di quella devastazione, cercai di parlare con alcuni dei sovrani di quel tempo per mostrar loro che la fede non può essere un campo di battaglia: la fede è altro, è come il profumo di una rosa, rende la vita più bella e sopportabile. Ma non vollero ascoltarmi. In un istante ero tornato alla porta di smeraldo, e lì accorsero i miei amici a chiedermi che cosa avessi visto e udito sulla terra del futuro. «La terra sta molto male», dissi. Raffaello vide il mio volto intristito: «Ascolta, Averroè. Vedrai, la bellezza salverà la Terra. Leonardo inventerà una macchina per salvarla. E io dipingerò ancora la bellezza». Sì, ma voi non sapete, dissi. Gli esseri umani, laggiù, bruciando tutto, hanno distrutto anche le idee. Non sanno più nemmeno che cosa significhi amare il prossimo, guardare un campo di fiori. Hannah Arendt mi si avvicinò e mi disse: è per mostrare questo che ho scritto a proposito della banalità del male. Hai scritto bene, le dissi, so che anche la tua comunità ha vissuto un'immensa tragedia. Ma il problema è che lì non c'è più nemmeno il problema dell'esistenza del male, c'è il regno di una violenza ovunque diffusa: perché il male ci obbliga ad andare verso il bene per superarlo. Hai ragione, rispose lei, il mondo ha bisogno di nuove idee. Perciò gli esseri umani devono riconciliarsi con se stessi, la loro anima con il loro corpo, e l'eternità con il mondo.
Io, Yakub al Mansur, capii in quel giorno del 1198 che l'eternità e la ragione sono le due luci che illuminano il sentiero dell'umanità. Se manca una delle due, essa rischia di sprofondare nell'oscurità più buia." (da Khaled Fouad Allam, 10 dicembre 1198. Sul tappeto volante con Averroè, "Il Sole 24 Ore, 21/08/'09)
Porto il velo, adoro i Queen di Sumaya Abdel Qader
"'O voi che credete! Vi è prescritto il digiuno, come fu prescritto a coloro che furono prima di voi, nella speranza che voi possiate divenire timorati di Dio.' (sura II, v.183)
Questo è il versetto che nel Corano sancisce il Digiuno come pratica di adorazione e atto di fede verso Dio. Il Digiuno cade il nono mese dell'anno lunare chiamato appunto Ramadan. In considerazione del fatto che i mesi lunari sono alternativamente di 29 e 30 giorni, l'anno lunare in tutto è di 354 giorni e scala ogni anno indietro di undici giorni rispetto a quello solare. La legge islamica stabilisce che per dichiarare iniziato il mese del Ramadan ci si basa su testimoni oculari e affidabili che dichiarino avanti a un giudice di aver visto la nuova luna del mese. Oggi però molti Paesi e Comunità islamiche nel mondo si affidano ai moderni calcoli astronomici. Per questo il giorno 20 Shaban 1430 – corrispondente all'11 agosto 2009- il Consiglio Islamico Europeo per la Fatwa e la Ricerca ha decretato il primo giorno di Ramadan venerdì 21 agosto 2009 in base a tali calcoli. I musulmani italiani dunque inizieranno il digiuno tale giorno.
Quarto dei 5 pilastri dell'Islam (gli altri sono la testimonianza di fede nel Dio unico e nel Profeta Mohammad di Dio, la Preghiera 5 volte al giorno, la Zakat ovvero l'imposta coranica devoluta ai bisognosi, e il Pellegrinaggio almeno una volta nella vita per chi puo') riunisce ogni anno tutti i musulmani in un unica pratica fortemente sentita e praticata. Oltre ad adempiere ad una prescrizione il Digiuno è occasione di purificazione spirituale e fisica una scuola che educa alla pazienza e al senso del sacrificio. Ci si astiene dalle principali e istintive pratiche umane: il mangiare, il bere e le relazioni sessuali, dalle prime luci del giorno fino al tramonto.
Sono tenuti a seguire tale astinenza tutti gli adulti uomini e donne di sana costituzione. Sono esenti i bambini, i malati, le donne gravide, le donne che allattano, coloro che si trovano in viaggio ...
Ramadan ha una importanza doppia in quanto in una delle sue notti il Profeta Muhammad ricevette per la prima volta il messaggio divino, questa notte è ricordata come 'la Notte del Destino' (Lailat-ul-Qadr). Non si sa con precisione quale fosse, ma secondo la tradizione, essa è una delle notti dispari degli ultimi dieci giorni del mese. Per tradizione, è ricordata nella notte precedente il ventisettesimo giorno di Ramadan.
'In verità, lo abbiamo fatto discendere nella Notte del Destino, e chi potrà farti comprendere cos'è la Notte del Destino? La Notte del Destino è migliore di mille mesi. In essa discendono gli angeli e lo Spirito, col permesso del loro Signore, per fissare ogni decreto. E' pace, fino al levarsi dell'alba' (Corano, 97:1-5).
Purtroppo però negli anni passati in Italia questo mese sacro è stato ricordato negativamente a causa di singoli casi in cui dei bambini digiunavano a scuola. Questo non ha evitato le polemiche sulla presunta tendenza dei musulmani a obbligare i bambini a digiunare. Tendenza non confermata per le ragioni sopra citate ovvero perché il digiuno non è imposto ai bimbi. Accade si però che molti fanciulli vogliano vivere con gli adulti l'atmosfera del digiuno e sentirsi parte dei grandi 'digiunando' a loro modo facendo a gara a quante merendine o cioccolatini si rinuncia.
La polemica di quest'anno invece ci sposta verso gli adulti lavoratori. Alcuni datori di lavoro mantovani ad esempio, preoccupati per la salute dei loro dipendenti (o forse per il loro rendimento) li diffidano dal digiunare sentendosi in diritto anche poterli licenziare in caso questi si ostinassero a seguire il digiuno. Chiedono ai loro dipendenti soltanto di bere, affermano, ignorando che il bere rompe il digiuno rendendolo nullo. Da più di 1400 anni i musulmani vivono il mese di Ramadan e il digiuno non ha creato problemi di rendimento significativi. Inoltre sta al singolo valutare se il digiuno può diventare rischioso per la sua vita o meno, con la possibilità di interromperlo: la Vita nell'Islam è prioritaria ad ogni prescrizione o regola.
Ramadan è un mese fortemente sentito dai musulmani. È il precetto forse più praticato. Difficile chiedergli di rinunciarvi. Perché poi? Vissuto con profonda devozione è anche un momento di unità e ritrovo dei fedeli, di veglie notturne in preghiera, di lettura del Corano, di rottura del digiuno insieme ad amici e parenti.
Chi scrive, in questo momento, si trova in Giordania e vive il clima di preparazione intenso e gioioso. Un po' come a Natale le case e le strade si riempono di luci, addobbi e profumi di dolci preparati solo per l'occasione. Si organizzano le serate tra amici per mangiare insieme. In cucina si appende il calendario con l'orario delle preghiere e della rottura del digiuno che i bambini si divertiranno a spuntare giorno dopo giorno in attesa del loro giorno preferito, l'Id, ovvero la festa di fine Ramadan, giornata di regali per i più piccoli. Anche molte persone della comunità cristiana addobbano le proprie case per l'occasione. Vicine di casa, cristiane e musulmane insieme preparano i dolci tipici di questo mese, colmi di cocco, noci, pistacchio e creme varie. Così come molti di noi musulmani in Italia a Natale ci ritrociamo con i nostri amici italiani cristiani ad addobbare l'albero di Natale o mangiare assieme per il pranzo di Natale. Segni di umana convivenza spesso espressa in piccoli gesti che allontanano ogni paura e incomprensione, lasciando spazio alla sana amicizia e voglia di stare serenamente insieme, gustando la «diversità» che ogni cultura, tradizione o religione portano in sé. Benvenuto Ramadan e auguri a tutti i musulmani." (da Sumaya Abdel Qader, Io, giovane musulmana vi spiego cos'è il Ramadan, "Il Sole 24 Ore", 20/08/'09)
Milano capitale mondiale delle biblioteche: cinque giornate a tutto volume
"Nove mostre sui libri e un concerto gratuito in Duomo: è il menù che il pubblico potrà assaggiare nei cinque giorni dedicati al congresso mondiale dei bibliotecari. Da domenica prossima a giovedì 27 agosto, quattromila delegati da tutti i Paesi discuteranno del futuro delle biblioteche, tra novità e tradizione. Da 45 anni non approdava a Milano il congresso dell'IFLA che rappresenta 500.000 biblioteche nel mondo. La 75esima edizione, "Libraries Create Future: Building on cultural Heritage, verrà inaugurata domenica alle 9, alla presenza del sindaco Letizia Moratti nell'auditorium del MIC, sede del congresso, aperto però, solo ai delegati. 'Milano è tra le principali città europee che per prime hanno guardato al futuro delle biblioteche andando incontro alle esigenze di una società dove le biblioteche diventano punti di snodo cruciali di una realtà sociale tecnicamente in crescita e sempre più multiculturale'. Mauro Guerrini presidente dell'Associazione Italiana Biblioteche e del Comitato nazionale IFLA, così descrive la situazione di questo settore in città e nella nostra regione, dove 'esiste una grande varietà di biblioteche, 1300 pubbliche, oltre a 800 istituti di ricerca e di conservazione, alcune ospitate in edifici storici con ricche collezioni'. Nel congresso si affronteranno i temi delle funzioni moderne delle biblioteche, della digitalizzazione e della tutela del copyright, fino all'architettura degli spazi, passando attraverso i servizi bibliotecari per popolazioni multiculturali e la sensibilizazione sulla sostenibilità, i servizi per persone con disabilità di lettura e le nuove competenze richieste alla figura del bibliotecario. Martedì i lavori saranno aperti da un intervento di Carla Fracci dedicato alla cultura e all'arte nel mondo; nel pomeriggio verrà annunciato il nome della biblioteca che ha vinto il prestigioso premio Bill & Melinda Gates per l'accesso all'apprendimento, rivolto a biblioteche pubbliche che, fuori dagli Stati Uniti, si sono dimostrate particolarmente innovative.
LE MOSTRE. Tema comune delle nove mostre, il libro attraverso i secoli. L'ingresso è gratuito in tutte le esposizioni, esclusa l'Ambrosiana che propone alcuni testi sacri delle tre religioni monoteiste, cristianesimo, islam e ebraismo. La Braidense esplora in 'Copy in Italy' il successo degli scrittori italiani all'estero dal 1945 ad oggi (a cura della Fondazione Mondadori), la Trivulziana espone le legature storiche e di pregio delle proprie colelzioni, tra codici medievali e volumi antichi. La biblioteca Sormani sceglie di puntare su una rassegna di lettere per dimostrare la 'vitalità inesauribile della scrittura epistolare nell'era della comunicazione digitale', mentre la biblioteca di via Senato offre testi di due filosofi italiani ribelli, censurati e perseguitati tra '500 e '600, Giordano Bruno e Tommaso Campanella. I momenti di lettura nei luoghi più diversi del mondo sono documentati, invece, nella mostra fotografica 'Leggermente' alla biblioteca di Rozzano. [...]" (da Anna Cirillo, Milano capitale mondiale delle biblioteche: cinque giornate a tutto volume, "La Repubblica", 20/08/'09)
mercoledì 19 agosto 2009
A sorpresa l'inno di Mameli, poi il voto
"Ventidue dicembre 1947. È pomeriggio. Dinanzi a Montecitorio, sotto la scalinata, va addensandosi una piccola folla trepidante. Gruppi di liceali, e uomini con la barba mal rasata, e donne strette in un paltò di panno scuro lungo fino ai piedi, come s'usava allora. Infine il campanone di Montecitorio suona a distesa nella piazza, mentre la facciata del vecchio palazzo s'accende di centinaia di luci come una luminaria. Luci e bagliori anche dentro l'aula, dove i fotografi fanno scattare le loro macchine al lampo di magnesio. Con 453 voti favorevoli e 62 contrari, è appena stata battezzata la Costituzione della nuova Repubblica italiana.
Ecco, avrei voluto esserci, in quell'inverno romano. Anche se le cronache lo descrivono rigido, piovoso, spazzolato dalla tramontana. Anche se a quel tempo una tazzina di caffè era un lusso per pochi, e d'altronde tra il 1938 e il 1945 gli italiani avevano perso metà del proprio reddito. Anche se una casa su quattro era priva di cucina, una su due mancava dell'acqua corrente, tre su quattro non avevano neppure il bagno. Ma sta di fatto che in quest'agosto del 2009 il caldo sta squagliando il nostro tessuto connettivo, la ragnatela d'assonanze e consonanze che fa d'un aggregato umano una nazione. Guelfi a incrociar la spada con i ghibellini per la pillola Ru486 o per l'ora di religione, partito del Sud dopo il partito del Nord, dialetti obbligatori, l'inno nazionale preso a calci, corporazioni armate l'una contro l'altra, gabbie salariali, altrettante gabbie per i cittadini e per i non cittadini, per i figli d'arte e per i figli di nessuno. L'Italia è una penisola, si trova scritto nei libri di geografia. No, è diventata un arcipelago, una polvere di isole arroccate e con i porti chiusi, dove il tuo vicino è anche il tuo più irriducibile nemico.
Non che i costituenti, durante quella vigilia di Natale, suonassero tutti il medesimo spartito. Se è per questo, non cantava all'unisono nemmeno il popolo italiano. La guerra fascista, e poi la guerra civile antifascista, avevano lasciato sul terreno macerie morali e materiali. Nel dopoguerra tra i democristiani di De Gasperi e i comunisti di Togliatti c'era molta più distanza - in termini di programmi, di strategie politiche, di concezioni sociali e culturali - di quanta oggi ne corra tra Franceschini e Berlusconi. Sfogliando gli otto volumoni grigi che raccolgono i lavori dell'Assemblea costituente, chiunque può riascoltare l'eco di quei dibattiti infuocati. Talvolta con i due partiti maggiori schierati su trincee contrapposte, come accadde per la Corte costituzionale e le regioni. Talvolta con la miccia del dissenso accesa dentro lo stesso fronte, a dividere i compagni e gli alleati: avvenne per l'articolo 7 sui Patti lateranensi, quando Nenni si dissociò aspramente dal voto favorevole deciso da Togliatti.
Del resto, nemmeno il risultato complessivo di quei 18 mesi di lavoro - la Carta democratica - passò indenne da critiche e censure. E a pronunziarle non fu soltanto la stampa di destra, come il Tempo di Roma, che l'indomani bersagliò a colpi di fucile la troppa solennità dell'evento, ironizzando su ingegneri e architetti che s'applaudono da soli. Si può rievocare per esempio Piero Calamandrei, costituente fra i più illustri, che paragonò il testo venuto fuori dal confronto tra i partiti a un libertino di mezza età, cui un'amante giovane abbia strappato via tutti i capelli bianchi per ringiovanirlo, mentre l'anziana moglie gli abbia tolto quelli neri per renderlo più vecchio. Col risultato che il libertino rimase infine con la testa completamente calva. E Salvemini? Un «pateracchio», così aveva definito la nuova Costituzione. E Croce? Un compromesso di basso profilo, «un reciproco concedere e ottenere».
Eppure è di quel dialogo che adesso s'avverte la mancanza. Di quella capacità d'ascoltare le ragioni altrui, senza sopraffarle gonfiando tendini e bicipiti. Dopotutto sessant'anni addietro ci riuscirono non solo filosovietici e filoamericani, ma inoltre le opposte tifoserie della Repubblica e della monarchia, nonostante il referendum lacerante del 2 giugno 1946. Tant'è che i primi due presidenti della neonata Repubblica furono entrambi uomini di simpatie monarchiche: Enrico De Nicola e Luigi Einaudi. Insomma, quei nostri lontani genitori arrivarono a siglare un compromesso, e i compromessi - diceva Kelsen - sono l'essenza della democrazia parlamentare. Ci arrivarono per i loro meriti specifici, però anche perché là fuori gli astanti ne rispettarono il lavoro, proteggendolo con una cortina di silenzio. Sui giornali di quattro pagine che si pubblicavano a quell'epoca, le notizie sulle scelte costituzionali che l'assemblea veniva maturando erano scisse dalla cronaca politica, spesso incorniciate in un riquadro. E infatti il comunista Terracini continuò a guidare con vigore l'opera dei costituenti pur dopo la frattura con De Gasperi; senza veti, senza alcuna delegittimazione.
Può darsi che questo racconto suoni un po' retorico. Sarebbe il peggior torto alla memoria, imbalsamare il morto per occultarne i lineamenti. Ma è un dato di fatto che quell'inverno l'unità prevalse sulla divisione. Anche il testo della Carta riflette un'impostazione unica, benché tre bicamerali e innumerevoli altri tentativi abbiano poi cercato d'amputarne la seconda parte. La prova? Ne offrirò una su cui anni addietro mi aprì gli occhi un vecchio professore, che nella Prima Repubblica fu anche un politico importante. Quanti erano gli articoli cuciti sul vestito della Costituzione? 139: dunque uno, tre, nove. E le disposizioni transitorie e finali, che fanno da appendice alla Carta costituzionale vera e propria? Quelle sono 18, altro multiplo di tre. Non è curioso? Tanto più a considerare che la media dei commi per articolo fa esattamente tre; che la topografia della Costituzione di nuovo si divide in tre, con un incipit sui principi fondamentali staccato dalla prima e dalla seconda parte; che i principi fondamentali a loro volta corrono lungo 12 articoli, un altro multiplo di tre; che fra tali principi la disposizione più pregnante, quella più carica di sostanza politica e civile, è senza dubbio l'articolo 3, dove si situa la garanzia dell'eguaglianza; che la seconda parte del documento costituzionale si disloca per sei titoli: ancora un doppio tre; che il titolo terzo (quello sul governo) si divide in tre sezioni. Soltanto un caso, una somma di fortuite coincidenze? Può darsi. Però il tre, sintesi del pari e del dispari, era considerato dai pitagorici il numero perfetto; il suo potere sacro fu riconosciuto inoltre dalla kabbalà, la cui dottrina si formò del resto sotto l'influsso della scuola neo-pitagorica; e per tradizione la massoneria ha sempre strizzato l'occhio alle scienze cabalistiche. Forse fu anche questo il collante dei costituenti, o almeno del comitato di redazione che assemblò alla fine il testo.
Ma il cemento che li teneva insieme era inoltre il gusto per la storia, l'educazione ai classici, in una parola la cultura. La rivoluzione francese venne ricordata per 64 volte nel corso del dibattito; Mazzini e Cavour ottennero un centinaio di citazioni a testa; in sette casi risuonò perfino il nome di Maometto. E c'era infine, a unire donne e uomini così diversi per fede politica, per età, per estrazione sociale - di qua i "professorini" cattolici come Moro e Dossetti, di là un bracciante agricolo come Di Vittorio - un vissuto comune, un'esperienza affratellante. La guerra, ma ancora prima il rifiuto della camicia nera. Difatti le galere fasciste si aprirono per Gramsci e per Pertini, ma anche per De Gasperi. A Napoli fu devastata la casa di Benedetto Croce al pari di quella di Arturo Labriola. E don Sturzo sperimentò l'esilio non diversamente da Togliatti.
Insomma a quella generazione capitò in sorte d'attraversare un tornante della storia, uno di quei frangenti eccezionali nella vita dei popoli da cui dipende la loro libertà, la pace, il benessere, l'indipendenza nazionale. Furono speciali loro, ma soprattutto fu speciale l'epoca in cui vissero. Da qui il diritto di forgiare istituzioni vincolanti per le generazioni che verranno dopo: un privilegio che agli uomini generalmente non è dato - diceva John Adams, il secondo presidente americano - così come nessuno può mai scegliersi la terra su cui nasce. Un tempo eccezionale genera tempre eccezionali; dalle grandi tragedie collettive sorgono i popoli più grandi, più coesi. Significa che dobbiamo augurarci un'altra guerra per ritrovare la nostra identità perduta? Se il prezzo è così alto, allora no, quel giorno non vorrei affatto viverlo. Ma c'è invece un momento del 22 dicembre 1947 che mi sarebbe piaciuto assaporare, magari intabarrato in mezzo al pubblico nelle tribune di Montecitorio, sbirciando dall'alto la cerimonia conclusiva.
Fu quando Meuccio Ruini - che aveva presieduto la commissione dei 75, ossia la fucina in cui venne coniato il progetto di Costituzione - consegnò nelle mani di Umberto Terracini il testo. Ecco, in quell'istante un gruppo di garibaldini, vecchi reduci della battaglia di Domokos (1897) tra greci e turchi, che avevano preso posto su nelle tribune con le loro chiome incanutite e la camicia rossa, intonò l'inno di Mameli. Lui, Terracini, fu preso alla sprovvista dal fuoriprogramma, e reagì con imbarazzo; ma subito vi s'associò l'intera assemblea, e anche il pubblico cominciò a cantare il nostro inno nazionale. Così gli italiani seppero già d'avere la loro Costituzione, benché ancora i costituenti non l'avessero votata. Teniamocela cara." (da Michele Ainis, A sorpresa l'inno di Mameli, poi il voto, "Il Sole 24 Ore", 19/08/'09)
Fernanda Pivano: da Spoon River ai Beat così ci ha fatto scoprire l'America
"Pensare che Fernanda Pivano non c'è più, che non c'è più la Nanda, come la chiamavano gli amici e chi le voleva bene, dà una strana sensazione: come se si fosse interrotto un filo diretto, un rapporto vitale e viscerale con un'esperienza, un pezzo di storia, un patrimonio letterario e culturale. Questa esperienza e questo pezzo di storia è il rapporto dell'Italia, e non solo, con la letteratura americana di mezzo secolo, che ha trovato in Fernanda Pivano l'ambasciatrice, la coprotagonista, e, per così dire, la levatrice. Perché Fernanda Pivano, che se ne è andata ieri a Milano, a novantadue anni (era nata il 18 luglio del 1917), è stata molto di più che la grande traduttrice, l'amica di tutto un mondo di letterati e di poeti, la signora che aveva conosciuto tutti e che su tutti - da Hemingway a Ginsberg, da Gregory Corso a Pavese - aveva una storia di prima mano da raccontare. E' stata la lettrice appassionata, la consigliera, la suggeritrice, l'eminenza grigia di un mondo culturale che attorno a lei e secondo i suoi consigli e le sue scoperte si è mosso per decretare notorietà e successi, linee letterarie e cose da pubblicare. [...] Ha conosciuto tutti, nella sua lunga e ricca vita, Fernanda Pivano. E troppo spesso l'aneddotica su questa vita e questi incontri ha sopraffatto e messo in ombra la vera qualità del suo lavoro, la passione onnivora per la lettura e per la lingua inglese - anzi, dovremmo dire una cosa che in teoria non esiste come tale, la lingua americana. Una lingua e una letteratura che è stato Cesare Pavese a insegnarle ad amare, mettendole in mano i testi di L'antologia di Spoon River, di Foglie d'erba e l'autobiografia di Sherwood Anderson, fino a che la ragazzina sua allieva non ha deciso, unilateralmente, di tradurre il capolavoro di Edgar Lee Masters, fino a che lui non lo ha scoperto per caso, e fino a che questa traduzione clandestina non è stata presa da Einaudi su suggerimento dello scrittore, diventando anche per l'Italia il classico che è. Fernanda Pivano era nata a Genova, da una famiglia borghese e colta, con un padre banchiere e agente di cambio dalle incerte fortune. A dodici anni la famiglia si era trasferita a Torino, lasciandole una grande nostalgia della luce e degli alberi della sua Liguria. Era carina, molto carina, la giovane Nanda, come ha continuato a essere anche nel corso del tempo, con una grazia un po' da elfo, e la curiosità di una adolescente vorace. A Torino, al Liceo D'Azeglio, ha avuto la straordinaria avventura di essere allieva di Cesare Pavese, che l'ha tirata su a dosi di Momigliano e di de Sanctis e più tardi l'ha introdotta alla letteratura americana (ma nessun amore, ci teneva a dire Fernanda, leggende, come per Hemingway), e le ha insegnato, con la matita rossa e blu in mano, quel mestiere del tradurre che lei avrebbe portato ad altissimi livelli. Nella grigia Torino degli anni di guerra è stata arrestata dalle SS, che avevano trovato nella sede della Einaudi il contratto per la traduzione di Addio alle armi - e raccontava di essere stata liberata perché li aveva imbambolati con le sue chiacchiere. Da Torino è partita, dopo la laurea (per la verità ne aveva due), con una borsa di studio alla volta degli Stati Uniti, dove il suo grand tour è stato un giro delle case degli scrittori che amava -Faulkner, Dos Passos, Hemingway, il cimitero di Edgar Lee Masters. Dall'America, con cui aprì allora un canale di amicizia e di scambio che non si è mai chiuso, è ritornata con un carico di esperienze, di contatti e di conoscenza che ha arricchito la cultura italiana del dopoguerra di voci e di presenze fondamentali. Ha creato amicizie indistruttibili con Hemingway, che di passaggio a Cortina la mandò a chiamare per conoscere la sua audace traduttrice italiana saldando così un rapporto che durerà fino alla morte di 'Papa', con Ginsberg, con Jack kerouac e tutti i ragazzi della Beat Generation, con Henry Miller, con Bukowski, con Burroughs. [...]" (da Irene Bignardi, Fernanda Pivano: da Spoon River ai Beat così ci ha fatto scoprire l'America, "La Repubblica", 19/08/'09)
Quando portò Ginsberg nei salotti di Milano
La Francia cede al gigante Google: "Metterà online la Bibliothèque"
"E alla fine anche il piccolo Davide francese dovette cedere al Golia venuto dall'America. L'immenso patrimonio culturale della Bibliothèque Nationale de France (Bnf) finirà dentro all'impero di Google. Dopo aver tentato invano di lanciare un progetto alternativo al gigante di Silicon Valley, l'istituzione francese ha dovuto gettare la spugna. Nel 2005, il presidente dell'istituzione, Jean-Noel Jeanneney, aveva opposto un secco rifiuto alla proposta degli americani. Ma da allora la Bnf è riuscita a digitalizzare soltanto 10mila volumi ... Una goccia nel mare. La biblioteca francese ha infatti oltre 30 milioni di opere nel suo fondo patrimoniale. Nello stesso periodo, Google ha già messo nella suo motore di ricerca 10 milioni di e-book. Il servizio proposto dagli americani si è insomma dimostrato molto più efficiente e rapido. Ma soprattutto è offerto gratuitamente alle biblioteche che mai come oggi sono a corto di finanziamenti pubblici e privati. I dirigenti francesi hanno calcolato che per ogni pagina di libro trasformata in formato elettronico hanno dovuto spendere fino a 0,74 euro. Lo Stato stanzia ogni anno 5 milioni di euro per la collezione creata nel lontano 1300 da Carlo V e per la quale Mitterrand fece costruire nel 1996 la grandiosa sede di Tolbiac, sulla riva destra della Senna.
Troppo poco per entrare a far parte del nuovo secolo digitale. "Soltanto per i fondi patrimoniali della Terza République servirebbero 50 milioni di euro" scrive oggi La Tribune. E' stato il giornale economico a rivelare in prima pagina la trattativa, finora segreta, tra i dirigenti della biblioteca e gli imprenditori statunitensi. "Ne stiamo parlando - ha confermato Denis Bruckmann, direttore generale della Bnf - dovremmo trovare un accordo entro la fine dell'anno". L'adesione dell'istituzione francese alla biblioteca virtuale di Google potrebbe segnare un punto di svolta, in un momento in cui il gigante di Internet ha trovato un accordo con gli editori Usa (che dovrà essere vagliato dai giudici) e si appresta a lanciare un servizio di consultazione a pagamento, sul modello di Amazon. Sono già 29 le biblioteche che partecipano all'iniziativa americana. Una delle prime è stata la prestigiosa Bodleian Library di Oxford. Ma qualche mese fa anche la biblioteca di Lione aveva consegnato a Google la sua collezione, anticipando la scelta della "sorella" maggiore di Parigi. 'Continueremo a sviluppare i nostri progetti autonomi - ha precisato Bruckmann - ma se Google ci permette di essere più veloci e arrivare più lontano perché dovremmo rifiutare?'." (da Anais Ginori, La Francia cede al gigante Google: "Metterà online la Bibliothèque", "La Repubblica", 18/08/'09)
'Google voudrait créer la plus grande librairie privée de l'histoire'
martedì 18 agosto 2009
25 dicembre 800. Quella voce in falsetto di Carlo Magno
"È mattina presto, ma i vicoli intorno a San Pietro, la scalinata e il cortile della basilica brulicano già di gente. Immagino che alla messa di Natale officiata dal Papa i fedeli accorrano sempre in massa; ma stavolta c'è una ragione in più per non mancare, la stessa che ha portato qui anche me. Tutti sanno che Carlo, gran re dei Franchi e dei Longobardi, è a Roma e che stamattina sarà acclamato imperatore e augusto. Sono secoli che i romani non assistono a una cerimonia del genere, ma il suo ricordo non è andato perduto, e non c'è abitante dell'Urbe che non voglia essere qui oggi, a sentirsi ancora una volta civis romanus. Ho fatto bene a venire di buon'ora, perché altrimenti rischiavo di non poter entrare.
Attraversare alla luce della luna questa Roma dell'Anno Domini 800 è stata la prima sorpresa. Generazioni di storici ci hanno ripetuto che questi sono secoli bui, e che la Città è ridotta all'ombra della sua antica grandezza, un guscio vuoto dove vivono appena 50mila persone, mentre al tempo dei Cesari ce n'era un milione. Forse dovremmo piuttosto pensare che in questa Europa rurale e spopolata 50mila abitanti sono una cifra favolosa: tanto più che abitano, lavorano e mangiano in uno spazio urbano dove in mezzo alle casupole e agli orti continuano a ergersi i colossali edifici dell'Antichità e le trionfanti basiliche costantiniane. È vero che i quartieri abitati si alternano a lande disabitate, a prati e sterpaglie dove pascolano greggi di pecore e mandrie di bovini; ma quando ci si addentra fra le case e i cortili si sentono parlare tutte le lingue, s'incontrano mercanti ebrei, greci e siriani, monaci armeni o abissini, pellegrini spagnoli o britanni: perché questa città è ancora sospesa fra l'Oriente greco e l'Occidente barbarico, ed è sempre un ombelico del mondo.
Per entrare in San Pietro bisogna già sgomitare. Questo è un altro dei motivi per cui sono qui: vedere con i miei occhi quest'edificio che nessuno ha più potuto vedere da cinquecento anni, da quando i Papi del Rinascimento l'hanno demolito e Michelangelo e Bernini l'hanno rimpiazzato con il San Pietro di oggi. Le altre basiliche paleocristiane ancor oggi esistenti impallidiscono in confronto con questo San Pietro perduto, con la poderosa scalinata d'accesso, il cortile lastricato di porfido, le colonne e le travature gigantesche delle cinque navate, l'oro scintillante dei mosaici. All'interno della basilica la folla si pigia così fitta che odori di ogni sorta, di corpi umani e di roba da mangiare, si alternano alle ondate d'incenso scagliate dai turiboli e al sentore di fumo delle migliaia di candele accese; e benché fuori la mattinata sia tersa e gelida, qui dentro fa perfino caldo.
Sono qui già da un pezzo e non succede niente, tranne ogni tanto l'arrivo di una famiglia di nobili, dai vestiti intessuti d'oro, che avanzano orgogliosi fino alle prime file. Non so che ora sia e del resto non lo sa nessuno, orologi qui non ne esistono. Il mattutino è già suonato da un pezzo, ma quanto tempo manca all'inizio della cerimonia è impossibile saperlo, e comunque nessuno se lo chiede: si aspetta, e basta. Poi, però, sentiamo il rumoreggiare della folla che si accalca all'esterno, punteggiato di acclamazioni, e un attimo dopo le campane cominciano a suonare a distesa: evidentemente, Papa Leone ha aspettato l'arrivo del re prima di far cominciare la messa. La marea di teste umane verso l'ingresso della chiesa comincia ad aprirsi, come il Mar Rosso davanti a Mosé, e nel vano della porta si staglia un gruppo di uomini e donne di alta statura, superiori di tutta la testa rispetto agli indigeni. In mezzo a loro ce n'è uno più alto di tutti: Carlo Magno è arrivato, accompagnato dai suoi figli e soprattutto dalle figlie, da cui non si separa mai, tanto che a questo proposito sono nati pettegolezzi poco simpatici.
Mi sono messo in posizione strategica, e il re mi passa così vicino che potrei toccarlo. Gli archeologi non hanno mentito: è davvero alto un metro e novanta. E non ha mentito il suo biografo Eginardo: ha proprio la testa rotonda, il collo taurino, la pancia prominente, e folti capelli argentati, e gli occhi vivaci. È vero anche quello che si racconta a proposito della sua voce: perché mentre mi passa accanto Carlo dice qualcosa a una delle figlie, e davvero ha una vocina sottile, perfino un po' ridicola per un colosso come questo. Naturalmente porta i baffi, come tutti i franchi attorno a lui, e non la lunga barba bianca che più tardi gli attribuiranno le canzoni di gesta. Questi lunghi mustacchi cadenti, ingrigiti dagli anni, sono l'unica cosa minacciosa in lui; altrimenti dà l'impressione di un uomo allegro e rumoroso, a cui piace divertirsi.
Va a piantarsi davanti all'altare, s'inginocchia sul primo gradino, e tutta la folla s'inginocchia con lui; non ci sono banchi, la messa si segue stando in piedi o in ginocchio, anche quando dura ore come questa messa grande di Natale. Un movimento brusco gli fa scivolare la fibbia del mantello, e qualcuno si affretta ad aggiustarla: si vede che il re non è abituato a portare la clamide purpurea, né la tunica lunga e gli scarpini di seta del costume romano, e che sarebbe molto più a suo agio con le brache, la pelliccia e le pezze da piedi dell'abito franco. Ma certe volte bisogna fare dei sacrifici, e il Papa gli ha spiegato che se uno vuole essere acclamato imperatore romano bisogna che almeno quel giorno si vesta alla romana.
Mi sarebbe piaciuto vedere anche Papa Leone III, cercar d'intuire dalla sua fisionomia le colpe e i vizi a cui fanno oscure allusioni tante fonti dell'epoca, compresa un'imbarazzante lettera di Carlo Magno; e magari anche indovinare se è davvero greco, o forse siriano, come qualcuno ritiene, giacché sono proprio tante le cose che noi storici non sappiamo. Ma il Papa è entrato dal transetto e l'altare è troppo lontano dalla mia postazione; senza contare che naturalmente celebra la messa voltando le spalle ai fedeli. Di liturgia non sono un esperto, perciò non saprei descrivere la cerimonia; mi ricorda le funzioni a cui ho assistito nelle chiese russe, coll'aria che rimbomba del salmodiare dei chierici e delle risposte della folla, l'irrompere improvviso d'un canto così argentino che sembra provenire dal cielo, il luccichio di innumerevoli candele nella penombra, il disordine della folla commossa dove ogni fedele sembra libero di stare in piedi o inginocchiarsi a suo piacimento. Quello che m'importa davvero, però, è non perdere di vista Carlo, nemmeno per un istante. Perché non so in che momento della cerimonia avverrà la cosa più importante, che più di tutte spiega la mia voglia di assistere a questo giorno. Un primo, possibile dubbio è già risolto: a Roma, l'ho detto, tutti sanno che oggi Carlo sarà acclamato imperatore. Ma questo l'ho sempre pensato anch'io: troppi segnali indicano che già da qualche anno, nel palazzo del Laterano come in quello di Aquisgrana, si ragionava dell'opportunità di conferire a Carlo, padrone di quasi tutta l'Europa latina, e protettore della chiesa di Roma, una dignità superiore al suo titolo barbaro di rex, capace di metterlo sullo stesso piano degli orgogliosi imperatori bizantini. Ma allora, perché Eginardo racconta che Carlo non fu per niente contento di quello che accadde in San Pietro, tanto da esclamare che se l'avesse saputo prima non ci sarebbe neanche entrato, e pazienza se era Natale? Questo è l'interrogativo che nessuno studioso ha ancora saputo sbrogliare. Un'ipotesi, naturalmente, ce l'ho, ma l'unico modo per confermarla è di vedere con i miei occhi.
Ed ecco, i chierici assiepati attorno al Papa cominciano a rumoreggiare in un tono inatteso, che con la liturgia della messa non ha proprio niente a che fare. È un'acclamazione molto più antica quella che ora risuona nella basilica: Vivat, vivat Augustus! Vita et victoria! Il popolo accalcato nelle cinque navate fa eco con entusiasmo. È questo il vero rituale con cui si fa un imperatore romano, e se qui si rispettassero le usanze antiche, non ci sarebbe bisogno d'altro. Ma le abitudini, ormai, sono cambiate, e la gente aspetta ancora qualcosa. Carlo, sempre in ginocchio, si agita; probabilmente è già stufo di stare lì, le ginocchia gli fanno male, e del resto ha quasi sessant'anni, il che vuol dire che per quest'epoca è un vecchio. Il Papa, da quel che vedo, si avvicina; ha qualcosa fra le mani che brilla, forse un diadema di perle da allacciare alla nuca come usa il basileus a Costantinopoli, forse una corona d'oro a forma di foglie d'alloro. Prima che Carlo Magno possa rialzarsi per rispondere alle acclamazioni e prendere in mano la corona, il Papa è davanti a lui, e gliela impone sulla testa. Dalla folla si leva un boato; e le esclamazioni che lo punteggiano, ora, non sono più Vivat Augustus, o Vivat Karolus, ma piuttosto, nel latino smozzicato che parla la gente, Viva illa cchiesia romana!
È finita: Carlo è in piedi, si segna, si volge all'uscita. Non è così allegro come dovrebbe essere; anzi, parla fitto con i figli che gli stanno accanto, e ha la faccia scura. Alla fine, è proprio come pensavo. Non l'ha colto di sorpresa il fatto di diventare Augusto, ma il gesto del Papa, che in piedi, davanti a lui inginocchiato, gli ha messo in testa la corona, dimostrando agli occhi del mondo che è la chiesa romana a creare gli imperatori. Carlo, diversamente da me, non sa che innumerevoli monarchi cristiani, nei secoli a venire, si troveranno negli imbrogli a causa di questo gesto; ma è un animale politico, ne ha viste tante in vita sua, e sa benissimo che stamattina quel furfante di Papa Leone gli ha giocato uno sporco tiro." (da Alessandro Barbero, 25 dicembre 800. Quella voce in falsetto di Carlo Magno, "Il Sole 24 Ore", 18/08/'09)
Iscriviti a:
Post (Atom)